In una stanza bianca lo spazio è occupato da un tavolo di legno chiaro con alcune sedie. Un posto è già occupato da un ragazzo vestito di scuro, con un austero taglio a spazzola. Seguito dalle telecamere, fa il suo ingresso Jimin – uno dei membri della “mega-band del K-pop” BTS – biondo, con una piega impeccabile e un maglione beige con delle ghiande ricamate, potrebbe averlo fatto mia nonna ai ferri. Scorgendo il ragazzo seduto, ironizza: «Perché c’è un soldato seduto qui?». Il “soldato” lo saluta con imbarazzo, è RM (diminutivo di Rap Monster), suo caro amico e compagno nella band. La partenza per la leva militare obbligatoria è imminente e sarà via per quasi due anni. Ha deciso di abituarsi in anticipo al buzzcut da recluta dopo anni nel mondo dello spettacolo dove i capelli erano uno strumento fondamentale di espressione artistica e soprattutto di bellezza. Per rientrare nei canoni coreani molto stringenti il taglio maschile infatti non dovrebbe né superare le spalle, né essere troppo corto e punitivo.
I due sono riuniti per un listening party: Jimin viene di pubblicare il suo secondo album da solista e farà ascoltare all’amico le tracce per vedere che reazioni avrà. «È stato veramente difficile scrivere i testi delle canzoni» dice Jimin, «non riuscivo a ricordare l’ultima volta che ho avuto una crush». RM lo guarda rassegnato, ridacchiando: «bro, ti capisco». Parlano dell’innamoramento come un lontanissimo ricordo, forse mai provato, eppure nelle loro canzoni è un tema che compare molto spesso – come vuole il genere pop. La conversazione si sposta velocemente su altro, ma queste poche parole suonano come una rara confessione sul vero stato d’animo di questi personaggi. I BTS, pur rientrando nella macrocategoria di pop star, portano all’estremo uno dei meccanismi dietro alle ragioni per cui si arriva alla celebrità. Non sono solo i numerosi album che hanno pubblicato o le esibizioni curatissime che li hanno visti protagonisti nei loro concerti in Corea del Sud e in giro per il mondo. Dietro c’è un intenso lavoro di cura delle loro personalità, che si percepiscono autentiche e al contempo rifinite, come se si presentassero con uno strato di smalto che esalta alcuni tratti ma al contempo nasconde molto altro. Lo sforzo di apparire impeccabili ogni tanto lascia spazio a queste piccole screziature di verità e pure questo, in realtà, non fa altro che confondere il confine tra la vera emozione e ciò che viene finto da abili attori. Tutto questo ha un solo scopo: far innamorare i fan. La strategia sembra funzionare tant’è che nelle classifiche dei più grandi fandom al mondo i BTS compaiono molto vicino al podio, circondati da Harry Potter, Star Wars e il Signore degli Anelli.
Nonostante il gruppo sia nato nel 2013, a distanza di oltre 10 anni rimane ancora importante e ci si comincia a chiedere quali siano i fattori del successo e della longevità di quello che è diventato un fenomeno culturale. Paola Laforgia, nel saggio ‘Fattore K. L’ascesa della cultura pop coreana’ recentemente uscito per ADD editore, cerca di ricostruire gli elementi vincenti del gruppo: la bravura e competenza nelle varie sfaccettature che un artista del genere deve avere – cantare, ballare, rappare, sinergia di gruppo e personalità. Però si tratta quasi del minimo indispensabile per essere una pop star capace di riempire gli stadi. Troviamo poi un importante elemento di timeliness, di essere «il gruppo giusto al momento giusto», infatti «i BTS sono un gruppo che si è fatto strada contemporaneamente alla diffusione massiccia dei social media». Il debutto dei BTS è avvenuto infatti nel 2013, un momento in cui Youtube e Twitter stavano crescendo moltissimo e la band non ha esitato a sfruttare queste piattaforme per far crescere il proprio pubblico. I tweet venivano scritti direttamente dai membri della band, su youtube venivano mostrati filmati della sala prove o la preparazione in camerino e dietro le quinte dei loro concerti, momenti “rubati” che servivano a mostrare come, in fondo, fossero ragazzi normali. Attraverso i social si esplica quindi un ulteriore tratto del successo dei BTS: una grande esposizione di sé non solo come artisti e star ma come persone. Ma non è tutto: i fan possono vedere la camaraderie del gruppo esprimersi in mini-serie di reality show (che si possono guardare a pagamento dal loro sito) dove i partecipanti esclusivi sono i membri della band, contribuendo a creare nel pubblico un senso di familiarità con i componenti del gruppo, imparando a conoscerli come se fossero amici in carne ed ossa.
