Partiamo dalla fine: “La parola speranza, insieme alla parola immaginazione, sta accanto alla parola femminista e la determina da sempre, da quando Olympe de Gouges ha scritto: La donna nasce libera e ha gli stessi diritti dell’uomo. Di quanta immaginazione ha avuto bisogno per prefigurare un mondo dove anche le donne nascessero libere? Di quanta speranza ha avuto bisogno per trovare la forza di scriverlo?”.
Tre parole chiave: “speranza”, “immaginazione”, “femminista”, tre parole che sono linguaggio e pratica, tre parole che sono legate da un filo solidissimo che Roghi tesse per tutto il suo nuovo libro, La parola femminista (2024), un saggio storico, un personal essay, un esericizio immaginifico. Tre parole che sono tre strumenti di lotta e di autodeterminazione.
Come tutti i testi dell’autrice, da Piccola città – una comune storia di eroina (2017) a Un libro d’oro e d’argento – intorno alla Grammatica della Fantasia di Gianni Rodari (2023) – il percorso della narrazione non è mai unico. Roghi riesce a trattenere insieme un’ampia bibliografia, – da Manifesto di Rivolta Femminile ai recenti saggi di Elisa Cuter, Djarah Kan, Giulia Siviero, passando per gli imprescindibili scritti di bell hooks e Lea Melandri -, e la sua storia personale. Questo testo è in grado di creare una geografia specifica: come si è evoluta la parola femminista negli studi e dentro di noi? Forse ‘evoluzione’ non è neanche il termine adeguato, ma più un’espansione non ordinata, una linea aggrovigliata che fa avanti indietro, ma anche destra-sinistra, cambia significato e si riscopre in varie fasi della vita. Per questo motivo è così interessante che il libro tratteggi anche la storia personale dell’autrice, il suo rapporto con il corpo, con la madre, con la nonna, con il primo abuso, con il lavoro e la maternità, ma anche con le storie di tutte le altre.
Roghi intervista donne di età, provenienza e classe diversa creando una sorta di mosaico collettivo di voci. Un’operazione che – in un certo senso – ricorda quella della citatissima Carla Lonzi e del suo Autoritratto, le voci degli artisti per raccontare le proprie pratiche, un coro dissonante che aiuta a immergersi in una storia che in nessun modo può essere omogenea perché è anche personale. Proprio l’idea di un coro di voci che costruiscono un grido con una fortissima eco è l’immagine mentale che si è formata dentro di me leggendolo. Ed è impossibile scrivere del lavoro di Roghi senza interrogarsi, senza seguire il suo percorso umano. E allora la prima domanda che mi sorge spontanea è quando è stata la prima volta che io ho sentito la parola “femminista” e che percorso ha fatto dentro di me.
Roghi racconta che sua mamma era una femminista, mentre sua nonna no. Io penso alle donne della mia famiglia e non penso di averle mai sentite pronunciare la parola “femminismo”. Il primo incontro con la politica, i corpi, le manifestazioni e le discussioni sul senso delle cose è stato molti anni dopo, durante i collettivi politici del mio liceo. Erano la cosa più importante delle mie giornate, studiavo poco e male, ma non vedevo l’ora di mettermi seduta in cerchio a parlare di classe, di lotta, di istruzione e cultura in generale. Mi ci è voluto molto tempo per rendermi conto che parlavano solo gli uomini, che noi stavamo molto spesso solo ad ascoltare. Il megafono alle manifestazioni riverberava una voce solamente maschile. Mi ricordo benissimo che qualche tempo dopo avevo riunito varie ragazze del collettivo e varie amiche della classe nel bar vicino la scuola e avevo chiamato l’appuntamento “collettivo femminista”. Non ne sapevo niente di femminismo, ma ricordo quanto avevo bisogno di spazio per parlare e per ascoltare le storie delle altre. Parlare del rapporto con i propri genitori, parlare di sesso perché non c’era nessuna educazione sessuale, ma soprattutto riuscire a prendere parola in una piccola assemblea senza aver paura che una voce più forte potesse coprirti, sminuirti, dirti che il personale non è politico.
Molti anni dopo, durante gli anni dell’università, ho fatto un corso di scrittura di esperienza con Lea Melandri e ho scoperto che quello che avevamo provato a fare con le ragazze al bar era una sorta di esercizio di autocoscienza. Stavamo cercando di scavare dentro per capire quello che succedeva fuori. Ne La parola femminista Roghi si sofferma a lungo sull’esperienza di Lea Melandri, una pagina della storia del femminismo italiano importantissima ma spesso dimenticata. Nel ‘71 è fondatrice della rivista “L’erba voglio” insieme a Elvio Fachinelli in cui si discuteva di femminismo e marxismo, è insegnante, militante e scrittrice. Melandri, come Roghi dopotutto, si occupa anche e soprattutto di scuola: “Lea Melandri ricorda come la questione della differenza non entri nella discussione politica sulla scuola, e sia l’esperienza dell’incontro con donne adulte ai corsi delle 150 ore a darle la possibilità di immaginare che si possa fare scuola in modo diverso, femminista appunto. I corsi tenuti “da donne per le donne” sono stati, secondo Melandri, “un’esperienza unica, sorta all’intersezione tra l’impegno sindacale, la critica femminista e le riforme tentate in ambito educativo ed accademico”. Il femminismo si fa pratica e spazio, ma come abbiamo detto all’inizio non ha un tipo di espansione prevedibile e lineare. Non è una curva ascendente.
