Ci chiamavamo quando la solitudine diventava insopportabile. Non ci volevamo vedere, ma alla fine arrivava la chiamata. Questa volta, avevo dovuto ordinare io le birre, aiutarlo a sedersi sulla sedia, inciampava ovunque. L’avevo aiutato, non potevo fare altrimenti, ma l’avevo fatto mentre pensavo che lui non avrebbe fatto lo stesso.
Eravamo due isole che si guardano da lontano. Diceva che alcuni giorni aveva problemi a dormire, altri non riusciva a tenere gli occhi aperti, perché gli bruciavano le pupille e la testa era pesante come se si fossero otturati i collegamenti neuronali. Questa testa è come una pietra sul collo, diceva, con gli occhi socchiusi. Quando stava male, non aveva un pensiero intelligente, uno stimolo, un desiderio, niente, ma solo voglia di dormire. E s’addormentò come un narcolettico, con la testa penzolante sul collo. Gli mollai una manata sulla gamba, riprese i sensi. “Stai messo male” dissi. Bevve un po’ di birra dicendo che quando gli girava bene, invece, poteva mangiarsi il mondo. “Bene” dissi, “bravo”. Però passava da una parte all’altra senza un motivo evidente, e non ce la faceva più.
Me lo raccontava perché io avevo sempre delle buone soluzioni ai problemi psicologici, mentre per il resto ero poco lontano dall’essere ritardato, diceva. Io non sapevo cosa suggerirgli, per un bel pezzo avevo professato come soluzione la Resa incondizionata e l’Accettazione, ma con i miei consigli avevo già rovinato un paio di persone. Gli dissi di una camera anegoica. Ne aveva mai sentito parlare? Avevo conosciuto un tipo che aveva il suo stesso problema. “Ci somigliamo tutti, tanto”, aggiunsi genericamente. Il suo individualismo mi guardò incattivito. “Che vorresti dire?”. “Solo che abbiamo problemi simili” risposi, spazientito che dovessi spiegargli le cose più elementari. Insomma, ripresi, il tipo di cui gli dicevo era come lui, dei giorni era depresso, svogliato, vuoto, appiattito, inutile, frustrato, e continuai per un po’ l’elenco delle angosce. “Proprio come mi sento io!” disse lui. “Esatto” dissi, “però ora lui sta una favola. Ha fatto la Camera”. S’era addormentato di nuovo sulla sedia. “La Camera Anegoica!”. Ora aveva capito. “E cos’è?” chiese. Dissi che era un luogo dove non esiste l’Io. Quando entri, continuavo a dire, perdi la parte egotica della personalità, ti spersonalizzi, e dopo è come poter ricominciare da capo. Il tipo che l’aveva provata era diventato una persona solare, empatica, gli volevano tutti bene e non aveva più problemi con sé stesso o con gli altri, non aveva più sentimenti contraddittori. Però io non l’avevo mai provata, ne avevo solo sentito parlare. Sì, dissi così.
Alessandro mi aveva ascoltato con attenzione, senza addormentarsi, e l’idea della camera lo aveva eccitato. Si alzò dalla sedia, tutto da solo, e mi chiese di accompagnarlo. Io accettai, perché non posso evitare di aiutare gli altri. Andammo verso Est. Era come inoltrarsi nella parte esoterica della città e pensavo che quella doveva essere la direzione dei soldati quando partivano per le crociate. Ma forse no, era solo la suggestione dell’Est a stimolare certe sovrapposizioni. In ogni caso la città s’era mossa: si coagulava e si disarticolava, mentre scendevamo una grossa strada brulicante di gente, tra ponteggi e cemento. Alessandro si guardava intorno obnubilato dal sonno. Era già cascato un paio di volte sui cestini del fruttivendolo. Io l’avevo riacchiappato per un braccio e gli ultimi metri li fece reggendosi a me, sfinito da sé stesso. Arrivammo davanti a un palazzo di due piani, in muratura, attaccato al terreno come se ne fosse il naturale proseguimento. Il cancello era chiuso con un lucchetto grosso come il nostro pungo. Con le ultime energie, Alessandro suonò il campanello e poi scivolò tra le mie braccia, addormentandosi.
