La Musa

La Musa
Nicola Samorì, Marlene, 2023. Oil on linen, 150h x 200w cm.
[Tempo di lettura: 11 pignalenti]

“Quando lo vidi restai stordito, sentii un brivido, come punto da mille spille, tra la nuca e le tempie. Stava pulsando, la carne di Dio stava pulsando”. 

Mio fratello non fa altro che ripetere questa frase. Si vede che anche i luminari come lui impazziscono. Non so come comportarmi in queste occasioni, ogni telefonata è sempre più un monologo, con in sottofondo risposte sconclusionate, sembra vomitarsi addosso tutto ciò che ha studiato negli ultimi quarant’anni. ‘Deliri anatomici’, li chiama così lo psichiatra da cui è in cura. 

L’ultima volta, io, Marta e i bambini siamo andati a trovarlo: è stata una tragedia. Come al solito ha iniziato a vaneggiare di quello stramaledetto monastero ortodosso in Turchia e dei suoi sotterranei “vivi come visceri”. Si badi bene: mio fratello non ha mai superato i confini dell’Italia, anche le sue conferenze super blasonate sulle “tecniche di anatomia patologica non invasiva” le ha sempre tenute in differita: mai salito su un aereo, mai preso un treno. 

“Zio ma chi ti aveva portato lì?”, e la tortura continua: eccomi costretto a riascoltare la tiritera sul rapimento all’uscita dal suo studio clinico, e poi il suo cinematografico risveglio in una celletta e l’arrivo di una serie di monaci che si esprimeva in una lingua sconosciuta che lo costrinse a operare qualcosa o qualcuno che lui chiama la Musa, rinchiuso nelle cripte del monastero.

Non tollero il suo cambiamento, l’ho sempre visto come un salvagente, lui con la sua mente pratica e i suoi modi sicuri, lui che era mio fratello e ora è diventato un completo estraneo, un uomo preistorico. 

Solo ultimamente è giunto a sostenere in maniera esplicita di aver operato Dio. Ebbene sì . Quando me ne parla sussurra, come se temesse una ritorsione, io lo osservo stralunato e realizzo che ormai affermazioni di questo tenore hanno preso il sopravvento nel volume del discorso. 

Il giorno in cui tutto iniziò, un mese fa circa, era tornato dal lavoro. Mi aveva chiamato in preda al panico. Quando sono arrivato, l’ho trovato sulla soglia di casa, con le mani aperte verso di me. “

Secondo te, è andato via?”

“Ma cosa Fabri?”

“Il sangue,” rispose con fare sognante. “Dovrei lavarmi di nuovo le mani?”

Pensai si riferisse a qualcosa accaduto in clinica. Una giornata storta. Gli feci una battuta per sdrammatizzare e tornai alla mia Opel. Stavo già facendo retromarcia, quando guardai nello specchietto e lo vidi sull’uscio. Fabrizio era ancora lì. Immobile. Un sessantenne imponente, imbambolato, a fissarsi le mani come un ragazzino colto in flagrante.

Ieri l’ho accompagnato alla visita psichiatrica. Gli specialisti mi hanno chiesto di fare da “ancora per la realtà”. Mi sento più come il carceriere di un condannato che non accetta la sua pena. Mi hanno anche raccomandato di scrivere un diario per elaborare la frustrazione, ma a cosa serve annotare i deliri? Non riesco a fare altro che odiarlo. Odio questo impostore che ha preso il posto di mio fratello e odio me stesso per non riuscire a liberarmene.

Mentre il Dottor Fidergo lo scruta attraverso le sue lenti specchiate, io rileggo quanto avevo annotato: “il monastero è un corpo, pieno di fermenti, noi eravamo i suoi fermenti, si è nutrito di noi, capisci Manuel?”. L’ho sottolineata senza sapere perché, come un rabdomante che sente l’acqua sotto i piedi. Manuel Fidergo e mio fratello si conoscono fin da bambini, non riesco a non far caso alla tristezza che ha negli occhi mentre prova a rimanere impassibile. 

“E dove erano i suoi organi?” 

“Il suo organo, ne ha solo uno; si è sviluppato come un corpo, immagina la contraddizione Manuel: un organo dovrebbe svolgere una funzione atta alla sopravvivenza di un corpo, una complessità, ma la Musa no! Lei o lui è una funzione che nutre se stessa e si espande, un loop tumorale: incredibile”. 

“Cosa hai dovuto fare con questo corpo?”

