Questo pezzo potrebbe cominciare così:
Io ho un problema con le tastiere dei computer: le rompo. Più di una volta sono stato costretto a cambiare pc o portarlo a riparare perché la tastiera non funzionava più bene, alcuni tasti improvvisamente smettevano di rispondere, li premevo e non succedeva nulla. La causa dei guasti è, probabilmente, l’eccessiva forza con cui batto i tasti. La cattiva abitudine mi deriva dall’influenza esercitata da tanti vecchi film in cui si vedono scrittori o giornalisti battere a macchina e che io, ogni qual volta mi siedo alla scrivania per scrivere un articolo, mi ritrovo inconsciamente a imitare. In quei film gli scrittori scrivono rapidissimi, con foga trascinante, chini sulle loro macchine da scrivere ticchettanti. Tranne quando sono in crisi: in quel caso la macchina tace, il foglio rimane immacolato e loro si immalinconiscono alla scrivania, fumano, buttano giù bicchieri di superalcolici e guardano fuori dalla finestra. Io non fumo e bevo alcol solo fuori di casa, quindi, quando sono in crisi, per imitarli posso solo guardare fuori dalla finestra. E se sono in crisi con la scrittura di un articolo il motivo è sempre lo stesso: non so come cominciarlo. Quasi mai mi capita di bloccarmi in mezzo ad un articolo: se capita, capita all’inizio perché non riesco a trovare l’attacco giusto. L’avere o meno in mente fin da subito un incipit chiaro rappresenta per me la più importante variabile che determinerà se la scrittura dell’articolo sarà semplice o faticosa. Per questo il come iniziare un pezzo è la questione teorica intorno alla scrittura su cui più spesso mi capita di riflettere.
D’altra parte, questo articolo poteva anche cominciare così:
Su quanto l’inizio di un articolo sia importante, che svolge una funzione fondamentale di soglia, che deve essere in grado di agganciare l’attenzione del lettore e convincerlo a proseguire, sono considerazioni ovvie che troverete in qualunque abbiccì di scrittura giornalistica. Altrettanto ovvio, dunque, è che la scrittura di un attacco meriti particolare cura. In questo pezzo non intendo provare a individuare delle regole su come scrivere un buon attacco (anche perché credo che avere delle regole precise da seguire sarebbe controproducente: porterebbe alla standardizzazione e quindi alla noia e allo stereotipo). Piuttosto vorrei tentare di abbozzare le prime tracce di una fenomenologia degli incipit degli articoli culturali. In particolare, vorrei inquadrare brevemente quelli che sono, a mio avviso, i due tipi fondamentali di attacchi, i quali in qualche modo corrispondono a due atteggiamenti fondamentali con cui si può introdurre i lettori nell’argomento di un pezzo. Per finire, prenderò gli incipit di due articoli come campioni per esemplificare le due tipologie.
Non so se qualcuno ha già coniato una terminologia per descrivere le tipologie di incipit, ma per quanto mi riguarda li chiamo “attacchi centrati” e “attacchi decentrati” (nomenclatura alternativa: “attacchi dritti” e “attacchi storti”). Chiaramente i modi possibili con cui si può iniziare un articolo sono pressoché infiniti, eppure io credo che siano quasi sempre riconducibili a una di queste due tipologie.
Gli attacchi centrati sono sostanzialmente quelli che mettono subito in chiaro quello di cui si parla. Introducono immediatamente il tema o i temi del pezzo. Nei casi degli articoli più complessi possono anche fare, nel giro dei primi paragrafi, una sorta di indice interno che anticipa i singoli punti che si andranno a toccare, come in una myse en abime dell’intero articolo all’inizio dell’articolo stesso.
In generale un attacco centrato è più semplice da scrivere di un attacco decentrato perché meno creativo (come vedremo) e quindi più “automatico”: una volta che uno sa cosa deve scrivere (ed è improbabile che uno si metta a buttare giù un pezzo senza saperlo) ha la strada già tracciata. Tuttavia richiede una abilità non scontata per evitare il rischio di cadere nel didascalico, che è appunto il difetto che più spesso si può imputare a questo tipo di inizio.
Possiamo dire che è la “scelta prudente e razionale”. È quella che punta sulla chiarezza, che non vuole correre il rischio che il lettore possa sentirsi spaesato e quindi gli fornisce subito una mappa e le informazioni essenziali affinché sia preparato a quello che segue. Certo come tutte le scelte prudenti e razionali può facilmente essere percepita come una scelta noiosa.
