Giulio Calella è cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia e ideatore del festival della Letteratura Working Class che si tiene al presidio ex-GKN di Campi Bisenzio. Abbiamo partecipato ad un suo incontro presso la Scuola del Tascabile di cui qui riportiamo un estratto. Ringraziamo per la disponibilità e la partecipazione Francesco Pacifico, senior editor del Tascabile e tutti gli studenti della Scuola del Tascabile.
Come nasce Jacobin?
La rivista nasce negli Stati Uniti nel 2010 da un gruppo di giovanissimi studenti americani di Brooklyn, dei ventenni all’epoca. Il fondatore, Bhaskar Sunkara, è di origine indiana, la sua famiglia era emigrata negli Stati Uniti e lui è stato l’unico di sei fratelli ad andare all’università. Jacobin nasce quindi come una piccola rivista di studenti universitari che Sunkara gestiva insieme ai suoi compagni di corso. La sua fortuna è stata intercettare l’onda del movimento di Occupy Wall Street nel 2011 grazie al quale c’è stata una prima impennata nella diffusione della rivista; poi durante le campagne di Bernie Sanders per la presidenza nel 2016 e nel 2020 – che hanno rilanciato la parola socialismo negli Stati Uniti – la crescita è diventata esponenziale fino a diventare un caso editoriale internazionale: una rivista di giovanissimi, esplicitamente marxista, che riesce ad arrivare in breve tempo all’attenzione di ambienti mainstream.
Che rapporto ha Jacobin Italia con la redazione statunitense e come è nata l’idea della rivista?
Noi di Alegre siamo stati i primi a proporre a Jacobin di fare un’edizione non inglese della rivista. La motivazione principale è che ci siamo ritrovati a vivere in una distopia: “vivere in un paese senza sinistra”, che è stato appunto il titolo del primo numero di Jacobin Italia. Un paese come l’Italia, pur avendo avuto il partito comunista più grande dell’occidente, oggi è un paese senza sinistra, cosa al quale invece negli Stati Uniti erano ben più abituati avendo una tradizione politica molto diversa dalla nostra. L’idea quindi è stata di importare questo modello, che era riuscito a ricostruire negli Stati Uniti un’idea di sinistra quasi da zero o quantomeno in una situazione politica di debolezza complessiva. Così abbiamo creato con Alegre un collettivo redazionale e abbiamo fatto una riunione con quello americano: sono stati subito entusiasti dell’idea e così è nata Jacobin Italia. La nostra è quindi una redazione italiana che produce uno o due articoli al giorno per il sito internet della rivista e un cartaceo trimestrale di cui scegliamo di volta in volta un tema che lega tutti gli articoli. L’unico vincolo che abbiamo con l’edizione statunitense è di tradurre il 30% dei contenuti dall’edizione americana, sia per il sito che per il cartaceo, e questi articoli li selezioniamo tra quelli che crediamo siano più adatti al pubblico italiano o che comunque ci sembrano i più interessanti. La nostra idea di non tradurre semplicemente Jacobin in Italia ma di fare Jacobin in Italia si è rivelata vincente e dopo di noi sono nati Jacobin Germania, Jacobin Brasile, Jacobin America Latina, Jacobin Grecia, Jacobin Olanda, ecc..
Qual è la funzione che si propone di avere Jacobin Italia nel panorama delle riviste culturali? Cosa vuole fare che le altre riviste non fanno?
Jacobin è una rivista di approfondimento culturale che non vuole appiattirsi sull’attualità, né tantomeno sul chiacchiericcio degli avvenimenti, ma che vuole aggredire la realtà. Cerchiamo di approfondire ogni tema usando un linguaggio divulgativo, rigoroso ma non accademico. Questo è sicuramente uno dei nostri mantra, in particolare quando commissioniamo un articolo: tutto deve essere leggibile anche da chi affronta il tema per la prima volta, bisogna quindi evitare riferimenti dati per scontati e non usare mai un gergo strettamente accademico – problema che incontriamo spesso con ricercatori e dottorandi, abituati a usare le note negli articoli – o un gergo strettamente politico, anche di “movimento” che spesso ha delle liturgie, delle retoriche che possono risultare respingenti o poco chiare. Questa è sempre stata la freschezza di Jacobin fin da quando è nata negli Stati Uniti: creare una rivista dichiaratamente marxista, quindi politicamente marginale, profondamente schierata, anche in modo irriverente – penso alla rubrica delle Ghigliottine, in cui dissacriamo un personaggio o un’idea dominante – ma sempre con un linguaggio e una grafica il più accessibile possibile.
Jacobin Italia nasce in un momento di profondo vuoto politico, come si posiziona in questo vuoto e quale prospettiva propone?
La crisi totale dei partiti, dei movimenti, dei riferimenti, anche ideologici, anche di linguaggio, ha prodotto inizialmente un vuoto e poi un bisogno di riempirlo. Uno degli obiettivi che abbiamo inserito nel primo editoriale di Jacobin Italia era ritracciare il campo di battaglia perché siamo scivolati in una realtà dove si è provato a unire ciò che in realtà è diviso – ossia a cancellare le differenze sociali, di classe, la disuguaglianza in generale dietro a parole come popolo o responsabilità nazionale – e a dividere ciò che in realtà è unito – quel meccanismo per cui l’oppressione di razza, genere e classe viene utilizzata per mettere l’uno contro l’altra chi in realtà ha interessi in larga parte comuni. La metafora della ghigliottina per noi è importante perché la ghigliottina traccia, è uno strumento per ritracciare il conflitto e rimetterlo al centro del dibattito. Avendo perso qualunque riferimento politico, almeno a partire dagli anni Novanta, la rivista ha avuto bisogno di creare un suo linguaggio originale: non usare un gergo ormai residuo e non sembrare mai propagandistici.