Laforgia riporta giustamente la critica che viene fatta più spesso: che si tratti completamente di finzione. Le personalità degli idol sono rifinite e perfezionate dalle necessità di marketing dell’azienda, che decide cosa possono dire e non dire in base ai gusti del mercato. È noto infatti che qualsiasi programma registrato sia prodotto attraverso un editing del materiale filmato, spesso con tagli, scene provate e girate più volte (anche se sembrano spontanee), ricomposizione della temporalità nel modo più congeniale alla narrazione che si vuole portare. Anche i contenuti più autentici come le dirette in live streaming non sono al riparo da un lavoro di regia e di concordamento dei contenuti con la casa discografica. Eppure l’autrice fa notare, in risposta a questo argomento, che «la mole di materiale è così massiccia che un po’ delle loro reali personalità si intravede necessariamente, perché si può recitare fino a un certo punto». È quello che in fondo sperano tutti i fan. Però, posso aggiungere che non pochi super-fan sono estremamente abili nella minuziosa analisi delle micro-espressioni facciali e si accorgono con un’accuratezza sconcertante di ogni emozione discordante nei volti dei loro idol. Questo ha spinto la casa discografica al cercare l’accordo e il favore del gruppo nelle attività che vedono coinvolti i membri del gruppo, pena doverne giustificare l’infelicità davanti ai sostenitori infuriati.
La fanbase dei BTS può essere ritenuta a buon merito il fattore centrale del loro successo – i numeri degli album venduti e gli incassi dei concerti d’altra parte non possono che provenire da loro. Tra poco vedremo questo elemento da un’altra prospettiva, quella strategica del CEO della casa discografica di Seoul che gestisce i BTS, la HYBE, ma finiamo prima con la riflessione di Laforgia. Il nome collettivo del fandom, Army, identifica una comunità estremamente attiva sia nel consumo che nella creazione di contenuti, rientrando nella definizione di prosumer. Le riprese fancam dei concerti, gli edit dei contenuti, «contribuiscono ad accrescere la popolarità di un gruppo, a volte più dei contenuti originali condivisi dal gruppo stesso». La coesione del fandom è tale da organizzare in modo autodiretto delle campagne di acquisto degli album o di votazione online per far raggiungere alla band i primi posti di una classifica musicale o vincere premi annuali sulle vendite e sul gradimento da parte dei fan.
Questo enorme capitale sociale sembra essere stato il fattore determinante e i BTS ne sono consapevoli: nel corso di una conferenza stampa a Los Angeles, prima del concerto “Permission to Dance” al SoFi Stadium nel 2022, il leader della band ha dichiarato che il 25% del loro successo è dovuto ai membri della band, un altro 25% alla casa discografica e tutto il restante 50% solo agli Army, che non mancano mai di ringraziare e salutare a ogni apparizione pubblica – arrivando addirittura a inserire il nome del fandom nel testo della canzone “Butter” («Got ARMY right behind us when we say so») a rimarcare l’alleanza tra la band e i fan.
Se l’analisi di Paola Laforgia ci racconta questi fattori come un’addizione aritmetica nella formula del successo dei BTS, il produttore e direttore della HYBE Bang Si-hyuk sembra avere un’altra prospettiva. In una recente intervista rilasciata per il New Yorker, Bang racconta il successo della sua azienda di intrattenimento, prima con i BTS e poi altri gruppi K-pop come gli Enhypen e le NewJeans, come il frutto di una razionale analisi di mercato mescolata alla giusta dose di intuito imprenditoriale – quel tocco segreto che rende Bang un unicum nel suo campo. Chiaramente bisogna leggere questa intervista con il giusto spirito critico. Nel 2021 la HYBE ha fatto un merging importante nel mercato statunitense: ha comprato per poco più di due miliardi di dollari la Ithaca Holdings, la compagnia che tra le tante attività gestisce il management di artisti come Justin Bieber, Ariana Grande e Demi Lovato, citando i più noti. Sembra chiaro che Bang e la HYBE vogliano mantenere la loro reputazione di creatori di fenomeni culturali pop dall’impatto globale, come è stato per i BTS e continua a succedere con i nuovi gruppi che mettono al mondo. D’altra parte, bisogna riconoscergli un talento spiccato nel creare narrazioni coinvolgenti e questa storia dell’imprenditore che rischiando il tutto per tutto dalla Corea del Sud, provincia del mondo, arriva al culmine dello star system statunitense e quindi al centro del mondo stesso, ci fa un po’ sperare nel suo successo.
