Per Rosalind Krauss un aneurisma è “un’arteria esplosa che spara un getto di sangue all’interno del cervello, scollegando le sinapsi e spazzando via i neuroni”. Così inizia Sotto la tazza blu (Mondadori, 2012) opera che racconta del rapporto tra media estetici e memoria a partire dall’aneurisma che colpì Krauss nel 1999. In questo libro, l’autrice, attraverso un percorso di ventisei aforismi, ripercorre in modo bizzarro e apparentemente sconnesso la storia del medium artistico  e la sua autonomizzazione come nuova serie di supporti tecnici per gli artisti, seguendo una serie di produzioni da Ed Ruscha a Sophie Calle, da Bruce Nauman a William Kentridge. Questa riflessione si basa sull’eredità lasciata dal Modernismo, inteso in senso più ampio come avanguardia, teorizzato da Clement Greenberg e riassumibile nell’affermazione dello studioso: “l’opera d’arte deve cercare di evitare la dipendenza da qualsiasi esperienza che non sia insita nella più letterale ed essenziale natura del suo mezzo”. L’arte deve parlare di sé attraverso i materiali che sono utilizzati per la sua produzione, dunque, il referente esterno non è più estremamente necessario, ma si sposta verso il modo in cui si produce l’opera, creando una ricorsività tra mezzo di produzione e soggetto della rappresentazione. Anche Rosalind Krauss è chiamata, durante i mesi della riabilitazione, a utilizzare il principio della ricorsività, in cui il funzionamento neurologico del cervello, danneggiato, deve ricostruire una parte di sé attraverso se stesso. 

A partire da queste premesse, Krauss vuole dimostrare come la stessa “macchia” che blocca il normale scorrimento della quotidianità, quella che ha scollegato le sinapsi e le ha rese temporaneamente incapaci di svolgere le loro funzioni, sia, paradossalmente, un’occasione per creare un movimento entropico che, a partire dalla distruzione cerebrale, cerca di ricostruire quanto andato perduto attraverso giochi di memoria o frammenti sconnessi di testo – uno dei quali è all’origine del titolo. Per non rendere autobiografica l’esperienza di riabilitazione – di cui rimane ben poco, considerando che la memoria a breve termine dell’autrice era quella che era stata interessata dal danno – la stessa Krauss preannuncia al lettore che dopo poche pagine la sua presenza lascerà lo spazio alla questione sui medium artistici, a favore di una riflessione che sembra non aver nulla a che vedere con la sua esperienza personale.

È proprio la macchia a generare una mancanza cognitiva nella studiosa che, sentendo l’urgenza del ricordare, compromessa dall’amnesia temporanea che ostacola alcune facoltà elementari, fa un parallelo tra la sua personale ricerca di un “chi sei”, di un’identità, e quella del medium artistico alla ricerca della sua specificità. Il supporto, metaforicamente, è ciò che serve all’interno di una situazione di lutto e mancanza, è ciò che sorregge l’uomo. Se per Krauss è stata la riflessione sulla specificità del medium artistico, per Joan Didion sono state la lettura e la ricerca documentaria ossessiva come meccanismo di compensazione verso una situazione irrecuperabile, a seguito della morte improvvisa del marito. Didion nell’opera L’anno del pensiero magico (Il Saggiatore, 2021) racconta della sua esperienza di lutto profondamente vissuto in un anno a partire dalla perdita di John Dunne.