Cosa rappresenta il logo di Jacobin?
È un giacobino nero, vuole essere quindi irriverente verso la tradizione giacobina stessa. Fa riferimento ai giacobini neri, cioè alla rivolta degli schiavi neri di Haiti, che a fine Settecento si rivoltarono contro la Repubblica francese (quindi contro i giacobini) che portavano la repubblica, l’uguaglianza, la solidarietà e la fraternità in Francia mentre lì mantenevano il colonialismo e la schiavitù. La rivolta dei giacobini neri di Haiti è stata fatta cantando la marsigliese contro l’esercito napoleonico. Il messaggio era: vi cantiamo noi in faccia la marsigliese, vi strappiamo dalle mani i valori dell’illuminismo che sono in mani ipocrite finché qui attuate il colonialismo. Per noi è un richiamo alle radici della rivoluzione, all’idea di una trasformazione radicale. In Francia, nell’estrema sinistra francese, questa idea è molto più problematica perché la tradizione giacobina è stata ripresa ad esempio anche da Macron, i giacobini sono un patrimonio comune, nazionale. Quindi quel nome, così efficace da noi, lì non lo è infatti ancora oggi nessuno ha proposto di fare Jacobin Francia.
Come è composta la redazione di Jacobin Italia?
Abbiamo una direzione collettiva, avendo scelto di non avere un direttore della rivista. La nostra redazione negli anni ha ospitato tra le quindici e le venti persone al cui interno c’è il gruppo di direzione collettiva che è composto da cinque persone, che sono poi gli editor della rivista. Inoltre abbiamo una persona che fa da ponte tra tutte le redazioni europee di Jacobin e quella statunitense con cui ci interfacciamo per coordinarci sui numeri cartacei, l’uscita degli articoli, le diverse proposte. Gli editor lavorano soprattutto sugli articoli quotidiani che escono sul nostro sito, mentre sulla rivista trimestrale tematica – che è il lavoro più impegnativo – lavora tutta la redazione, con cui individuiamo i temi e poi costruiamo dei gruppi di lavoro che si concentrano sui singoli numeri. A volte scegliamo lo stesso tema della versione statunitense, altre volte invece scegliamo un tema differente e il loro va a costituire la nostra sezione di articoli tradotti.
Come viene ideato e come lavorate a un numero della rivista?
Facciamo due riunioni l’anno di tutta la redazione – come detto siamo una ventina – e nella prima riunione cerchiamo di decidere i quattro temi dell’anno dei numeri cartacei. Una volta decisi i temi nella redazione formiamo i gruppi di lavoro, che sono di 4 o 5 persone, e costruiscono il numero. A volte nei gruppi di lavoro c’è anche qualche invito esterno alla redazione, quando pensiamo possa essere utile per approfondire quel tema. Dopodiché si comincia a lavorare sugli articoli che di solito nella sezione italiana sono tra i 15 e i 17 per numero. Una buona parte è fatta da collaboratori esterni, quindi individuiamo discutendo come costruire il menabò e poi quali potrebbero essere le persone a cui proporre quel singolo tema. Siamo noi a fornire il formato del pezzo, che sono di solito 20.000 battute per le interviste (almeno una per numero), poi abbiamo articoli da 10.000 e da 15.000 battute; su ogni numero cerchiamo comunque di avere molti linguaggi e sguardi diversi sul singolo tema: il linguaggio maggioritario è sempre quello saggistico – per quanto mai accademico – ma usiamo molto anche l’illustrazione e il fumetto che spesso occupa l’inserto apribile al centro della rivista.
Leggendo Jacobin Italia si incontrano diverse tue ghigliottine, quale è la tua preferita? E come si scrive un articolo del genere?
Sono un’amante del genere della ghigliottina e per scrivere un articolo di questo tipo una strategia è quella di utilizzare in modo ironico le parole di alcuni personaggi che hanno detto proprio quella cosa che tu vorresti smontare e l’hanno detta davvero grezza. Basta far parlare loro. Io sono orgogliosissimo dell’articolo che ho scritto su Flavio Briatore un paio di anni fa, era appena uscito il suo libro intitolato Sulla Ricchezza che, anche se non posso consigliarne la lettura, mi sono divertito molto a leggere. L’articolo è uscito sul numero tematico di Jacobin sui ricchi. Briatore ha delle uscite così naturali che ti danno una fotografia della sua realtà: il modello delle città deve essere Dubai, le città devono essere plasmate sui super-ricchi perché sono loro che portano la ricchezza e che danno da mangiare ai poveracci che lavano i piatti, ritiene assurdo dover fare la fila al museo come tutti quando non avrebbe nessun problema a pagare 10.000 euro invece di 10 il biglietto e avere dei momenti solo per lui al museo, così come non ha nessun problema a entrare con la macchina nella ZTL per parcheggiare direttamente davanti al museo pagando la multa e arricchendo così le casse del Comune. Ho cercato di alternare queste sue frasi con alcune citazioni di Marx sui ricchi che Briatore puntualmente smentisce. In questo modo non uso Marx per fare propaganda contro i ricchi, mi basta semplicemente citare quello che dice Briatore come se fosse lui stesso a smentire Marx. Per me non c’è niente di più efficace perché dopo le parole di Briatore è difficile non provare una spontanea repulsione.