“Te l’ho detto, ho dovuto fare un’autopsia sul corpo di Dio, ho estratto tutto ciò che era maturato in esso, organi divini Manuel! Loro, i Dunmeh, li coltivano da secoli per cibarsene.” Devo fare una pausa. 

Se ripenso allo sguardo che aveva mentre raccontava queste follie mi vengono i brividi. Poi ritornava sui suoi morbosi dettagli: “Il corpo era livido, l’enorme quantità di grasso lo rendeva inabile al movimento. Con la mia elegante Y dischiusi, dalle spalle al pube, lo scrigno della cassa toracica, poi addominale e infine spalancai la scatola cranica”. Mio fratello amava paragonarsi ad Anubis, il dio sciacallo che pesava il cuore degli uomini. Mentre esaminava gli organi uno a uno, valutandone dimensioni, colore, consistenza e possibili lesioni, Fabrizio si sentiva Dio. 

“Sembravano pulsare di vita propria, come se si ribellassero alla mia presenza.” Fabrizio non parla mai di Dio come di un’entità trascendente. “Ogni campione di tessuti, ogni goccia di sangue e urina, fu ciò che ero chiamato a restituire alla fonte. Così dicevano i Dunmeh”. Secondo questi eresiarchi, come li chiama, Dio è pura carne. Pura materia. Un organo che si espande e si contrae, un tumore che cresce senza fine.

A volte non nascondo di essere quasi portato a credere a mio fratello. Ed è questo che mi terrorizza più di tutto: che il corpo di Dio possa essere reale. E che sia Fabrizio, non io, ad averlo visto. È surreale, francamente assurdo. Io dovrei avere il lasciapassare, maledizione, sono un uomo di chiesa! Per me nulla, mentre all’ateo e materialista medicuccio la concessione di una visione, sì d’accordo ‘delirante’, ma i cattolici venerano un pugliese scemo che credeva di volare… Ho cominciato a dubitare di tutto a causa di Fabrizio, ogni volta che presiedo il culto mi sento un ipocrita, non credo più alle parole che proferisco, in testa ho anche io lei: la Musa, la carne pulsante del divino. 

Alla fine la diagnosi è arrivata: tumore cerebrale, conseguente disordine mentale aggravato da forme di ragionamento schizofrenico. Fidergo è distrutto, la notizia è arrivata dopo che, qualche giorno fa, mio fratello ha tentato di squarciarsi il petto per mostrargli che non aveva più organi al suo interno e che era diventato anche lui un ospite di Dio.

Fabrizio ha scritto una lettera al direttore della clinica annunciando che i Dunmeh gli avevano rivelato che “la riparazione stava già avvenendo da millenni”, in molteplici luoghi, i più sperduti, nelle viscere del pianeta, dove l’occhio solare non può scrutare. Questi pazzi eresiarchi credevano possibile “imprigionare Dio sulla Terra dacché erano stati in grado di trovare la Musa, l’organo di Dio”. Il divino albergava negli hospice dei reparti oncologici e cresceva dentro i malati. 

Quando era ancora tutto normale e andavamo da lui per il pranzo domenicale, Fabrizio si faceva trovare in piedi davanti al  tavolo della cucina mentre trafficava con fogli e tavole anatomiche, di solito si proponeva di cucinare per tutti ma ultimamente era ossessionato dagli studi oncologici: “Non è una malattia, sai? È come… come una rivoluzione. Le cellule si ribellano, si organizzano, e alla fine distruggono tutto. Dal nostro punto di vista impazziscono ma in realtà si stanno rivoltando contro la teologia tesa all’unità dell’organismo: i tumori sono eresie anatomiche: le cellule si oppongono alla legge della loro autodistruzione necessaria, e poi si organizzano in nuovi agglomerati, forme inedite che pur di ottenere la loro dignità di sopravvivenza sono disposte a portare alla morte l’intero consesso organico del corpo… Un titanismo affascinante, non credete?”. 

Sono andato a trovare Fabrizio in ospedale insieme a Marta. Ci hanno comunicato che questi possono essere i suoi ultimi giorni. 

In auto ho avuto una crisi di nervi, credo di aver spaventato mia moglie. “Ti sei lasciato imprigionare dal tuo risentimento nei confronti della sua malattia, prima che il suo viaggio si concluda perché non provi a perdonarti? Sono sicura ti farà bene dirgli quello che pensi”. 