Sia Didion che Krauss hanno un altro supporto tecnico a cui appoggiarsi rispetto alla propria identità iniziale: la scrittura, elemento che riempie la mancanza e che consente al cervello la possibilità di elaborare quanto oralmente non è possibile. La ricerca del “chi sei” passa attraverso una manifestazione che, nel caso di Krauss, diventa l’oggetto di studio con cui pensare alla sua precedente mancanza senza eliminarla. L’autrice non vuole sradicare la macchia creata dall’aneurisma, facendo finta che non sia mai esistita, ma vuole utilizzarla per riflettere su opere che hanno adottato lo stesso approccio nei confronti dei loro media: la specificità del medium artistico non ha portato al rinnegamento della fotografia per Sophie Calle, del video per Harun Farocki o del disegno per William Kentridge. Questi artisti hanno reinventato i propri media, risignificandoli e creando le loro regole a partire da una serie di convenzioni che già esisteva. A partire da una macchia, l’assenza di senso data dal superamento del pensiero modernista verso l’estetica postmoderna, hanno creato una rete di connessioni interne ai loro media, utilizzando una memoria preesistente – quella che poggia sul pensiero modernista. Per Didion, questa ricerca passa attraverso la scrittura come “doppio”: l’autrice è perfettamente consapevole di avere a che fare con una versione di sé fallata a livello psicologico durante l’elaborazione della perdita del marito – il lutto, Didion lo cita spesso tra le sue letture del periodo, ritenuto da Freud uno stato patologico, è stato associato negli anni ‘40 da Melanie Klein a una patologia che non definiamo tale perché è uno stato transitorio che il soggetto riesce a superare – tuttavia, nel riconoscere a posteriori i suoi incomprensibili comportamenti, guarda all’aspetto della mancanza come a un oggetto di studio, un modo di controllare il controllabile, scrivendo e documentandosi senza sosta nel tentativo di imbrigliarla e di poterne dettare le regole.

Nelle pagine di Krauss, che cita a sua volta Roland Barthes, si trova forse una risposta al dilemma di Joan Didion e alla sua sete di conoscenza, alla sua ricerca per colmare e regolare la mancanza: “allo scrittore non è concesso di scegliere la propria scrittura come in un arsenale delle forme letterarie, fuori del tempo. C’è una storia della scrittura, ma questa storia ha due aspetti: nel momento stesso in cui la storia generale propone – o impone – una nuova problematica del linguaggio letterario, la scrittura resta ancora piena del ricordo dei propri precedenti usi, perché il linguaggio non è mai innocente; le parole hanno una seconda memoria che si prolunga misteriosamente pur nell’evidenza dei suoi nuovi significati. La scrittura è precisamente questo compromesso tra un atto di libertà e un ricordo, è quella libertà piena di ricordi che non è libertà se non nell’attimo della scelta, ma già non più nella sua durata. Un residuo ostinato.”

Se la scrittura, dunque, è un residuo ostinato, anche la lettura può essere vista come un residuo di incoscienza a cui ci aggrappiamo quando non sappiamo dove andare a cercare delle risposte. Didion studia i comportamenti di altri mammiferi in una situazione simile a quella che sta sperimentando, per trovare conferma di quello che prova, per chiedersi se sia giusto provarlo. Se lo chiede  anche quando la mancanza, nei primi giorni dopo la morte di Dunne, si manifesta esplicitamente e crea smarrimento e incredulità: “quando, sveglia solo a mezzo, cercai di capire perché a letto ero sola. C’era un’atmosfera plumbea. Era la stessa atmosfera plumbea in cui mi svegliavo le mattine dopo che John e io avevamo litigato. Avevamo litigato? Per cosa? Com’era cominciato, come avremmo potuto aggiustare le cose se io non riuscivo a ricordare com’era accaduto? Poi mi venne in mente. Per parecchie settimane questo sarebbe stato il modo in cui mi sarei svegliata la mattina.” Joan Didion utilizza nel suo romanzo più volte, all’inizio, le parole “fatto, naturalmente, evento, accaduto, questa notizia”, intrecciate all’unica parola necessaria per descrivere la situazione che sta vivendo: la morte. È una parola interessante, in questa prima parte dell’opera, che l’autrice cita consapevolmente, ma di cui non si convince a pieno: non si è ancora abituata all’idea della propria condizione di lutto, ma in questa inconsapevolezza ricorda l’accaduto, ne parla, ma se ne distacca. È il neutro che Rosalind Krauss cita da Barthes, quel significato, e insieme significante, che viene trattato come se fosse estremamente ovvio, scontato per chi racconta, ma che non lo è affatto nel momento in cui si vive un lutto. Per questo motivo, dopo aver citato la morte in modo così “naturale”, il secondo capitolo del romanzo si conclude con le parole “avevo bisogno di star sola perché lui potesse tornare indietro”.

