Le pettinavo i capelli con le dita inumidite. 

Le mettevo a bagno in un’acqua magica fatta con petali di rosa, margherite del giardino e qualche nocciolo di albicocche, rimasugli dei lunghi pranzi estivi. Poi iniziavo a toccarle i capelli mossi, erano lunghissimi. Fino al sedere. A me non crescevano così tanto, a metà della schiena iniziavano a fare i capricci, a diventare crespi e pieni di doppie punte. 

Lei poggiava il viso sulle mie gambe e mi accarezzava sempre le guance con le sue dita affusolate e delicate, mi disegnava delle linee immaginarie sulle gote che poi io ripercorrevo da sola prima di andare a dormire. Era la mia danza segreta. Io, invece, infilavo le mani nei suoi capelli folti e le districavo piano i nodi. Alcuni erano così decisi che dovevo usare il pettine in legno, quello a denti stretti. Con una mano tenevo ferma una ciocca nella parte alta della cute e con l’altra pettinavo in maniera energica. Ogni tanto, quando le facevo un po’ male, emetteva qualche suono stridulo; allora smettevo. Una volta mi disse: ho sempre pensato che nella mia vita precedente io fossi una libellula, ma credo di essermi sbagliata. Quando parlava così non sapevo bene cosa rispondere, la mia mente concepiva solo cose pratiche: la scuola, la danza, la staccionata che divideva il piccolo orto di mia nonna dal suo giardino. Mi ricordo con un certo imbarazzo che le confessai di non aver mai visto una libellula, lei rispose ridendo: “Ah, voi persone di città”, con quel tono che usava sua mamma quando doveva farmi notare qualcosa. Lo ripeteva in continuazione, “ah, voi persone di città”.

Un giorno mi stavo dondolando sulla grande sedia di legno sotto il porticato, quella che la mia bisnonna chiamava “il trono” perché le sembrava avesse la stessa forma della sedia dei reali inglese. La sedia della gente elegante, della gente perbene. Facevo su e giù, le gambe piegate sul lato destro, le braccia lasciate lungo il corpo e la testa indietro, rilassata. Una mano mi tocca la gamba e mi incita ad alzarmi, mi dice “andiamo”. È lei. Da quella posizione sembra ancora più alta. Ha un vestitino con disegnate sopra alcune petunie, lo so perché ho un piccolo quaderno in cui faccio seccare i fiori e poi li classifico per nome. Il mio preferito è il ciclamino selvatico, quel colore tra il rosa e il violaceo che mi ricorda le labbra di quell’attrice della tv. Lei mi guarda fissa negli occhi, la luce di luglio le definisce il corpo che sembra disegnato con i gessetti colorati. Andiamo al fiume. Lei ha un costume a due pezzi arancione, il sopra è stretto, intravedo i capezzoli turgidi e il neo sporgente che ha sul seno sinistro. L’ho visto una volta di sfuggita quando si è cambiata nella mia stanza da letto. Si era levata la maglietta senza che io avessi il tempo di girarmi, allora ero rimasta a guardarla toccarsi nell’incavo del seno prima di mettersi una canottiera attillata. “Faceva troppo caldo”, diceva, “e tu sei troppo pudica”. Il tono era lo stesso che usava quando diceva “ah, voi persone di città”, poi si era avvicinata e mi aveva sfiorato con le labbra il collo. Io non ero riuscita a dire niente, ma ricordo solo una fortissima scarica elettrica che mi aveva attraversato le gambe. Una piccola convulsione. La sera avrei toccato a lungo quel punto sul collo con dita curiose, eccitate. 

Sta facendo il bagno al fiume in maniera chiassosa, mi tira l’acqua addosso, sposta i massi per crearsi una postazione più comoda per sdraiarsi, mentre io raccolgo in una bottiglietta un po’ di acqua di fiume. “Vuoi fare una pozione?” mi dice mentre si appoggia con la schiena sui massi prescelti, “voglio fare una variante per l’acqua magica, vorrei cercare un po’ di viole”. Lei non risponde e chiude gli occhi, mentre io in silenzio continuo a riempire bottigliette. L’acqua è gelida, le mie dita dei piedi si anestetizzano. “Tra due giorni torno a casa, anche se non ho molta voglia” dico timidamente. Le mie parole sembrano singhiozzi. Lei apre un solo occhio e guardandomi dice “non dovresti tornare più in città, potremmo vivere qui, mangiare solo bacche e pettinarci i capelli con l’acqua magica”. Mi coglie alla sprovvista, vorrei solo allungare la mano e toccare la sua pelle. Vorrei accarezzarle il ventre, scoprirle i nei (me ne immaginavo due nell’interno coscia, speculari, come occhi che giudicano chi può arrivare fin lì). Lei si alza piano, la sua schiena è disegnata dai sassi appuntiti, come se a un bambino di cinque anni fosse stato affidato un foglio bianco e un pennarello. Io chiudo la mia ultima bottiglietta, è la quarta. Le metto tutte in fila. Lei si avvicina e con le dita scrive un percorso sul mio viso, dagli occhi alle labbra. Ci guardiamo nelle pupille per qualche secondo, le sue iridi verdi sono illuminate da un raggio di un sole esile. Un battito di ali risuona nel mio orecchio, poi sei zampette si posano sul naso di lei. Sorride. 

Alla fine di quell’estate sua madre la obbligò a tagliarsi i capelli corti e io, ancora non mi capacito come, persi il mio erbario.

Il tempo dell’acqua magica era finito in un battito d’ali di libellula.

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