Quando siamo bambini ci insegnano che i sensi sono cinque – vista, olfatto, gusto, udito, tatto. Scopriamo poi negli anni che i sensi in realtà sono molti di più: tra questi si annoverano la propriocezione, l’enterocezione, il senso dell’equilibrio, la percezione della temperatura, il senso del sé, la capacità della mente di percepire pensieri e oggetti mentali, il senso di realtà, ovvero la capacità di distinguere la veglia dal sogno e dall’illusione. Forse, di solito, ci fermiamo ai primi cinque perché corrispondono a organi di senso che possono essere circoscritti in modo semplice e immediato. Occhi, naso, bocca, orecchie, mani. Prestando attenzione, tuttavia, ci accorgiamo che non solo il corpo organico può essere impresso attraverso la sensorialità: anche la mente si trova in quello stato liminale tra il sé e il non-sé che dà luogo alla percezione, oltre che essere deputata al sense-making di ciò che viene esperito da sé stessa e prima ancora dallo scontro-incontro tra corpi, corpuscoli e oscillazioni materiali.
Questo paradigma dei sensi può essere ulteriormente ampliato se teniamo in conto la tecnologia e i modi che abbiamo per alterare, ovattare, espandere le possibilità sensoriali. Dalla visione amplificata dal microscopio alle cuffie noise-cancelling che finalmente ci concedono una pausa dal rumore di fondo della vita, passando per gli strumenti di un prestigiatore che piegano la realtà, allo schermo del cellulare che apre varchi spazio-temporali permettendoci di essere qui e altrove: tutto questo ci consente di vedere, udire, pensare in modo diverso rispetto alla nostra capacità da “nudi”.
Christian Nirvana Damato, curatore della rivista Inactual e ricercatore indipendente, nel suo saggio Manifesto per la moltiplicazione degli organi (Aliberti, 2024) parte dall’assunto che il digitale partecipi a questa proliferazione esperienziale per ribaltarlo, evidenziando come all’interno della narrazione in cui siamo immersi ci sia in realtà una contraddizione. La moltiplicazione non crea un pieno, ma un vuoto. Essere qui e altrove diventa un’assenza e una frammentazione.
Nella tua opera critichi l’idea che la tecnologia sia soltanto un’estensione delle nostre capacità sensoriali. Secondo te, qual è il prezzo che paghiamo per questa “moltiplicazione”?
Recentemente l’Oxford Dictionary ha definito “parola dell’anno” il brain rot, termine che designa una sorta di decadimento cognitivo a causa dell’utilizzo ossessivo-compulsivo di determinate piattaforme social o web. Adesso se ne parla in termini scientifici, ma sono decenni che le teorie critiche sulla tecnologia riflettono su tali aspetti anticipandone le conclusioni. Cito il brain rot – ovvero questa marcescenza del cervello – perché si collega bene al titolo. La “Moltiplicazione degli Organi” è innanzitutto una conseguenza teorica e dialettica che si articola nel corso del libro. Parto dall’analisi del concetto di Corpo senza Organi così come riportato da Deleuze, un concetto che – per essere super sintetici – indica una serie di pratiche possibili atte a liberarsi dalle sovrastrutture sociali. Per me questo oggi risulta molto più difficile, se non impossibile, dal momento che siamo molto più interconnessi, interpellati costantemente al consumo di varia natura e “obbligati” a vivere nella bolla del sistema capitalistico. Rispetto a un sistema tecno-capitalistico analogico, un sistema digitale sussume i corpi in un modo molto più coercitivo, strutturale e invisibile, rendendo l’illusione di libera scelta l’imperativo entro cui ci muoviamo. Rompendo con il concetto di CsO (Corpo senza Organi) – che appunto non solo non si cerca più, ma se si cerca è sempre già un CsO già catturato e riproposto come tale da strutture che ne delimitano già libertà e opportunità (questo vale per ogni ambito: da quello lavorativo a quello sessuale). Chiamo dunque “Moltiplicazione degli Organi” (MdO) questa condizione in cui diventiamo multirecettivi, moltiplichiamo – appunto – i modi e le possibilità di esperire sensazioni di varia natura attraverso i nostri sensi attraverso il digitale. Questo, in una narrazione comune, è un bene, una forma che estende e potenzia le nostre capacità sensoriali, percettive e comunicative. Ma questa idea si paga non tanto con il prezzo illusorio della libertà e delle opportunità possibili che il digitale offre, ma ci riporta – oltre che in una situazione di impoverimento in termini di qualità relazionali – a essere ingranaggio attivo di quella visione transumana che è poi l’appiattimento assertivo alla logica di progresso lineare.