È così che la mancanza rende in Didion la morte un elemento neutro: non esiste davvero, è una macchia temporanea che ha spazzato via la quotidianità, ma che non l’ha irrimediabilmente compromessa. La vera macchia, quella che anche quando si è subito un aneurisma non si percepisce perché  il suo stesso esistere impedisce di vederla come un’anomalia, è l’idea di essere perfettamente consapevoli, nel proprio lutto, di star sperimentando una mancanza che ci fa soffrire. Didion lo sperimenta non riuscendo a guardare necrologi per due mesi interi, fino a quando non è costretta dalle circostanze esterne a realizzare che quello che effettivamente ha vissuto è un meccanismo di evitamento: non vede i necrologi, perché non ne ha bisogno, perché intorno a lei non è cambiato niente; non darà via i vestiti di John perché, se dovesse tornare non può lasciarlo senza i suoi vestiti, almeno quelli che preferiva. 

Laddove Didion non realizza inizialmente la forma di un oblio permanente, prima azzerandola e rendendola neutra, concentrandosi su quello che resta di un residuo ostinato, Rosalind Krauss utilizza il suo oblio offrendo al lettore una spiegazione del modo in cui la mancanza genera meccanismi naturali e neurologici che stanno alla base dell’imprevedibilità dell’uomo, essere mai uguale a se stesso, non riconducibile a una sequenza binaria di uno e di zero. L’imprevedibilità umana, soprattutto nella visione di Krauss, a metà tra oblio e memoria, sta nella creazione di un terzo elemento, un “non oblio e non memoria”, un neutro tra maschile e femminile, un nuovo medium come la cancellatura per i disegni a carboncino di Kentridge. La genialità di William Kentridge, artista sudafricano, sta nel creare un film d’animazione a partire da carta e carboncino, utilizzando una sorta di stop motion dove ogni scena è il risultato di aggiunte e cancellature ai disegni precedentemente realizzati. Se il disegno è l’unione dei due opposti, bianco della carta e nero del carboncino, Kentridge nella sua rappresentazione crea uno spazio neutro: il disegno è sia nero del carboncino su carta bianca, sia bianco della carta sotto al nero del carboncino cancellato.

Inoltre, Krauss afferma: “Ho voluto strutturare Sotto la tazza blu in forma di fuga, con la narrazione principale della memoria e dell’oblio del cervello intrecciata ad aforismi organizzati alfabeticamente – concepiti al fine di procurare piacere – cosicché il lettore riconosca il modo in cui lo scroscio dell’aneurisma si collega sia alle macchie sia all’olio sparso sulle piazzole dei parcheggi, sia, altrettanto bene, alle strisciate delle cancellature di Kentridge. La storia del primo capitolo è sia il chi sei dei soggetti aneurismatici sia di quelli della tradizione estetica. La rete delle sinapsi genera la pienezza alfabetica, procedendo dalla A alla Z.” La studiosa organizza il primo capitolo come un recupero della sua mancanza. Chi sono io dopo che ho perso temporaneamente parte del mio cervello? Sono la persona che deve riconoscere “sotto la tazza blu”. In questo modo, crea uno stretto collegamento tra la mancanza di una struttura sinaptica nel proprio cervello, che deve essere recuperata tramite l’esercizio, e la pienezza alfabetica che produce un discorso di senso compiuto e che rappresenta, invece, la rete di sinapsi. Così come colui che impara a leggere da zero non riconosce all’inizio i rapporti tra le lettere e non sa come combinarne i suoni per produrre delle parole, anche le sinapsi di chi ha subito un aneurisma devono imparare di nuovo a cooperare tra loro per creare dei legami che possano contribuire al ripristino delle vecchie funzioni cerebrali. Krauss ha utilizzato questo libro come supporto tecnico alla sua esperienza. Ha creato, a partire dalla mancanza delle mancanze, quella materiale di una parte del cervello, una mappa del suo percorso di ricostruzione di tale parte.

