La Febbre

La Febbre
[Tempo di lettura: 3 pignalenti]

Incredibile quanto fosse cresciuta. 

Diciassette centimetri nel giro di una settimana.

Quando sua mamma glielo aveva spiegato le era sembrato uno scherzo. Quando era successo a Eva e Nina aveva creduto che accadesse solo alle bambine bionde, e quando fu la volta di Diego, solo a chi aveva i genitori ricchi. Poi arrivò la quinta e toccò a lei. Lei che di biondo e ricco non aveva niente.

Quel giorno mi disse che il mondo – a volte – sa essere un posto veramente democratico. Democratico era una parola nuova, l’aveva sentita da poco al telegiornale, ma quello che le era successo le pareva un fatto così serio e degno di nota da meritarsi un’importanza tale. 

Avevo sorriso inclinando la testa, e lei aveva continuato a raccontarmi una storia che sapevo a memoria.

Tutto era iniziato una mattina di giugno. Si era svegliata con le gambe un po’ indolenzite, ma non ci aveva fatto tanto caso. Il pomeriggio le formicolavano le dita delle mani, e quando se le era lavate, per asciugarle aveva strofinato forte i polpastrelli sul panno celeste. Uno strano solletico sotto le piante dei piedi l’aveva tenuta sveglia più del solito. Poi si era passata tre volte le mani tra i capelli perché aveva avuto come l’impressione che glieli stessero tirando. 

Sua mamma le aveva posato le labbra sulla fronte e aveva detto “sei calda” con un filo di voce. Era sparita tra le mattonelle fredde del bagno per un tempo interminabile, e poi era riemersa tenendo in mano un oggetto lungo e fino, qualcosa di molto tecnologico e molto antico. Si era avvicinata a Lilia impugnandolo come s’impugna una spada. 

Quel cavaliere luccicante nella camicia da notte di seta – non aveva avuto il tempo di capire che la battaglia era iniziata – l’aveva colpita con agilità sotto il braccio. Lilia era pronta a veder scorrere fiumi di sangue, ma l’unica cosa che aveva percepito era stato un gelido contatto sotto l’ascella. Dopo averla immobilizzata per qualche minuto il cavaliere aveva estratto la spada e con gli occhi di quando si preoccupa aveva detto: “Lilia, hai la Febbre”.

Che bella la democrazia dove anche i bambini poveri crescono. Ricordo che rimase a casa sette giorni e sua madre si prese un permesso dal lavoro. E mentre la febbre a quaranta non accennava a scendere, Lilia cresceva a vista d’occhio. Più di due centimetri al giorno. Se strizzava le palpebre e tratteneva il respiro riusciva a sentire il rumore delle ossa che si assestavano mentre il sangue sciabordava come un torrente. Le sembrava che la pancia fosse diventata lunghissima, e se si sdraiava e piegava il mento verso il collo, le curve del corpo le ricordavano le dune del deserto. Ma l’ombelico, l’ombelico era sparito. Sua mamma le aveva detto che era una cosa normale: “Il cordone ombelicale – aveva usato questa espressione – è stato reciso una volta per tutte”. Ricordo che dopo quella frase a Lilia era venuto da piangere, e aveva pensato di nuovo al telegiornale, a quel signore con la barba da anziano che lavorava in una fabbrica e aveva detto che la frammentazione era il peggiore dei mali, che bisognava ricordarsi di essere classe e comunità, che era orgoglioso delle sue origini, che loro – parlava sempre al plurale – erano arrabbiati ma pieni di amore e di speranza. Lilia era andata in bagno e si era guardata a lungo nello specchio: le piaceva essere Comunità, lei e sua madre; le piaceva anche essere Classe, lei e i suoi compagni di quinta elementare (ma di andare alle medie non aveva nessuna voglia). Con un pennarello nero dalla punta larga si era disegnata al centro della pancia l’ombelico. Non voleva dimenticarsi da dove veniva. Non voleva frammentarsi cambiare allungarsi e forse non voleva nemmeno crescere di diciassette centimetri, anche se tutti le dicevano che era una cosa bella. E chi se ne importa se era una cosa molto democratica, era ancora piccola lei. 

Ricordo che quell’estate Lilia diventò altissima e mi disse che aveva imparato una nuova parola al telegiornale: irreversibile, come il processo che avvia – in quinta elementare – la febbre a quaranta.

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  1. Jok En

    Racconto surrealista pieno di visioni emotiva dal punto di vista di chi si fissava momenti curiosi della propria infanzia. Tutti ne abbiamo avuto episodi che continuano a incuriosirsi e spesso farci sorridere il ricordo.
    Bel raccontino, piace le evocazioni visive

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