Quelli che io chiamo attacchi decentrati, invece, sono gli incipit che “la prendono alla larga”. Posticipano il momento in cui verrà messo in chiaro di che cosa l’articolo parla e preferiscono partire lontani dal cuore del pezzo (decentrati appunto), da una sua possibile diramazione e prendersi qualche paragrafo prima di arrivare al punto.
Scegliere un attacco decentrato significa dare al pezzo un andamento più narrativo (laddove nessuna storia spiattella in partenza dove vuole andare a parare). Richiede un maggiore sforzo di creatività poiché chi scrive è chiamato a trovare un punto di partenza non scontato e poi andare costruendo la strada che lo porterà al tema centrale dell’articolo (che chiaramente ad un certo punto deve essere esplicitato) in maniera abbastanza coerente e convincente da non fare sembrare l’incipit pretestuoso.
Un attacco di questo tipo può giocare a sorprendere, e riesce a farlo quanto tanto più è lontano (almeno apparentemente) il punto di partenza e più inaspettato il collegamento con il cuore del pezzo. Ovviamente, ciò comporta una certa spericolatezza e più si tira la corda e più occorre abilità e impegno per riuscire ad annodare in maniera sensata il filo del discorso.
Il vantaggio è che questo tipo di incipit si rivela quasi sempre più vivace. Rischia sì di generare confusione nel lettore, ma insieme concede più strumenti per agganciare la sua attenzione. Personalmente trovo che sia anche più “letterario” (il che, quando si parla di giornalismo culturale, non è un fatto secondario) e soprattutto più libero: mentre per l’attacco centrato è pressappoco chiaro a priori cosa deve fare e a chi scrive spetta il compito di farlo il meglio possibile, in quello decentrato si trova davanti a possibilità potenzialmente infinite ed è chiamato a trovare quella migliore.
Ma per non lasciare le cose troppo astratte vorrei soffermarmi su un paio di esempi. Sono due articoli molto diversi: uno recentissimo, l’altro risalente a quasi cinquant’anni fa. Ma la distanza del tempo dei due pezzi aiuterà forse a dimostrare una relativa stabilità diacronica di queste categorie. Inoltre, i due pezzi, pur diversi, appartengono allo stesso genere: sono dei ritratti. Il che, invece, dimostra come anche a pezzi con la stessa finalità si possono applicare entrambe le tipologie.
Iniziamo con un esempio di attacco centrato. L’articolo che ho scelto è Anti ritratto di Oscar Wilde di Enrico Terrinoni, pubblicato lo scorso 24 ottobre su Il Tascabile. Inutile spendere ulteriori parole per introdurre l’articolo, tanto si introduce benissimo da sé:
Sono passati centosettant’anni dalla nascita di Wilde, e si sente, ora più che mai, il bisogno di tornare sugli intrecci sempre attuali tra la sua opera e la sua vita. Credo però che dobbiamo farlo con occhi nuovi, e con stupore. Per riscoprire qualcosa di inatteso. Richard Ellmann, suo biografo, questo disse dell’irlandese: “il fatto che fosse una persona dolcissima non è poi così noto… Oscar Wilde è uno di noi”. Sono parole che fanno pensare, perché attorno alla figura di Wilde, o meglio, di Oscar Fingal O’Flaherty Wills Wilde, per citare il suo nome per intero (chiaro ammiccamento alle radici celtiche) aleggiano ancora troppi equivoci e fraintendimenti. L’immagine del dandy, dell’esteta puro, dell’uomo che intende fare della propria vita un’opera d’arte, del Dorian Gray, in definitiva, ha oscurato tanti aspetti più importanti della sua figura. La sua “dolcezza” di padre, ad esempio, di marito e compagno come dice Ellmann, e poi il fatto di essere uno scrittore popolare nel senso migliore del termine (basterebbe leggere il suo “L’anima dell’uomo sotto il socialismo” per capirlo). Ma soprattutto, credo che sia necessario ritornare a un aspetto di cui si parla pochissimo: la sua indubbia “irlandesità”.
Già nel primo periodo viene annunciato lo scopo dell’articolo: raccontare gli intrecci tra la vita e l’opera di Oscar Wilde. Nel secondo e nel terzo viene subito specificato come si intende farlo: «con occhi nuovi, e con stupore», per arrivare a «riscoprire qualcosa di inatteso». Quello che l’articolo vuole fare è già perfettamente delineato.