L’idea di ricorsività si applica anche al lutto di Joan Didion; i nuovi elementi della sua vita producono nuove regole che continuano a generare la struttura preesistente alla morte di John, che lei ne sia consapevole o meno: “queste persone che hanno perso qualcuno sembrano nude perché si credono invisibili. Io stessa per un certo lasso di tempo mi sentii invisibile, incorporea […] potevo essere vista solo da coloro che avevano anch’essi subito una perdita recente.” Coloro che hanno subito un lutto recente sono completamente assimilati alle macchie, sono degli elementi invisibili e che non si lasciano vedere all’esterno, che manifestano soltanto quello che non c’è e che prima era presente.

Rosalind Krauss utilizza come esempio le opere di Ed Ruscha, associando le macchie d’olio presenti nelle fotografie delle autostazioni alle macchie lasciate dall’aneurisma sul cervello. L’aneurisma della macchia racconta del progetto di Ruscha Twentysix Gasoline Station e del senso di assenza che si percepisce quando al posto della macchina vediamo nella foto la macchia d’olio del motore, sintomo della presenza, ormai scomparsa, del veicolo a cui siamo abituati nelle fotografie di questa serie. Stessa cosa vale per Kentridge, ci dice Krauss, che fa delle cancellature “fumose” la sua serie di macchie da aneurisma, il suo fantasma invisibile che ha attraversato il Lete o lo Stige e si è prima immerso tra i morti e poi ne è uscito. Non solo, Kentridge ha un attaccamento particolare per quelle stesse macchine mediche che hanno aiutato Krauss a individuare fisicamente le sue lesioni e dargli un’identità. Quell’identità che è la stessa che Krauss ricollega alla pittura Color Field, quando Morris Louis versa colori sulla tela grezza creando macchie variopinte che si mescolano tra loro. 

Il rimpianto è quella grande macchia che, in alcuni dei capitoli finali, stringe come una morsa Didion, portandola a pensare “perché non lo avevo ascoltato? […] perché non avevo fatto nulla per cambiare la nostra vita?”I am born è il titolo del penultimo sottocapitolo dell’opera di Krauss: sono tre le frasi che non possiamo formulare “I am born, I am dead e I am comatose”. La sua descrizione del coma è legata all’idea di un nuotatore che si muove “immerso nelle facoltà del sentire”. La conclusione del suo viaggio nella mancanza e l’inizio del suo recupero avviene quando, durante una lettura da parte di suo marito, si sveglia correggendone la pronuncia di una parola in Our mutual friend, il “trionfo della memoria e del linguaggio”. Didion, nel suo percorso in un anno di pensieri magici, ripensamenti e atteggiamenti legati al lutto e alla perdita, alla fine di questo viaggio, ci sta dicendo la stessa cosa: non si può dire a qualcuno “sono appena nato”, così come non gli si può dire “sto avendo uno choc, sono sotto choc proprio ora”. Tutto quel meccanismo che il corpo e la mente elaborano in un anno di pensiero magico sono utili per “arginare la macchia”, mentre impazziamo letteralmente pensando di essere delle rocce e che un giorno potremmo sentire da sotto terra un grido di aiuto e iniziare a scavare per salvare il nostro caro, senza alcun bisogno di guarigioni. Come dice Didion, citando Eliot, “questi frammenti con cui ho puntellato le mie rovine”.