Come abitare i nuovi spazi del presente? – Intervista a Francesco Marino pt. 2

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Il rapporto che abbiamo con le piattaforme online ci obbliga a fare i conti con la nostra identità, con quello che ci piace di noi stessi, con quello che ci piace meno. Questo processo è diventato una routine quasi inconscia nelle nostre vite, soprattutto perché non esiste un percorso guidato praticabile per intraprendere una relazione sana con i social network. 

Francesco Marino è digital strategist, autore e giornalista. Nel 2021 ha pubblicato Scelti per te. Come gli algoritmi governano la nostra vita e come possiamo fare per difenderci per Castelvecchi Editore. Sul suo profilo Instagram (@pillolefuturopresente) si occupa di nuove tecnologie attraverso post informativi e riflessioni sui temi che orbitano attorno all’ambiente digitale. Dopo una lunga chiacchierata sul futuro prossimo e sulle modalità per abitare questi nuovi spazi, gli ho chiesto  come percepisse personalmente questa dinamica: chi dedica il suo lavoro alle nuove tecnologie come si rapporta intimamente con queste?

All’inizio dell’era social, l’utilizzo delle piattaforme di socializzazione online mi poneva in situazioni scomode dovute alla poca consapevolezza sul loro funzionamento: cosa mi sarebbe successo dopo aver vissuto quelle frammentate e caotiche esperienze attraverso l’account? Gli altri che idea si sarebbero fatti di me e della parziale identità che mostravo? Sono domande che mi hanno sempre tenuto compagnia e che mi hanno obbligata ad affiancare alla mia vita online un interesse quasi ossessivo per il funzionamento delle piattaforme e sulle loro ripercussioni sociali e psicologiche. Tu come vivi il tuo rapporto con i social media?

Non ho mai avuto un buonissimo rapporto con i social network, fino a prima di aprire l’account con cui oggi lavoro, pubblicavo molto poco. La prima storia l’avrò fatta nel 2020, Instagram era uno dei social che mi  piaceva meno. Preferivo Twitter, leggere piuttosto che vedere… non avevo mai pubblicato una storia prima di aprire la pagina e, nonostante mi occupassi di questo per lavoro (digital strategist) era una cosa diversa rispetto a pubblicare me stesso. Ho sempre percepito il peso dell’autenticità che richiedono questi spazi, ho sempre provato un senso di paura e inquietudine rispetto a questo. Sono una persona riservata, mi piace l’idea di avere una serie di dimensioni, di non essere un’unica cosa e invece Instagram soprattutto in quella fase, dalle storie in poi, e tutti i social network impongono in qualche misura che tu abbia un’unica dimensione. Devi stabilire cosa vuoi mostrare e portarlo avanti. La negoziazione che ho fatto con me stesso quando ho aperto la pagina era che comunque non avrei mai fatto cose che potessero far trasparire un qualche genere di autenticità. Io faccio video dove mostro la mia faccia perché sono costretto, è la cosa più facile perché è la cosa che funziona di più online, non occorre un editing particolare. Quello che cerco di far capire è che quello che faccio è un prodotto chiuso: non stai entrando nella mia vita, non ti sto dicendo delle cose di me, non mi vedrai mai passeggiare nella mia stanza o fuori dal ristorante. Io voglio che si riconosca che quello che faccio sono dei prodotti, non sono io, è il mio lavoro. Il mio compromesso è questo, sono arrivato spesso a un passo dal mollare, poi succedono cose che non ti fanno mollare e per fortuna. Non mi farebbe piacere lasciare tutto, nonostante la continua negoziazione e i suoi difetti, questo spazio se utilizzato in un certo modo ha una potenzialità enorme che è quella di raggiungere le persone. Io scrivo anche sui giornali, ma gli articoli li leggono in pochi. 

Per legarmi al tuo discorso, c’è un fattore un po’ perturbante rispetto al fatto che ogni volta che ti presenti online devi fare una scelta su chi sei in quel momento, è una sensazione che ti si attacca addosso. Anche chi si presenta online con superficialità, senza pensarci troppo, avrà poi ripercussioni nel futuro rispetto a quello che decide di essere o pubblicare oggi. Bisogna fare continuamente i conti con l’idea che qualcuno ha visto quello che sei stato, su Internet queste identità passate rimangono sempre fisse -a meno che tu non decida di cancellarle- e questo è un aspetto cruciale. Di fronte a questa scelta continua, tu hai preso una decisione consapevole perché sai come funziona il mezzo, metti in pratica una forma di tutela per te e per chi ti guarda… Qui arriviamo alla diffusione di questo tipo di informazioni e contenuti; la mia ossessione per questi temi deriva proprio dalla scarsità di letteratura, dalla mancanza di una comunità. Il tuo successo – permettimi di chiamarlo così- è dovuto al fatto che manca uno spazio di riferimento, ti inserisci in un vuoto per fare informazione sul funzionamento dei social, adattandoti però alle regole delle piattaforme stesse, che sono il luogo dove tu parli. 

È vera questa cosa della scelta della versione di te, che è un processo anche inconscio ma tuttavia imprescindibile, che tu ne sia consapevole o no. A settembre assistiamo alla pubblicazione del photodump di ritorno dalle vacanze che ne è un esempio perfetto, tutta quella cura nel definire la propria apparenza è comunque figlia di logiche di marketing, di branding in qualche misura. Queste regole sui social media vengono applicate alla persona e alle sue relazioni sociali. Quando si pubblica sui social bisognerebbe chiedersi a che scopo lo si sta facendo: sto pubblicando delle cose per far vedere degli amici che sono stato in un posto, oppure per dire che faccio le vacanze alternative, oppure per dire che vado pure io dove vanno tutti. Ognuno ha le sue ragioni quindi c’è sempre un po’ questa scelta. Daniele Zinni in Meme del sottosuolo (Einaudi 2023) e Alessandro Lolli in La guerra dei meme (effequ 2017), notano entrambi questa sorta di schizofrenia nella nostra relazione con i social ed è sempre di più.

In che senso è sempre di più?

Su Facebook all’inizio pubblicavi su un vero e proprio diario e ti approcciavi al social in quell’ottica di collezionare ricordi, oggi su Tik Tok il sottotesto che la piattaforma ti ripete è che tu sei ogni singolo contenuto che pubblichi e che questa rappresentazione di te potrebbe essere mostrata a un numero di persone completamente imprevisto e uscire dalla tua bolla. È come se l’utente rinegoziasse la sua identità ogni volta che pubblica un contenuto, perché ogni contenuto può arrivare a un numero imprevisto di persone. La seconda cosa è che poi questo processo è necessario,  in un libro della collana Essential di MIT Press, Content (2022), questo viene descritto proprio come “content capital”. Il capitale di contenuto è simile al capitale sociale o al capitale culturale di cui parla Pierre Bourdieu: siamo la somma dei contenuti che abbiamo pubblicato online e quindi per questo ogni identità online si connota di una certa schizofrenia. Se io non avessi quello spazio probabilmente non mi offrirebbero di fare delle cose, probabilmente tu non mi avresti intervistato, sotto alcuni aspetti è diventato necessario. Non starci oggi è una scelta di campo.

Infatti esistere culturalmente oggi significa esistere in nello spazio digitale, non se ne può prescindere.

Anche certificare che tu non sei presente online, che non ti pieghi a queste logiche, è qualcosa che deve avvenire sulle piattaforme. Altrimenti semplicemente non esiste.