Per essere precisi, la critica che faccio è di non vedere questa moltiplicazione come una estensione o un potenziamento, ma come un indebolimento dell’ “organo fisico originario”. Il cervello che marcisce è solo una delle parti di un corpo che decade e si consuma, soprattutto a livello cognitivo e intellettivo, e dunque, di conseguenza, a livello di possibilità in potenza di ciò che un soggetto può fare nella sua vita. Recentemente ho scritto un articolo sulla questione del tempo e della cronofagia legata ai media. Abbiamo del tempo limitato, e perché lo usiamo per qualcosa che in realtà non vogliamo? Quale valore diamo alla distrazione? Siamo liberi di scegliere come distrarci o questa dev’essere necessariamente catturata come lo è già per l’attenzione? E poi, tutte queste piattaforme ci distraggono da cosa? Semplicemente, da ciò da cui vogliamo fuggire, ma sarebbe un errore, credo, finire in un discorso moralista. In un sistema in cui molte attività – dallo studio al lavoro alla programmazione del futuro e alla noia delle attività quotidiane – ci mettono sotto pressione (se va bene), l’importante è trovare quell’attimo fuggente, un carpe diem per scappare. È facile a questo punto diventare preda dei cronofagi, dei dispositivi e delle aziende che capitalizzano la distrazione offrendo servizi gratuiti. Noi aderiamo, spesso disinteressati; non ci interessano le immagini, i contenuti e le informazioni, ormai mi sembra tutto una conseguenza, un effetto collaterale. La costante è riempire tempo morto che vogliamo mantenere tale perché sospende la pressione del silenzio, dell’azzurro del cielo o del bianco del soffitto. È una specie di pulsione di morte cerebrale.
Il saggio esplora il legame tra desiderio e tecnologia. Perché oggi il desiderio è così centrale nella nostra relazione con il mondo digitale?
Poco fa ho citato la “pulsione di morte” freudiana che, senza entrare in tecnicismi, potremmo circoscriverla – in funzione del discorso che stiamo portando avanti – come una sorta di automatismo verso una distrazione fine a se stessa, senza alcuna forma di interesse: uno sguardo perso nel vuoto, una sottomissione a qualsiasi contenuto ci venga proposto, un annichilimento e basta. E se capita, ci lasciamo sedurre. Anzi, è inevitabile che qualcosa prima o poi ci seduca e catturi la nostra attenzione: un meme, un’ideologia, un video di guerra, una foto erotica.
Il desiderio è centrale essenzialmente per una ragione: noi siamo esseri desideranti, e il sistema capitalistico in cui viviamo mette in primo piano i desideri, e poi i bisogni. Li mette in primo piano sia in quanto sistema desiderante, dunque imponendo i suoi desideri, sia coinvolgendo e facendo leva sui desideri delle persone; a loro volta, i desideri di queste persone sono costruiti per loro dal sistema in cui si trovano, ragion per cui spesso ci troviamo in crisi: non sappiamo davvero cosa desideriamo, abbiamo bisogno di fare dei check, come se dovessimo capire a che livello della realtà ci troviamo, e più scendiamo, più ci rendiamo conto che la maggior parte delle cose che desideriamo non è che sono “superficiali”; piuttosto, non sono mai come le immaginavamo. Tutta questa interpellazione e produzione di soggetti desideranti oggi è influenzata moltissimo dal digitale, perché racchiude in sé un immaginario molto più ampio di quello che possiamo esperire nel mondo fisico. In questo senso, essendo molto più ampio di quello fisico esperibile, il digitale è una terra di desideri, spesso fittizi e altamente conformisti.
Nel tuo saggio parli del concetto di “desiderio statistico” e mi è sembrata una denominazione pregnante per il contesto del social come medium di massa, dove la legge dei grandi numeri sembra massimamente prevalere. Cosa intendi con questo concetto?
Credo che questo concetto sia centrale nel libro, almeno per quanto mi riguarda, anche perché ha aperto la strada alla stesura (in corso) del mio secondo libro. È un concetto che ha lasciato più domande che risposte. Per essere preciso, citando MdMdO, «Definisco desiderio statistico la mutazione del desiderio in cui siamo già immersi e a cui andiamo incontro: una forma che fonda la sua spinta attraverso il divenire numero, la gamification, la prevedibilità e la predizione delle azioni che vogliamo mettere in atto, il rifiuto dell’errore e l’aderenza al calcolo. Il desiderio statistico forse è sempre esistito, ma si accentua e va sviluppandosi in modo particolarmente imperante nel presente storico in cui questo libro è stato scritto. […] Tale desiderio statistico si collauda attraverso la proposta di sviluppo e progresso della tecnologia come estensione dell’umano e dunque come potenziamento infinito in un mondo di risorse finite e in un corpo/mente intralciato, non ascrivibile alla matematizzazione totale dell’essere». Nel libro concettualizzo questo termine nella parte finale, qui vorrei lasciare solo ulteriori suggestioni per non ripetermi. Il desiderio statistico è il desiderio totalmente aderente al gioco sistemico in cui viviamo. È la nostra forma di adattamento continuo all’accelerazione e alla perdita di presente sotto i nostri piedi. Il desiderio statistico è la spinta motivazionale necessaria per attraversare quel ponte di legno e corde su un dirupo che crollando, tegola dopo tegola, ci terrorizza con la parola “futuro”.
