“È sempre più raro incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e sempre più spesso si diffonde l’imbarazzo quando, in una compagnia, qualcuno esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze”.

Walter Benjamin scriveva queste parole nel 1936, in un testo che si intitola Il narratore. Quasi cento anni dopo, nel saggio La crisi della narrazione del 2023 (Einaudi), il filosofo Byung-Chul Han riparte da quel testo per dire: “oggi tutti parlano di narrazioni. Eppure, paradossalmente, proprio il fatto che in ogni ambito vengano usate delle narrazioni è il segnale di una crisi dell’esperienza narrativa”.

Ma com’è che la crisi dura da quasi un secolo? Come può un fenomeno già in declino continuare la sua discesa per così tanti anni? Si tratta della stessa crisi o stanno parlando di due decadenze diverse? Probabilmente nella distanza temporale tra Benjamin e Han si sono susseguite tante accezioni della “narrazione”,  e di sicuro nel 1936 Benjamin la pensava come atto di scambio di esperienze e saggezza fra esseri umani. Ma nel 2023 Han è ancora nostalgico di questa narrazione – per Benjamin in via di conclusione già allora – oppure pensa ad altri valori di cui, nel frattempo, l’atto del narrare era diventato portatore e che ora sta perdendo di nuovo? 

Il problema, per Han, ruota intorno alla resistenza spesso opposta alla sospensione dell’incredulità che alcune narrazioni richiedono per esistere. La nostra società si configura su sistemi che difficilmente si sintonizzano con l’immaginazione e le logiche dell’atto narrativo: venendo a mancare le posture culturali che permettono l’installazione di una storia in un immaginario individuale o collettivo, ecco che per Han si delinea la Crisi della narrazione.

Il concetto di sospensione dell’incredulità spiega perché il punto di partenza nel saggio è la trasparenza. Le storie nascono dal mistero, dall’oscurità – oltre la siepe direbbe Giacomo Leopardi. E invece la nostra contemporaneità tende a rendere tutto sempre più trasparente, visibile, condivisibile, tanto da annullare ogni possibilità di tensione narrativa. La tv del reality, le storie dei social, la mania dell’autobiografismo incrinano le regole del gioco narrativo. Fa eco a Han un articolo scritto da Paolo di Paolo per Limina, con un titolo già eloquente: Nel trionfo dell’autofiction i romanzieri sembrano i Ferragnez. Di Paolo riflette sull’intrusività cui la società contemporanea è abituata, un po’ per piacere voyeuristico, un po’ per inerzia nell’utilizzo dei social network. Anche Han è dello stesso parere, presentando una rete comunicativa digitale sempre più associabile al verbo “spiare”: siamo continuamente intrusi nelle vite degli altri e a nostra volta permettiamo ad altri di intrufolarsi nelle nostre, mostrando loro  tutto quello che ci accade, possibilmente limitando l’uso di filtri apparenti. Scrive, infatti: “Le stesse Storie condivise sulle piattaforme social non sono in grado di rimuovere il vuoto narrativo. Esse non sono nient’altro che una pornografica esibizione o promozione di sé stessi. Postare, mettere like e condividere, proprio perché sono pratiche consumistiche, non fanno altro che intensificare la crisi dell’esperienza narrativa”.

La trasparenza è all’estremo opposto del mistero e dell’inganno e fa sgretolare quell’iconico titolo di Manganelli La letteratura come menzogna. Walter Siti, nel saggio Il realismo è l’impossibile del 2013 (nottetempo), descrive la letteratura come una “pittura d’inganno” e spiega che raccontare una storia in termini realistici non vuol dire mai fotocopiare la realtà, quanto piuttosto coglierne la sua portata simbolica, attuare uno “svelamento dell’impossibile”. Lo scrittore è un illusionista dice Siti, prendendo in prestito le parole dei romanzieri ottocenteschi, e il realismo letterario è quello che ottiene “trasgressione e rottura dei codici” della realtà. C’è sempre qualcosa di nascosto e di ulteriore nella pratica magica del raccontare storie. La completa trasparenza, invece,  fa sì che la narrazione si appiattisca e si svuoti, facendo svanire la carica di “innamoramento” e incanto che questi autori ricercano.