Da dietro le sbarre, emerse la faccia del dottore. Guardò in basso il copro che occupava il suo pianerottolo. Pensava lentamente e i suoi movimenti lo erano ancora di più. Aprì il cancello, reggendo le chiavi davanti a sé come una pistola e dopo aver ponderato e sbuffato, mi fece cenno di afferrarlo da una gamba. Lui prese l’altra e lo trascinammo dentro. Un mucchio di gente era sparsa nella sala d’attesa, nascosta nella penombra delle finestre a bocca di lupo che si aprivano di pochi centimetri sul cielo. Aspettavano di venir svuotati del loro Io, per ricominciare da capo o con la speranza di cambiare radicalmente. Si compravano un po’ di tranquillità, pensai, e mi sembrava giusto. Qualcuno aveva acceso l’incenso per nascondere l’odore di sigarette e l’aria s’era addensata in un miscuglio irrespirabile. Nel silenzio, si sentiva solo lo strusciare a terra di Alessandro e le imprecazioni del dottore.
Lo trascinammo lungo il corridoio. Un’infermiera, spuntata dietro una porta antincendio, ci spalleggiò fino alla Camera. “Tu è meglio se aspetti fuori” mi disse, e guardammo il dottore sparire dietro la porta della Camera con le gambe di Alessandro sotto le braccia. Lei infilò le mani nelle tasche del grembiule e mi mostrò un pacchetto di sigarette: “Fumi?”. Feci cenno di sì, mi guidò alla porta antincendio e poi su un piccolo giardino sul retro, per metà rinsecchito dal sole, di fronte un palazzo in costruzione. Si sedette su una sedia, sotto al porticato. “È ricco?” mi chiese, allungandomi una sigaretta industriale. “Sì, molto”. “Qua vengono tanti figli di ricchi” disse. Accesi la sigaretta: “Immagino”. “L’altra volta è arrivato un ragazzo, più giovane di voi, non riusciva a muoversi. Quando arrivano casi del genere li facciamo passare avanti”, si schiarì la gola dal catarro e sputò una palletta pesante a terra. Leccò i denti con la lingua. “Tu, invece, sei sano come un pesce, vedo. Hai già fatto la Camera?” chiese. “No” risposi, “sono così e basta”. “Buon per te” e concluse con un altro sputo. Fumando mi allontanai un po’: “Ma questo…?” chiesi, indicando un cubo di metallo grigio chiaro, attaccato alla parete. Lei giocherellava con una conchiglia che aveva appesa al collo con uno spago. “Sono i rifiuti” disse “la roba che togliamo. È già bello pieno”. Sollevò la faccia verso il sole, verso il palazzo che presto le avrebbe oscurato la vista, e un vento inaspettato le spostò la frangetta da bambina che portava appena sopra agli occhi. Svuotò le guance dal fumo. “Io torno dentro”, disse, “tra poco ti ridiamo il tuo amico”.
Riportarono Alessandro dopo una mezz’ora. Me lo consegnarono come se fosse una busta vuota. Prima che riuscissi a chiedergli come stava, Alessandro mi abbracciò. Pensai che non c’eravamo mai toccati, fino a quel momento. “Portalo a casa”, disse l’infermiera, andando via con un uomo che ripeteva di non voler essere più sé stesso. Riemergemmo in strada tra la gente che ciabattava pigramente. Il sole spianava l’asfalto facendo luccicare i cocci di vetro. Proposi una birra, per festeggiare la liberazione dall’Io, e andammo verso un chiosco che aveva qualche tavolo lungo il marciapiede. Il sole ci tagliò a metà. Alla luce vidi che la pelle di Alessandro era diventara chiarissima, quasi trasparente. L’hanno lustrato per bene, pensai. Camminava senza peso, galleggiando a mezz’aria. Appena il sole ci illuminò in pieno, vidi oltre la sua maglietta e, sprofondando sotto la pelle, i suoi organi e le sue vene, tutta la sua interiorità che luccicava davanti a me.