Nel secondo paragrafo – ancora introduttivo – si va un po’ più nel dettaglio. Innanzitutto si cita una delle fonti da cui il pezzo attinge (il biografo Richard Ellmann), ma soprattutto si va a spiegare in che senso il ritratto che seguirà vuole cogliere un Wilde inaspettato: allontanarsi dai soliti luoghi comuni del dandy per approfondire aspetti meno noti dello scrittore, cioè i rapporti famigliari e personali, il suo essere un autore vicino al popolo, la sua “irlandensità”. Tutti punti che verranno ripresi e approfonditi nel resto dell’articolo. Ed ecco quindi, nel giro di poche righe, una introduzione chiara e pulita nella sua funziona esplicativa.
Come esempio di attacco decentrato sono andato molto più indietro nel tempo. Il pezzo è di Joan Didion, si intitola James Pike, americano. Risale al 1977 ed è stato raccolto in The white album (l’edizione italiana, da cui attingo, è edita da Il Saggiatore con la traduzione di Delfina Vezzoli). Come anticipavo è anch’esso un ritratto: a essere raccontata è la figura di James Albert Pike, vescovo episcopale americano sospettato d’eresia, vissuto tra il 1913 e il 1969, che Didion prende come paradigmatico dei fermenti culturali in California degli anni ’60. Leggiamo l’incipit:
È un monumento curioso e sfacciatamente secolare, la Grace Episcopal Cathedral di San Francisco, e impone il proprio tono su tutto ciò che la circonda. Si erge direttamente sul fulcro simbolico del denaro e del potere della vecchia California, Nob Hill. Le sue grandi finestre rosate brillano di notte e dominano certe viste che si godono dal Mark Hopkins e dal Fairmont Hotel e anche dall’appartamento di Randolph e Catherine Hearst in California Street. In una città fedele all’illusione che ogni impresa umana tenda misticamente a ovest, verso il Pacifico, la Grace Cathedral è rivolta risolutamente a est, verso il Pacific Union Club. Da bambina fui informata da mia nonna che Grace era «incompleta», e lo sarebbe sempre stata, perché quella era precisamente l’idea. Negli anni dopo la Prima guerra mondiale, mia madre aveva messo dei penny per Grace nella sua scatola delle elemosine ma Grace non sarebbe mai stata completata. Negli anni dopo la Seconda guerra mondiale, io mettevo penny per Grace nella mia scatola delle elemosine, ma Grace non sarebbe mai stata completata. Nel 1964 James Albert Pike, che era tornato dalla cattedrale di St. John the Divine a New York e dal Dean Pike Show sulla Abc per diventare vescovo della California, raccolse 3 milioni di dollari, installò immagini di Albert Einstein, Thurgood Marshall e John Glenn sui lucernari, e nel nome di Dio (a quel punto James Albert Pike aveva semplificato la Trinità, eliminando il Figlio e lo Spirito santo) dichiarò Grace «finita». La cosa mi colpì come uno strano e inquietante sviluppo, un’incomprensione estrema dell’idea portante – almeno per come l’avevo intesa io da bambina – e scolpì James Albert Pike nella mia coscienza con più forza e in modo più indelebile di ogni altra sua mossa precedente.
L’articolo non parte parlando di Pike. Parte parlando di una cattedrale episcopale di San Francisco. Il nome di Pike appare solo oltre la metà di questo lungo paragrafo introduttivo.
Il focus iniziale è sulla cattedrale, Pike entra in scena nel momento in cui la sua storia incrocia quella della cattedrale (e indirettamente anche quella dell’autrice) e a quel punto il centro si sposta su di lui e su di lui rimarrà: subito dopo Didion procederà raccontando della strana morte del vescovo, avvenuta 5 anni dopo aver completato la cattedrale, dopodiché tornerà indietro per ripercorrere la sua biografia dall’inizio. Peraltro, l’entrata in scena di Pike è estremamente funzionale al pezzo: il completamento della cattedrale non è l’evento più importante o più clamoroso della sua vita (se Didion avesse voluto puntare su inizio puramente ad effetto avrebbe avuto più senso cominciare dalla sua morte), ma esemplifica bene certe caratteristiche dell’uomo (la sua sbrigatività, quasi grossolana, in cui l’autrice rileva la sua profonda americanità) che saranno approfondite più avanti.
Ciò rende efficace questo attacco e la sua costruzione è quasi cinematografica: viene fatta una accurata panoramica su uno scenario prima di fare apparire il personaggio che è il vero protagonista della storia che sta per essere raccontata. E anche la descrizione di questo scenario procede attraverso un progressivo avvicinamento: si inizia dalla descrizione esterna della cattedrale per poi “zoomare” sui dettagli biografici che la legano all’autrice. Così facendo, nel momento in cui appare Pike noi che leggiamo siamo già coinvolti: siamo dentro quello che Didion vuole raccontarci ancora prima che lei ci dica di che si tratta.