«Tel chi el mi bel terùn» disse con quella voce che faceva tremare i lampadari, aprendo la porta. Poi lo strinse in un abbraccio: Gioacchino si ritrovò con la testa affondata nel petto procace, il naso aquilino che si incastrava perfettamente nello spazio tra i seni. «Ven chi, ven chi» continuava intanto lei, «Settes giò» e, con quello che nelle intenzioni doveva essere un colpo leggero, lo scaraventò in poltrona.
Mariona, come la chiamava Gioacchino nell’intimità, era… era… Le parole quella sera gli scappavano di mente e si raggrumavano sulla punta della lingua, senza decidersi a venir fuori. Lei, intanto, era già andata in cucina e tornata in salotto, reggendo un piatto di biscotti. L’intera sua persona emanava odore di dolci appena sfornati. «Ti ho preparato i biscotti con la resumada» gli fece, ammiccante. Tempo prima gli aveva raccontato di aver letto, in una qualche rivista, che lo zabaione fosse un ottimo ricostituente. «Sai, per dopo» continuò, lasciando che il sorriso malizioso completasse la frase. Da cinque mesi Mariona lo accudiva e viziava; era diventata in tutto e per tutto la prosecuzione carnale di una madre fin troppo amorevole e, cosa non da poco, gliene aveva mostrata più lei di quanta ne avesse vista nei suoi cinquant’anni di onorata carriera da zitello.
Chi l’avrebbe mai detto, che sarebbe andata a finire così, con una relazione clandestina. Che poi, Mariona col suo vocione l’avrebbe cantata al mondo la gioia di aver incontrato quel ninìn: il piccolino, come lo chiamava in sua assenza, in presenza e pure a letto. Perché Gioacchino, con le sue spallucce incassate, i capelli radi che ricordavano la peluria dei neonati e il petto smagrito da uccellino sembrava davvero un bambino travestito da adulto. Le giacche, più che indossarle, sembrava che gli si appendessero addosso, e i pantaloni, anche la taglia più piccola, necessitavano della cintura per essere tenuti su. Lei invece, la Mariona, era tutta l’opposto. Una nuvola vespertina di capelli rossi le incorniciava il volto, tondo come i fianchi prominenti sui quali, con una forza da titano, impilava senza sforzo le cassette da esporre sul suo banco di frutta e verdura. Soltanto i piedi erano insolitamente piccoli per reggere l’intera figura, e le davano un’andatura da ballerina di fila: più che incedere, sembrava camminare sulle punte.
Si erano conosciuti proprio al mercato del sabato di Via Tabacchi.
Gioacchino, con la madre aggrappata al braccio, si aggirava tra i banchi, quando una voce di donna lo aveva fatto sussultare: «La pesca nettarina, è buona e zuccherina!» tuonava sul brusio della folla che sciamava lungo la strada, sovrastando anche il ruggito del pescivendolo che, dall’altra parte, urlava: «Lucci! Lucci freschi!» Al che lei, un’ottava in più, continuava: «La pesca pelosa, è buona e… saporosa!» Su quella frase Gioacchino aveva sentito una scossa partirgli dalla base del collo e scendergli lungo tutta la schiena. Si era fermato, costringendo la madre a fare dietrofront. «Che c’è?» aveva chiesto lei.
«Ma’, che dici, la prendiamo la frutta?»
«Eh, dal paesano nostro, ché è uomo di fiducia…»
«No, no» l’aveva interrotta lui, «guarda come sono belle quelle là» e aveva indicato il banco della donna. La madre dalle collinette di frutta era risalita fino alla montagna della fruttivendola; aveva stretto gli occhi a fessura, l’aveva squadrata torva e aveva provato a strattonare il figlio: «Non vedi che non è del mestiere, quella? C’ha pure le unghie pittate!» ma niente, Gioacchino pestava i piedi come una creatura. «Quelle voglio!» aveva protestato, cosicché la madre non aveva avuto altra scelta se non capitolare, ponendo però una condizione: «Se costano di più di quelle di Totò, oggi niente soldi per le sigarette.»
E sia.