In questa intervista Bang Si-huyk si prende i meriti di aver colto alcuni elementi centrali del K-pop, industria musicale attiva dagli anni ‘90, sapendo tenere le giuste distanze. Con i BTS, creati e allevati tra le mura della compagnia (il più piccolo aveva 13 anni quando è stato cooptato con lo scopo di crearne una star), Bang ha creato un metodo per la celebrità. I punti principali su cui racconta di aver lavorato sono la garanzia di autenticità degli idol e il prolungamento della durata di vita dei gruppi nel mercato musicale, altrimenti caratterizzato da un rapido turnover di artisti emergenti. Per farlo si è appoggiato alla cultura fandom del K-pop, ben pre-esistente ai BTS, cercando però di accorciare al massimo la distanza tra il singolo fan e l’idol, puntando quindi sui social media come strumento perfetto per questo scopo. Non solo: gli idol o aspiranti tali vengono coinvolti in prima linea nella scrittura e nella produzione delle canzoni e di merchandise, così che i fan possano avere l’impressione di avere una interazione diretta con gli idol, creando una intimità fittizia che oscilla tra amicizia e innamoramento, distaccandosi dall’idea di star ieratica e irraggiungibile. Kim Suk-young, professoressa alla UCLA School of Theater, Film and Television ha condotto una ricerca etnografica che ha portato alla pubblicazione del saggio ‘K-pop live: Fans, Idols and Multimedia performance’ (Stanford University Press, 2018) in cui mette in luce la creazione di una potente relazione parasociale tra gli idol e i fan, tanto che gli idol sono addestrati a concepirsi come “proprietà pubblica”, arrivando a eliminare la possibilità di avere flirt e partner alla luce del giorno. I fan devono poter avere l’impressione di un two-way love affair, una relazione amorosa corrisposta, con gli idol.
In una società dove la solitudine dell’individuo si fa sempre più pressante, la vita schiacciata tra impegni di scuola e di lavoro che lasciano ben poco spazio per coltivare amicizie reali, gli idol diventano un palliativo al dolore esistenziale e Bang ha saputo camminare in questa traccia con grande precisione. I BTS sono quegli amici che non hai mai avuto, ti consolano con le loro canzoni nostalgiche, ti accompagnano nei pomeriggi con il loro banter così accogliente e familiare dei video in cui si sfidano con i giochi da tavolo o vanno all’aquapark per fare un’esperienza diversa dal solito. I fan poi editano le clip creando su youtube delle raccolte di momenti divertenti (un titolo, ad esempio: “BTS making comedians jobless” ) o di momenti sdolcinati (“BTS being the most adorable humans in the world”). Il gioco di Bang è fatto: l’autenticità dei suoi ragazzi è stata esibita a sufficienza, conquistando i cuori e le menti degli spettatori che ora producono materiale in modo indipendente.
L’altro aspetto è stato infatti come fare affezionare i fan oltre il tempo di vita di un singolo in classifica. Spingere i fan a diventare prosumer non basta: l’idea della HYBE è stata quella di creare una lore, di costruire un universo attorno al gruppo. Con i BTS è successo grazie ai video ufficiali delle loro canzoni, che mostrano una realtà alternativa (il Bangtan Universe) in cui i membri sono un gruppo di amici che deve affrontare le difficoltà che la vita gli presenta – la depressione, un genitore problematico, la rabbia contro la società – trovando sollievo nel tempo spensierato passato assieme e sostegno nel rapporto di amicizia l’uno con l’altro. Sembrano situazioni di vita reale, che un fan magari sta attraversando concretamente, e consumare contenuti di questo tipo ha avuto un forte effetto consolatorio per molte persone, come si può leggere nei commenti dei video di youtube dei BTS. Un trucco che viene utilizzato è quello di rendere i video ricchi di dettagli non spiegati, che porta immancabilmente a speculazioni dei fan su quale sia la narrazione più grande che ci sta dietro, creando il tanto desiderato engagement.