Non solo completa trasparenza tra quello che viviamo e quello che mostriamo al mondo, ma – ecco il secondo concetto chiave del libro di Han – attenzione per quello che accade nell’immediato. L’immediatezza e la sincronicità sono cause di questa nuova (o è sempre la stessa?) crisi narrativa contemporanea:  la pretesa della rapidità e dell’immediatezza avvicina l’esperienza narrativa a quella consumistico-commerciale. Il tempismo e l’inseguimento del trend a cui il capitalismo ci ha educati hanno fatto sì che perdessimo confidenza con la temporalità dilatata, distesa e densa. Ancora una volta è come se Han volesse dire che la conformazione della nostra società contemporanea sta prendendo una forma che estromette la narrazione dalle possibili attività. Più che guardare alla letteratura contemporanea e contestare l’assenza di movimento narrativo – come faceva Benjamin, che rimproverava all’individualismo del romanzo l’allontanamento dall’atto comunitario della narrazione – Han analizza l’ecosistema in cui la narrazione dovrebbe trovare lo spazio per crescere e svilupparsi. E riconosce che, viste le predisposizioni sociali e culturali cui ci stiamo conformando, non si hanno le condizioni biologiche perché una narrazione autentica possa continuare a generarsi, fiorire e resistere. 

Da una parte la trasparenza, dall’altra l’immediatezza sono gli elementi che per Han costringono la narrazione a finire al servizio della “produzione di noi stessi”. Ogni volta che raccontiamo una storia con il valore che diamo oggi alle storie, dice Han, stiamo cercando di vendere qualcosa di noi. Sottomettendo la narrazione alle logiche di produzione e vendita, si è finiti per confondere la narrazione con l’informazione. Sembra farsi le stesse domande che si fa Di Paolo: “Quand’è che ci siamo annoiati degli alter ego, dell’ambiguità, della finzione “debole”? […] Quand’è che abbiamo cominciato a chiedere agli scrittori di smettere di inventare personaggi inutilmente prossimi a loro per indossare la casacca autarchica di personaggi di sé stessi, di smarriti feriti rabbiosi impudichi ‘Io’ da ascoltare come alla grata di un confessionale?”

Questa tipologia di narrazione per Han è propria dell’informazione, e quindi annichilisce il narrare di senso proprio. Informare, infatti, prevede un gesto di accumulazione di dati che è all’opposto della rielaborazione dell’esperienza. La perdita dell’esercizio della memoria, l’ “atrofizzazione del tempo” e “la trasformazione della vita in registro”, da misurare e rendicontare, fa sì che la narrazione si distacchi dai significati di “trasferimento dell’esperienza” e “saggezza”, citati da Benjamin. È questo il vero punto di contatto tra Han e Benjamin, perché anche quest’ultimo nel ‘36 insisteva con forza nella netta distinzione tra cronaca e storia. E forse proprio quest’analogia può far pensare che, a distanza di cento anni, stiano parlando della stessa crisi.

“La narrazione – scriveva Benjamin – è una forma artigianale di comunicazione. Essa non mira a trasmettere il puro ‘in sé’ dell’accaduto, come un’informazione o un rapporto; ma cala il fatto nella vita del relatore, e ritorna ad attingerlo da essa. Così il racconto reca il segno del narratore come una tazza quello del vasaio”.  

Da qui l’ultima falla individuata da Han nell’ecosistema contemporaneo, che impedirebbe alla narrazione di proliferare: l’indebolimento della pratica dell’introspezione e dell’approfondimento. “L’epoca post-narrativa – scrive – è un’epoca priva di introspezione. Le informazioni estro-flettono ogni cosa. Al posto dell’introspezione del narratore abbiamo il vigile stare all’erta del cacciatore di informazioni”. 

Sembra un controsenso l’assenza di introspezione che individua Han se messa a confronto con il proliferare della scrittura egoriferita e molto spesso autobiografica. Eppure il bisogno di attingere al “realmente accaduto” e al pellegrinaggio autobiografico nei luoghi e nelle corrispondenze 1:1 tra letteratura e vita è proprio il paradossale segno dell’assenza di approfondimento e ascolto. Lo individuava già Antonio Scurati nel 2002, a conferma del progressivo incedere della crisi della narrazione di cui stiamo scrivendo; nella postfazione al suo romanzo Il rumore sordo della battaglia (Bompiani) avverte il bisogno di una riscoperta del romanzo storico in contrasto ai romanzi contemporanei che, scrive, “è come se invece di ricongiungerci alla nostra vita attraverso l’attività immaginativa, la vivessero alle nostre spalle, raddoppiando il senso di inautenticità che già avvolge la nostra esistenza quotidiana diretta”. È inautentica la vita quotidiana, eppure è quella stessa vita quotidiana a essere maggioritaria in letteratura: così facendo si sacrifica l’autenticità propria della narrazione, e si spiega cosa vuole dire Han quando segnala l’assenza di introspezione e approfondimento tra le cause della crisi del narrare. Sempre con Scurati: “quando i confini tra realtà e finzione si vanno sfocando, le letture e le esperienze di vita finiscono per configurare due universi perfettamente equivalenti, identici nel loro appartenere entrambi all’inconsistenza dell’immaginario, e dunque negati alla possibilità di stabilire tra di essi un rapporto autentico, di interpretazione reciproca o di qualsiasi altro tipo”.