Si erano avvicinati mentre la fruttivendola aveva ripreso il suo refrain: «La pesca nettarina è buona e zuccherina, la pesca pelosa è buona e saporosa» e, nel dirlo, aveva strizzato l’occhio a Gioacchino, prima di aggiungere: «Vuoi assaggiare?» Lui era rimasto incantato dalle sue mani che, veloci, avevano aperto la pesca senza nemmeno usare il coltello: l’aveva infilzata coi pollici, dalla parte del picciolo, per poi ruotare le due metà, una in senso orario e l’altra in senso antiorario. Aveva allungato la destra, mentre addentava l’altra. Gioacchino era rimpasto ipnotizzato dal frutto, di un arancio invitante e acceso, e dal succo che colava dal palmo al polso. Quando lei dopo aver finito la sua parte in due morsi, si era leccata le dita, a lui era sembrato che stesse per svenire.
«Non vuole assaggiare» era intervenuta la madre, strattonandolo e costringendolo ad allontanarsi. «Cosa devo stare a vedere, io» borbottava «quella sciacquetta!».
«Ma’, che dici?».
«Che dico, che dico… lo so io che dico! Non l’hai vista?».
Gioacchino l’aveva vista fin troppo bene e avrebbe voluto vederla ancora meglio, ma si era limitato ad alzare le spalle. Tanto quella di sua madre era una di quelle domande che faceva lei, che non aspettavano risposta, ma servivano solo da apripista per sputare un poco di veleno.
«Quella i meloni voleva vendere, altro che pesche!» aveva difatti aggiunto.
«Manco ce li aveva, i meloni…», aveva risposto fiacco lui.
«Non fare il fesso per non andare alla guerra» aveva ripreso lei, sempre più inviperita «che hai capito bene».
Aveva lasciato il braccio del figlio e si era fermata, con le mani sui fianchi, per ondeggiare il petto a imitazione della fruttivendola. Gioacchino si era voltato indietro, sperando che la donna non si fosse accorta di nulla e, con una punta di delusione, aveva visto che lei stava porgendo la metà pesca che lui non aveva accettato a un altro. Intanto la madre continuava: «Quando una si aggiusta il soprano è perché vuole vendere il sottano», aveva sentenziato.
Lui l’aveva ripresa a braccetto: «Andiamo da Totò, che è meglio».
Dopo aver riaccompagnato la madre a casa, però, con la scusa del caffè era uscito di nuovo ed era tornato al mercato. Si era accostato al banco e, tenendo gli occhi bassi, aveva chiesto: «Posso assaggiare?»
«Se ghé?» aveva ribattuto la fruttivendola, facendo la finta tonta.
«La pesca… posso assaggiarla?».
Lei aveva ripetuto quel movimento, così sensuale, così conturbante; Gioacchino l’aveva seguito in apnea e con la bocca aperta. Non si poteva certo dire che fosse un uomo di mondo, lui: era rimasto un ragazzo di quartiere da quando la madre, con la scusa della protezione, l’aveva praticamente segregato in casa. Il padre, un uomo smilzo e taciturno che si ammazzava di fatica, sul lavoro ci era morto veramente quando Gioacchino aveva soltanto tredici anni. Da quel giorno la madre aveva stabilito che il solo modo per non perdere anche quell’unico figlio era non farlo lavorare nemmeno un giorno nella vita, e farlo uscire il minimo indispensabile, il più delle volte accompagnato. Da lei, beninteso. In fondo, bastava stringere la cinghia e tirare a campare coi soldi della reversibilità. Così, Gioacchino era rimasto attaccato alle gonne col piegone della madre, senza conoscere altro.
«Alura, te pias?» La donna lo aveva guardato, con la testa leggermente inclinata e un sorriso che spuntava dalle labbra carnose.
«Io… insomma… Sì», aveva balbettato lui. «Ma lei, signora, come si chiama?», si era azzardato a chiedere.
«Maria.»
Come la Madonna, aveva pensato Gioacchino. «Che bello» aveva detto. «Come quello di nostra Signora, che tutto vede e provvede…» e sì, lui aveva già preso il caso per volontà divina. Lei si era drizzata, con le mani sui fianchi e il petto in fuori, proprio come nell’imitazione della madre di Gioacchino: «E mì, te piasi?».