A questa narrazione volutamente fittizia, che non manca in ogni caso di richiamare empatia e sostegno dei fan, si aggiunge un’altra linea. Per essere idoli, per essere al centro di un culto vero e proprio, non può mancare un racconto dell’inizio, una cosmogonia. La storia di come è stato costituito il gruppo è una genesi biblica che fa parte del canone degli Army. In questo racconto vi è il capo, RM, che vuole creare un gruppo musicale e assurgere alla fama – per farlo bisogna quindi selezionare le persone giuste. Le storie dei vari momenti con cui vengono coinvolti i restanti sei membri hanno la funzione di evidenziare i punti forti di ciascuno, mostrare un vago background che sia in un qualche modo relatable dalle persone comuni per poi inevitabilmente evidenziare la predestinazione a diventare un membro dei BTS. Jimin era un ballerino eccezionale di danza moderna alla Busan High School of Arts, mentre Suga tentava una carriera da rapper nella scena underground di Daegu mentre aiutava la famiglia facendo consegne in motorino. Jin era un ragazzo normale, anzi forse più pigro del normale, tranne che per la sua notevole bellezza che lo ha portato a essere reclutato dai talent scout; Jung Kook ancora tredicenne era già molto dotato nel canto e diverse agenzie lo volevano ingaggiare – ma lui scelse i BTS perché aveva già sentito parlare di RM, il fondatore.
Ecco, sono storie semplici, rifinite, facilmente comprensibili, che si inseriscono perfettamente nella narrativa neo-liberista del “se vuoi puoi”. Infatti fanno parte della mitologia anche le immani fatiche che il gruppo ha dovuto affrontare durante i primi anni, caratterizzati da sessioni di prove di ballo interminabili e continui shooting e tour promozionali. Ovviamente poi l’importanza della fanbase, come già evidenziato prima: nell’ordine delle cose, i fan sono la vera benzina del loro successo. La posizione dello spettatore-supporter viene quindi innalzata non più a semplice consumatore di musica, contenuti a pagamento e merch, ma inserito come immancabile aiutante che accompagna (fornendo sostegno morale e quindi economico) gli eroi verso il compimento della loro missione (raggiungere il culmine della piramide sociale, diventare famosi e ricchi). Una cosa interessante di questo processo è che parlare di soldi in questa storia viene censurato molto meno che in altre culture. Per molte culture dell’Asia orientale, ricchezza e fama sono ideali nobili da perseguire, anzi, talvolta un vero e proprio dovere morale nei confronti della famiglia. Elevarsi dalla miseria della vita della persona comune verso gli agi del benessere e del lusso viene visto come il vero bene per la persona e per la società. In Corea del Sud questo è particolarmente vero, tanto che pur di accedere a uno stile di vita più elevato molte persone finiscono per contrarre debiti spaventosi, come ci ha fatto vedere la serie Squid Game.
Dal punto di vista antropologico allora gli idol K-pop, in particolare i BTS, diventano una celebrazione della narrazione meritocratica, una forza conservatrice al pari della religione, insegnando ai ragazzi e alle ragazze che li ascoltano che impegnarsi è la via maestra per raggiungere il successo a prescindere dalle condizioni di partenza. Lo spirito di abnegazione degli idol viene preso come punto di riferimento su come ci si comporta in società: bisogna aspirare al successo e bisogna spaccarsi la schiena per farlo. Tutto il resto viene dopo, anche l’arte, che diviene un mezzo. Le canzoni consolatorie e introspettive sulla sofferenza individuale diventano, alla fine, una grande pacca sulla spalla, un’apologia al sistema: tieni duro che ce la farai. Contemporaneamente, viene messo in atto un rituale di iniziazione che insegna la disciplina del consumismo: comprare il merch (vissuto al pari di una reliquia) rende compartecipi del successo dell’idol. Il K-pop ha reso possibile il paradiso in terra di quell’etica protestante che sembra aver caratterizzato le prime fasi del capitalismo: il benessere terreno coincide con la grazia divina e i prescelti raggiungeranno la beatitudine. Implicitamente sappiamo che non tutti potranno occupare quella posizione, ma tutti subiscono l’imperativo di provarci.
Sembra quindi che si sia giunti finalmente a un razionale governo dei sentimenti delle masse grazie alla passio, all’amore, e all’imaginatio, le grandi narrative che colgono la fantasia prima che la razionalità, un tempo gestite dalle religioni e ora discese finalmente tra gli uomini. Probabilmente Spinoza non pensava che sarebbero stati sette bellissimi ragazzi coreani a raggiungere questo traguardo, ma tant’è.