Parlare della propria realtà è anche un modo per evitare lo sforzo di ascoltare la realtà degli altri e reinterpretarla anche contestando la versione ufficiale dei fatti – perché questo fa la letteratura. Han infatti rileva come narrare una storia necessiti di larghi spazi e tempi cui l’individuo contemporaneo non è predisposto. Anzitutto perché una storia – come si leggeva nel pezzo citato poco fa di Benjamin – ha bisogno di essere ascoltata nella vita vera prima che il narratore possa ricalarla nella propria e rielaborarla come qualcosa di nuovo. Questa pazienza per l’ascolto è, anch’essa, in disuso, soprattutto a causa dell’ immediata accessibilità a un grande numero di informazioni ed eventi – tutti con la pretesa di un “momento reale” che impreziosisce anche la comunicazione. 

All’inesperienza con la pazienza, poi, corrisponde l’incapacità della nostra epoca – dice Han – a entrare nel tempo, collegarlo e a mettere in relazione passato, presente e futuro. Nel saggio parla di “un tempo sempre più atomizzato”, mentre la narrazione si fonda sul presupposto del collegamento e della connessione fra i momenti. Trasformando il mondo in dati di fatto e stati di cose, si è esclusa la possibilità di un universo raccontabile. “Quando il mondo può essere spiegato non può essere raccontato”, dice Han, e a questo aggiunge che le cose viste come dati già eloquenti di per sé di fatto annullano la portata simbolica e l’incanto che un narratore, invece, si sforzerebbe a cercare dentro di loro. Viene da dire che il mondo descritto da Han non ha il tempo di percepire le corde in tensione oltre il suo strato primario: è ridotto a singole parti che tutti cerchiamo di collegare logicamente fra di loro secondo dinamiche di causa-effetto per spiegare quello strato nella sua completezza. Tornando al saggio di Siti diremmo che, invece, le storie nascono quando resta qualcosa di inspiegabile: “il realismo non è una copia ma un conflitto, una tensione irrisolta e ineliminabile”. Senza la sensibilità di percepire quello scontro tra forze, nascosto oltre lo strato visibile della realtà, le storie perdono sempre più terreno su cui infiltrarsi e proliferare.

Han non lo scrive chiaramente, ma è come se volesse dire che abbiamo ridotto il mondo a due dimensioni, e invece la narrazione per potersi verificare ha bisogno di uno spazio tridimensionale in cui il narratore si immerge, ascolta, sente l’incanto e da lì racconta una storia. La crisi della narrazione nasce dal monopolio della fatticità per Han: tutto è fattuale, e di per sé qualsiasi cosa fattuale e piatta esclude a priori la sua narratività.

“In certe notti serene, con la luna grande, si fa festa nei boschi. È impossibile stabilire precisamente quando, e non ci sono sintomi appariscenti che ne diano preavviso. Lo si capisce da qualcosa di speciale che in quelle occasioni c’è nell’atmosfera. Molti uomini, la maggioranza anzi, non se ne accorgono mai. Altri invece l’avvertono subito. Non c’è niente da insegnare al proposito. È questione di sensibilità: alcuni la posseggono di natura; altri non l’avranno mai, e passeranno impassibili, in quelle notti fortunate, lungo le tenebrose foreste, senza neppur sospettare ciò che là dentro succede”. 

Questa è la descrizione che fa Dino Buzzati della letteratura, nel suo romanzo Il segreto del Bosco Vecchio. In quel libro, metafora fiabesca del luogo magico in cui gli spiriti del bosco trovano le storie, l’incanto è l’elemento fondamentale. Chi non riesce ad avvertire l’incanto del bosco è estromesso dalle feste rumorose e gioiose che si fanno sotto le sue piante. Con La crisi della narrazione Byung-Chul Han ci ammonisce: se continuiamo ad assoggettare la narrazione all’idea produttiva e promozionale del nostro ego, nessuno sarà più in grado di prendere parte alla magia della foresta, ci ritroveremo tristi in quella maggioranza che non si accorge delle feste in quelle notti fortunate. 

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