Per anni, ho avuto il vezzo di studiare il neoliberalismo e la sua fenomenologia. Mi interessavano, in particolar modo, i meccanismi che questo sistema riversava sul lavoro e sulla produttività. Con maggiore maturità e un’esperienza di quegli ambienti lavorativi che, ai tempi dell’Università, corrispondevano più a dei tratti da manuale che una concretezza nella mia mente, oggi individuo in quegli studi giovanili un’istanza di giustizia e riparazione sociale che, spogliata dagli afflati cheguevaristi, rimanda ancor oggi a un profondo desiderio di cambiare il mondo. O meglio, alla convinzione che sia ancora possibile intervenire sulle condizioni che determinano il mondo, per come lo abitiamo. D’altronde, l’idealismo è spesso accompagnato da un certo grado di ostinazione.
Qualche sera fa, in luogo di qualche film impegnato degli anni Venti, mi rassicuro tra prodotti streaming rigorosamente italiani (che non hanno, invero, mai varcato il perimetro del raccordo anulare), intenzionata ad assopire la mia serata spegnendone ogni pensiero, quando una serie-reality si impone alla mia attenzione. In una prima fase, assorbita dall’inglese masticatissimo e dalla postura dello youtuber Jimmy “MrBeast” Donaldson, penso a una competition ironica, con dei concorrenti che tentano il “colpo grosso” a suon di figuracce e risate; una sorta di incrocio tra le prove in esterna, spesso a fondo storico, del Ciao Darwin tutto italiano e il tentare la sorte attraverso scelte dalla dubbia validità numerologica dell’Eredità. La disposizione a soldatino dei concorrenti in piedi, su dei cubi allineati, a coprire un’immensa scacchiera di destini, in corsa verso 5 milioni di dollari (il più grande premio di denaro della storia televisiva) avrebbe potuto farmi essere più critica nei confronti delle mie prefigurazioni; tuttavia, quando ho notato che ogni concorrente, coperto da un uniforme, veniva identificato non tramite il nome, ma tramite un numero univoco, legato indissolubilmente alle linee di disposizione o al suo team di attribuzione, ho iniziato a mettere in dubbio il buongusto, nonché l’opportunità del content. Probabilmente nessun programma governativo immagina che qualcuno ricordi o voglia testimoniare la tragedia della Shoà, al di fuori del 27 gennaio.
Nel programma, tutto è esagerato: il numero dei concorrenti, il premio in palio, la precisione dettagliata e la vorticosità delle riprese, il clamore che soggiace a ogni scelta, le reazioni dei concorrenti, gli strilli del conduttore, il caos imperante. Una sorta di parco giochi, in cui la spettacolarizzazione dei dolori e dei patimenti di questa generica popolazione, di foucaultiana memoria, fa tutt’uno con l’estetica thanatopolitica dei cubi all’interno dei quali i concorrenti sprofondano, una volta eliminati. Nell’essere assorbiti dal tunnel su cui sono sospesi, i concorrenti strillano in modo disumano, senza che gli spettatori vengano informati sulla loro fine, da intendersi come effetto dell’impatto a seguito dello sprofondamento, ma anche come termine della loro avventura di gioco. D’altronde, che finale di storia può avere un individuo senza nome e senza narrazione, il cui unico ruolo è stato quello di offrire il suo portato “umano, troppo umano” al sadismo di uno spettatore troppo distante per essere imputabile di alcunché?
Al contrario, la trama – almeno da un punto di vista filosofico – è piuttosto semplice. Ricordando il monito della Arendt, anzi, “mostruosamente semplice”. I concorrenti sono infatti nella possibilità di condurre il gioco secondo due macro-opzioni, declinando la loro avidità secondo due posture esistenziali, in grado di materializzare l’antico dilemma del “meglio un uovo oggi o una gallina domani”: in modo lineare, ossia sottostando senza soluzione di continuità alle prove di stress a cui vengono sottoposti individualmente o in team casuali, nel tentativo di risultare unici vincitori del montepremi; in modo frattale, ossia accettando di lasciare il programma con delle somme di denaro minime e certe, noncuranti dell’eliminazione al contempo di tutti i concorrenti contigui a loro, per mera disposizione. All’interno di questa seconda modalità di giocata, la figura del “traditore” fa da contrappeso a quella della “vittima sacrificale”, ma, dal momento che spesso non ci si sacrifica per generosità, bensì per porre fine a un’agonia di stress impartito anche dalle incessanti richieste al sacrificio da parte dei compagni, ognuno dei personaggi è marchiabile con lo stigma di infamia, all’interno di un gioco che non mira ad attestarsi come un elogio della giustizia retributiva.