L’autrice vuole indagare il percorso contorto e incidentato del femminismo e delle sue parole chiave, e il testo ha il grande pregio di avere uno sguardo sincero di continua autoanalisi. La parola femminista ha un percorso diverso dentro ognuna di noi, ma a un certo punto la storia dentro e fuori di noi sembra incontrarsi e la parola femminista sembra ritrarsi: “Essere femministe significava anche avere il diritto di scegliere se avere una figlia oppure no. Lo sentivo dire ai collettivi. A sei anni sapevo che l’aborto doveva essere un diritto. E poi, la cosa più importante, o almeno a me sembrava così: essere femministe significava esserlo insieme. Da sole si era bambine, ragazze, donne. Ma femministe no. Quello lo si era tutte insieme. Poi, un po’ per volta, qualcosa è cambiato. Dacchè ero femminista, intorno ai dodici anni, ho smesso di esserlo”.
Roghi ci racconta che a fine anni ‘80 e inizio anni ‘90 c’è una sorta di rimozione coatta della parola “femminista” da tutti i circuiti non politici, intellettuali e militanti, in un periodo in un cui inizia a serpeggiare una sorta di “imbarazzo della memoria” per citare Franca Bimbi. Il femminismo sembra essere stato storicizzato in pochissimo tempo, la parola femminista cambia la sua declinazione e finisce per non essere mai usata per il presente né tantomeno per il futuro. È il periodo in cui nasce una guerra sotterranea e subdola contro le donne, sono gli anni del neoliberismo reaganiano e della costruzione di una nuova immagine femminile che culminerà nell’epoca del nostro berlusconismo. Questo passaggio storico-culturale lo evidenzia la giornalista Susan Faludi nel suo testo “Backlash: The Undeclared War Against Women”, parla di un vero e proprio “contraccolpo” di cui stiamo ancora pagando le conseguenze. Si perde totalmente la catena iniziale di parole magiche: femminista, speranza, immaginazione. E di conseguenza si perdono tutte le parole che avevano definito una specifica postura nel mondo: coscienza, classe, sesso e sessualità, differenza e differenze.
Io, come Roghi, a un certo punto mi scordo della parola femminista e quasi non me ne rendo conto. Lo spazio delle amiche e della lotta diventa sempre meno, si inizia a crescere e mi sembra che la vita degli adulti non possa coincidere con una vita in cui si sta al bar a parlare con le altre, improvvisamente mi sembra tutto una perdita di tempo. Mi iscrivo all’università, inizio a lavorare, voglio andare via di casa il prima possibile, non riesco a pensarmi come parte di una comunità, un po’ perché l’ho persa nel passaggio dal liceo all’università, un po’ perché non mi sembra più possibile avere quel privilegio lì. Poi qualcosa cambia di nuovo e la mia strada s’incrocia con quella del movimento Non una di meno di cui Roghi racconta la genesi: la nascita in Argentina nel 2015, la diffusione capillare in varie parti del mondo, le nuove manifestazioni, i sit-in, i picchetti, la parola femminista rientra nel discorso pubblico come pratica politica e anche nella mia vita.
L’autrice riesce, come anche Giulia Siviero nel suo Fare femminismo, a modellare la sua indagine in tante direzioni diverse: maternità, aborto, sessualità, linguaggio. Uno degli ultimi capitoli si intitola “un apostrofo (dedicato a Michela Murgia)” ed è una riflessione sugli strumenti dell’immaginazione. Roghi ci fa notare che il correttore di word segna in rosso la parola “un’intellettuale” con l’apostrofo (e in effetti lo sta facendo anche il mio computer adesso) come se si potesse essere solo uomini per essere intellettuali. Poi riporta un aneddoto raccontato da Rossana Rossanda nel quale diceva che a un certo punto serviva una donna all’interno del Partito Comunista e, giustamente, lei aveva fatto notare la sua presenza. La risposta è esilarante quanto problematica: “tu sei un intellettuale, non sei una donna”. Allora Roghi fa un esercizio di Fantastica, prendendo dagli studi di Gianni Rodari, e mette un apostrofo dove non c’è, creando una nuova storia: “si tratta solo di modificare le coordinate entro cui si colloca il protagonista della storia, anzi la protagonista, e l’immaginario che la circonda. Si tratta solo di non avere in mente un’unica storia, un’unica genealogia, un unico modo di pensare il lavoro culturale e di pensarsi. […] Un intellettuale diventa un’intellettuale e crea uno spaesamento, uno straniamento, che nasce da un piccolo aneddoto personale”.
La capacità di Roghi è quella di essere una compagna di scrittura e lettura, legittimare la storia personale come caso studio ma senza diventare una narrazione del sé, è una scrittura aperta verso l’esterno, che perennemente prende dalle altre e ne restituisce qualcosa. Lo scrive perfettamente la stessa Lea Melandri qual è il posto in cui si inserisce questo saggio: “ha riempito quel vuoto nel modo per me più desiderabile, facendo del femminismo degli anni ‘70 e del suo seguito, non solo e non tanto un oggetto di studio, ma un percorso di esperienza personale e politica, di autobiografia e storia, una coralità di voci in un perfetto amalgama con la propria: “un io che modifica un noi”, un Sé che si interroga su tutte quelle esperienze universali dell’umano -prima di tutto il rapporto tra I sessi – che sono state confinate nel privato e nell’immobilità delle leggi naturali.” Ecco, “un io che modifica un noi” è proprio il tipo di postura che avevo perso da ragazza ma che sto cercando di ritrovare dentro e fuori di me.