Lui aveva spalancato gli occhi e una vampa gli era salita dallo stomaco al viso. La glottide si era chiusa di botto, lasciandogli l’ultimo boccone di pesca incastrato in gola. Aveva tossito, schizzando saliva sul banco di frutta. Lei era esplosa in una di quelle risate che, come Gioacchino avrebbe presto imparato, erano un fuoco d’artificio e, quando sembravano spegnersi, si riaccendevano ancora più fragorose.
«Io penso che mì te pias» aveva detto e poi, allungando una mano ancora appiccicosa verso la sua guancia «e anca tu me piasi». Era rimasta in attesa di una risposta. Gioacchino, incapace di profferire parola, si era limitato a coprire la mano di Maria con la sua, chiudendo gli occhi.
«E alura, se fem?»
Era cominciata così.
Lui era tornato, sempre di straforo, ad assaggiare le albicocche, poi le nespole, e infine si era deciso a invitarla al cinema; lei, per ringraziamento, dopo il film gli aveva fatto vedere la luna, le stelle e tutto il firmamento.
Ma stavolta la stanchezza lo vinceva. «Non m’ingozza» provò a dire.
La Mariona partì in quarta: «Tua madre eh? Non ti fa mangiare abbastanza. Ciapa un biscotto» e, prima che Gioacchino potesse rifiutare, gliene infilò uno in bocca. Era fatta così, str… str…. Una parola che comincia per “str” e chissà come finisce. Lui masticò lentamente, bevve un sorso di tè; in definitiva, prese tempo. «Forza, ndem de là» lo esortò lei. Lo afferrò per un braccio e lo issò.
«Non me la fido» provò a ribattere Gioacchino, senza convinzione.
Era reduce da una decina di giri intorno al tavolo della cucina di casa sua. Poco prima, quando si stava passando la brillantina sui capelli, mentre col pettine definiva la scriminatura, la madre aveva spalancato la porta del bagno, da sempre senza chiave: «Figlio di una cagna, che poi sono io!» aveva urlato, «Io ne faccio cento e mille per te, io mi tolgo il pane dalla bocca, io… io ti ho fatto e io ti distruggo, con le mani mie!».
In quel momento Gioacchino si era accorto del cucchiaio di legno. La madre si era scagliata contro di lui, che era riuscito a scansarla e a correre verso la cucina. Lei lo aveva seguito: «Giuda! Giuda Iscariota! Me lo sono venuti a riferire… Vai da quella sciacquetta, eh?»
Lui si era arrestato e, stranamente, pure la madre anziché raggiungerlo si era fermata: «Si chiama Maria».
«Si chiama Maria», gli aveva fatto il verso lei. «Vedi come se la difende» e aveva ripreso a rincorrerlo. «Vieni qua, non ti faccio niente» gli diceva, come quando era bambino. Ma Gioacchino se la ricordava bene la lezione: quel “niente” era come minimo un culo rosso e qualche livido, e lui aveva appuntamento con la Mariona, non poteva mica presentarsi pesto. Aveva accelerato l’andatura al punto che alla madre, che si ostinava ad andargli dietro, sarebbe bastato girarsi di centottanta gradi per trovarselo di fronte.
«Mo’ basta veramente» si era deciso a dire, con un tono che non riconosceva come suo. Anche la madre, al sentirlo, si era placata, come se di colpo avesse perso le forze: «Tu mi vuoi morta» aveva sussurrato, con la voce già spezzata dal pianto.
«No, però devo uscire» aveva risposto lui, col fiatone ma calmo. «Se non muori, ci vediamo dopo.»
Non poteva mica raccontare alla Mariona che la madre lo trattava ancora come un bambino pisciato, soltanto che la corsetta intorno al tavolo per uno come lui, abituato all’inerzia, era stata come un fondo di Peppicelli.
Si lasciò cadere all’indietro: «Non mi sento».
«Alza la voce, no? Fai come me». Mariona lo investì con una sua personalissima, e acutissima, versione della Carmen. Perso nel profluvio di acuti e gorgheggi, Gioacchino riacciuffò la parola che gli era scappata. “Straripante”: la Mariona era straripante. Con quella gli tornarono alla mente anche le altre, compresa quella che lei diceva dopo le sessioni amorose, quando lo liberava dalla stretta possente e, con un sospiro, lasciava cadere le braccia aperte sul materasso. Così Gioacchino si schiarì la voce e disse con tutto il fiato che aveva nel suo esile corpo: «Mì su stracco!».
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