Aldilà del frammento esistenziale di cui siamo partecipi, quando i concorrenti giurano “che combatteranno fino alla fine per le loro famiglie” e che “non molleranno l’obiettivo, perché conta solo la famiglia a casa”, si inizia a individuare, in questa storia televisiva, qualcosa di più di uno spaccato antropologico, forse proprio in virtù del suo essere la mera esposizione antropologica del nostro tempo. Se la teoria politica contemporanea – da Marramao a De Carolis – aveva già individuato il pericolo del neoliberalismo nel suo imporsi non tanto come sistema di governo a cui seguiva un’antropologia profondamente ideologizzata, bensì come un’antropologia acquisita che prevedeva l’immediata interiorizzazione di valori esclusivamente economici, l’exemplum vitae di queste comparse di esistenze è invece in grado di dettagliare lo smantellamento di ogni principio di fronte all’imperio dell’economico, sotto i nostri occhi, momento per momento. È chiaro che ogni concorrente ha un assetto valoriale che esula dal calcolo dell’utile, ma è altrettanto chiaro che la cornice del programma (il suo regime di verità) fa di tutto per delegittimarlo. Non solo, infatti, quando un concorrente “tradisce” la sua linea per fini privati è supportato dalla solerzia dei conduttori che ne assolvono la condotta, poiché “naturale”; quando alcuni concorrenti decidono, in concerto, di giocare uniti e rettamente, la retorica dell’insane e del fuori-norma si tinge di colpevolizzazione (“non sei qui per fare amicizia!”). D’altronde, chi va in un gioco del genere per solidarizzare, per amare, per giocare?
Foucault – a fine anni Settanta – individuava nel vivre dangereusement (“vivere pericolosamente”) la massima (neo)liberale per eccellenza, per cui l’assimilazione di ogni situazione personale al rischio di impresa induce l’individuo a percepire ogni aspetto della propria vita (il presente, le scelte lavorative e famigliari, l’avvenire etc.) come un fattore di rischio. Dato per assodato che, se non ci fosse nessuna scelta economicamente vantaggiosa non ci sarebbe nessun rischio – o, meglio, se il principio economico non fosse per natura in grado di inglobare ogni altro fine, in virtù di un’efficienza che si impone “forte perché ingiusta” – perché non piegare l’umano allo spettacolo, facendogli performare il nulla delle misere scelte quotidiane e rendendo ogni momento di esistenza una possibilità di rischio?
E, a ben pensarci, i concorrenti dello show non possono che performare il nulla: svuotati da ogni personalizzazione o caratterialità anche attoriale, slegati da ogni relazione che non sia tattica e – per definizione – con un’intenzionalità a breve gittata, allontanati dal senso di appartenenza e comunità che solo l’agire etico istilla, vengono sottoposti a prove in cui l’abilità minima richiesta è così sistematicamente annientata dal caso, da costringere i malcapitati ad abitare solo il nulla della reazione alla casualità.
Oltre a dover impilare dei solidi di gomma privi di qualsiasi regolarità o cercare di non far toccare il pavimento a un pallone che proviene da un soffitto forato secondo una traiettoria non prevedibile, infatti, i concorrenti devono saper fronteggiare, oltre alla sconfitta per demerito, anche l’eliminazione per mera ingiustizia, come quando – per il numero troppo elevato di concorrenti – si decide di attenzionare le piramidi di solidi ben oltre il tempo il countdown, attendendone il crollo, al fine di decimare malthusianamente i “sopravvissuti” alla prova, colpevoli – appunto – di aver superato la prova. Ed è quando la chiave colpevolista si innesta sul giudizio insistente di una prassi sganciata da qualsivoglia talento o merito che il gioco inizia ad apparire come una gigantomachia delle forze operanti sul libero mercato.
In accordo con questa cornice concettuale, infatti, i concorrenti – in una sfida giocata a micro-team, ossia per linee – iniziano a interessarsi al nome dei loro vicini per ricreare una convivialità che sparisce, per la delusione, non appena uno dei compagni del team tradisce per impossessarsi della consueta offerta in corso d’opera, o per avidità, non appena si decide di tradire i compagni in vista della citata – piccola e sicura – offerta. D’altronde, nessun’azienda quotata in borsa necessita della conoscenza personale dei partner commerciali per consorziarsi o relazionarsi con loro e, in altri termini, un affare giunge a finalizzazione anche quando le persone chiamate a garantire la sopravvivenza e la continuità del ruolo necessario alla negoziazione non sono più le stesse, poiché licenziate, sostituite o decedute.
Analizzando la teatralizzazione delle logiche di mercato, attraverso una loro incarnazione in corpi e anime desideranti e sofferenti, il paragone con la distopian fiction di SquidGame di Hwang Dong-hyuk è inevitabile. Nel realizzare però che questo content traduce il tutto in una realtà, viene spontaneo chiedersi perché scegliamo di vivere pericolosamente, a tal punto da replicare l’incubo dello scacco, dell’infinito lose-lose, partecipando allo spettacolo o guardandolo anche nei nostri momenti di svago.
L’unica spiegazione è che la dinamica produttiva dello sfruttamento abbia alimentato così tanto il narcisismo della performance salariale da non poterne più fare a meno. In un pieno compimento dell’alienazione del lavoro, la nostra esistenza prende forma, colore, materia solo nel brivido della scelta pericolosa. In questo turbinio di nonsense, trovano senso la gara al “più stressato” sul luogo di lavoro, abitato da “una marea di stravolti” – per citare Cucinoli – il cortisolo come condimento delle nostre insalate veg consumate in piedi, la postura dittatoriale nella consegna di ogni task, alimentando l’illusione di insostituibilità della nostra funzione nell’organigramma aziendale, la prostituzione del nostro General Intellect al miglior offerente (che venda armi o cure chemioterapiche, in fondo, è esattamente lo stesso). Tutti meravigliosi antidoti al nostro nulla.