Ci sedemmo. Oltre a noi c’erano degli arabi che bevevano tè. Lo avevano guardato, ma non dissero niente, forse per qualche loro religiosa omertà. Comprai una Peroni da 66, ne versai un po’ nel suo bicchiere e un po’ nel mio, facendo le parti uguali. “Come ti senti?” chiesi. Buttò giù una prima sorsata e la birra scorse dentro la laringe, giù a capitombolo nell’intestino, ed era tutto uno stringersi e dilatarsi per far passare il liquido e digerirlo in combustioni interiori. “Mi sento vasto” disse. La sua lingua aveva battuto una danza tra palati e denti. “E vuoto” aggiunse. La vedevo zompettare su ogni sillaba che pronunciava, battendo da una parte all’altra, in movimenti articolatissimi. “Ero molto malato di me stesso e ho espulso tutto”. Disse così. Ma io guardavo il suo cuore, i suoi polmoni, e il sangue circolare inarrestabile intorno al suo corpo. Scambiai un’occhiata rapida con uno degli arabi, che aveva una barba color acero a punteggiargli il petto, ma per la vergogna il mio sguardò scappò di nuovo su Alessandro e la sua vivida interiorità.
Mi accorsi che la sua mano destra era svanita: i muscoli che la muovevano, insieme alla struttura ossea del polso, non c’erano più; anche l’avambraccio aveva preso a sfumare nell’inconsistenza, centimetro dopo centimetro. Stava vanificando, senza il suo Io. Mi alzai, la sedia si capovolse, gli arabi si girarono a guardarmi. “Stai scomparendo, cazzo!” gridai.Corsi al bancone, chiesi una penna al barista. Non mi capiva e gli feci il gesto di scrivere. Mi porse la penna, tutto ritratto indietro come se avesse paura che se mi avesse toccato, sarebbe stato il prossimo. Tornai da Alessandro, scrissi Mano, sulla mano scomparsa; e poi braccio, spalla, collo, risalendo verso la testa. Sentivo gli arabi agitarsi al tavolo; il barista era teso oltre il bancone guardando verso di noi. Ignorai i loro sguardi e continuai a scrivere. Mi rigiravo il suo corpo tra le mani e scrivevo, piede, coscia, ginocchio, fronte, sperando di mantenere l’immagine del suo corpo con le parole. “T’hanno tolto troppa roba” urlai.
Mi fermai. Era rimasta visibile solo la testa, galleggiante nell’aria, con la scritta fronte. Aggiunsi occhi, bocca, ma non riuscivo più a capire dove stavo scrivendo, quali erano i confini del suo corpo. Scomparve la lingua, il naso, le orecchie, che mi affrettai a sostituire con le parole. Le mie scritte disegnavano nell’aria il perimetro del corpo di Alessandro. Le guardai, facendo un passo indietro, ma avevo scritto in modo incomprensibile: bocca era vicinissima a naso, il quale si sovrapponeva con fronte, e la faccia di Alessandro ora era rattrappita come quella di un bulldog. Anche le due scritte Spalla destra, Spalla sinistra, erano a una distanza asimmetrica. Continuai a leggere, qualche lettera era già caduta a terra, poi cadde l’intero braccio. L’arabo con la barba d’acero, era venuto al tavolo. Tenendosi a un passo di distanza, allungò il dito fino a toccare Alessandro e le parole che avevo scritto si schiantarono a terra. Una folata di vento le fece alzare in volo; s’alzarono in cielo, sfaldandosi in frammenti di lettere confuse e come uno stormo di uccelli le vidi sorvolare i palazzi e emigrare lontano.