Dalla bibliografia del tuo libro emergono riferimenti che spaziano da filosofi come Foucault e Deleuze fino a studi sulla pornografia e il digitale. Come hai costruito questa rete di riferimenti e quanto ti ha influenzato nella scrittura?
Per anni la mia ricerca si è mossa nell’intersezione tra filosofia, visual-media studies, psicoanalisi e studi di genere. Molte sono le letture che hanno influenzato il mio pensiero, ma non voglio collocarmi da nessuna parte. Per il mio secondo libro saranno anche discipline quali antropologia, biologia e fisica. Mi interessa piegare le discipline rispetto a ciò che voglio dire. Ho un background artistico e indisciplinato rispetto alle norme delle Università, e non ho mai maturato fiducia nelle forme di accademismo monoculari e rigide. Questo non vuol dire pensare la teoria come qualcosa di casuale o superficiale, anzi, ho delle precise metodologie sia di ricerca sia nel processo di scrittura. Non sono contro la ricerca accademica, dipende da come la si fa: libertà metodologica e interdisciplinare o morte di ogni possibilità di comporre concetti e pensieri propri.
Nel tuo libro metti in discussione anche il ruolo dell’immagine nel digitale, parlando di come oggi le immagini siano “sottomesse” o “impoverite”. Cosa intendi dire con questa affermazione?
Nel saggio intendo questo aspetto a partire da un ripensamento di quello che W. J. T. Mitchell ha definito ormai diversi anni fa il “Pictorial Turn”, ovvero quella svolta di dominio della cultura (visuale) e delle immagini. Il potere delle immagini, al netto della loro infinità quantità e nevrotica circolazione, è limitato e sottomesso a due forme di linguaggio, quello testuale umano e quello algoritmico e di programmazione. Le immagini non significano alcunché fuori dalla fruizione mediata da piattaforme, creator, dispositivi eccetera. Non si tratta qui di una questione di manipolazione, bensì del fatto che ogni immagine è letteralmente sottomessa ad architetture e sovrastrutture che la incorniciano, la attivano, la aprono e la muovono nel mondo esterno. Poi c’è anche un discorso legato alla spettacolarizzazione dell’immagine. Quando nel libro dico che ogni immagine digitale è per sua costituzione pubblicitaria e pornografica, lo è proprio nella misura in cui a prescindere dal suo significato è inserita in una struttura che la veicola e la investe di quel fine, quello della circolazione algoritmica e dell’interpellazione del pubblico. Per questa ragione a un certo punto scrivo «Questo libro è senza immagini per un motivo preciso: ribaltando la concezione comune dell’interrelazione tra etica ed estetica, sembra che oggi non possa esserci etica con estetica, giacché quest’ultima è intrappolata da un sistema che neutralizza il suo potenziale rivoluzionario, riducendola a una meccanica statistica di spettacolarizzazione, intrattenimento, stimolazione sensoriale e moda». Ovviamente questo non vuol dire non poter fare più arte o che la scrittura sia meglio. Anche la critica e la teoria subisce oggi lo stesso effetto di spettacolarizzazione, tuttavia è giusto agire nel conflitto. Prenderne coscienza però è importante, perché all’interno di questa zona grigia ci sono moltissime sfumature, ed essere consapevoli di tutte le contraddizioni presenti può essere d’aiuto quando ci ritroviamo a fare delle scelte. Chi scrive non è fuori da una questione di classe o dal sistema capitalistico, ne è parte e ogni soggetto che scrive si trova in una posizione di cui dovrebbe tener conto. Bisogna integrarsi all’interno della propria scrittura, sovrascriversi sul proprio testo, fare della propria soggettività una trama del Testo – che difatti deriva da tessuto.
Un tema che ritorna nel tuo lavoro è quello del limite umano: siamo “condannati” a desiderare, ma non possiamo mai superare la nostra parzialità. Come possiamo vivere meglio questo rapporto con il desiderio e con i suoi limiti?
Non possiamo viverlo meglio, perché è sempre qualcosa di contraddittorio. L’agonia del desiderio mai raggiunto equivale alla noia del desiderio lasciato alle spalle. Non si può dire “seguilo ciecamente”, perché questo può voler dire anche includere aspetti negativi, immorali, azzardati e per niente etici, spesso autodistruttivi. Se proprio dobbiamo autoregolare i nostri desideri, allora l’unica regola dovrebbe essere quella di evitare di compierli ferendo altre persone, sia intenzionalmente che come conseguenza di un atto. In un’ottica più ampia ed esistenziale, bisogna trovare quei desideri a lungo termine che non si spengono, quelle ragioni di vita forti, ma bisogna scavare e non è sicuro trovarle, perché alla fine non c’è altro che terra. Siamo noi a inventare quelle ragioni e il desiderio che le sostiene. Tutto ciò che possiamo fare è cercare di sentire queste ragioni come davvero nostre. In ultima analisi, tutto ciò che ci appartiene ci stanca, dunque il desiderio è necessariamente funambolico tra neghentropia ed entropia.