Mi ha detto di non colpevolizzarmi, che queste cose, semplicemente, accadono. Facile per lei fare la mia stampella, la moglie del pastore e la cognata caritatevole. Il suo approccio alla vita è stato sempre quello di abbandonarsi al prossimo, Marta ama la sottomissione. Quando era lucido Fabrizio ha sempre trattato mia moglie con sufficienza, la riteneva un animaletto, mi disse il giorno del matrimonio. Quando la guardo prendersi cura della sua casa, ripiegare i suoi vestiti prima di andare in ospedale, anche a me Marta pare un animaletto docile. 

Dentro di me ho sempre pensato che fosse innamorata di Fabrizio e che godesse nell’essere trattata come un cane. Non oso guardarla negli occhi, ho paura di vedere nel suo sguardo la stessa espressione con cui giudico mio fratello. Inizio a non tollerare il modo in cui mi parla, il pazzo è Fabrizio ma lei tratta me da tale. Credo che abbia contezza dei miei dubbi, forse si è resa conto che quando facciamo l’amore penso alla Musa e per questo evita ogni contatto da settimane.

Questa mattina non mi sono voluto alzare dal letto, non ho presieduto il culto ma non mi sento in colpa. “Io vado da Fabrizio, non mi sento tranquilla all’idea che possa sentirsi abbandonato, se cambi idea sai dove trovarmi, per i bambini ho avvertito mia madre”. Con quale voglia? Non riuscivo a comprendere con quale tenacia si prestasse a fare da spugna per i deliri di Fabrizio. Mi aiutò la sua Bibbia, quella che Marta teneva nel cassetto. 

Aveva annotato un versetto da Numeri: “Israele si stabilì a Sittim e il popolo cominciò a trescare con le figlie di Moab. Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dèi; il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dèi. Israele aderì al culto di Baal-Peor e l’ira del Signore si accese contro Israele”. Accanto aveva annotato: “La gelosia del Dio di Israele mi riscalda, perché il mio Dio è distratto? Come mai non si accorge della mia tribolazione: sogno il crollo del Tempio, Fabrizio mi ha detto che dalle mura di Gerico si possono ammirare coloro che verranno salvarci… mio marito non è tra le loro fila”. La scorsa sera, dopo il culto domenicale, ho cercato di prenderla da dietro mentre metteva in ordine le sedie dello spazio comunitario del tempio. Senza che se ne accorgesse le ho alzato la gonna e l’ho tenuta ferma contro la parete adiacente all’aula di culto. Cosa stavo facendo? Immagino volessi essere anch’io uno strumento che si rivolta contro la sua funzione, una cellula che abdica al proprio destino, una pecora di Dio che inizia a mordere le sue compagne di gregge. Il Signore degli eserciti mi aveva privato di mio fratello, così io l’avrei privato di una delle sue figlie, mia moglie. Ho sentito Marta singhiozzare, “I bambini, potrebbero entrare i bambini”, ho fatto finta di niente, come Dio ha fatto finta di niente con me negli ultimi decenni. Le guardavo la schiena e mentre tenevo i capelli tra le mie mani mi accorsi che le sue braccia erano robuste, le sue mani, premute contro il muro, il fianco che tenevo stretto e il culo che stavo penetrando erano quelli di mio fratello. 

Mi sono subito ritratto e sono inciampato all’indietro sui miei pantaloni abbassati, non riuscivo a credere a ciò che avevo visto ma era ancora peggio notare che quell’essere davanti a me non aveva più né l’apparenza di Marta, né quella di Fabrizio ma si presentava ai miei occhi come un ammasso di carne pulsante che dava l’impressione essere tutte le cose del mondo. L’essere avanzò o indietreggiò verso di me, non si  comprendeva l’asse di simmetria perché non c’era. Allo stesso tempo era una figura definita, come se racchiudesse ogni possibile forma della materia. Solo dopo mi accorsi che il tutto era avvenuto nell’arco di pochissimi secondi, perché mia moglie si precipitò immediatamente in mio soccorso, non so se per paura che venissimo scoperti o per reale interesse. Credo di aver ucciso il suo fanciullino.

A Torre Pellice hanno iniziato a parlare del “pastore in crisi”, vedo che tutti mi osservano come se fossi un reduce di guerra. Mi parlano piano scandendo le parole, come si fa con qualcuno pronto a esplodere. Durante il funerale di mio fratello sono scoppiato a piangere mentre leggevo Isaia 40:28-31: “Non lo sai tu? Non l’hai mai udito? (…) i più forti vacillano e cadono; ma quelli che sperano nel SIGNORE acquistano nuove forze”. Durante i canti non riuscii a scacciare l’immagine del rapporto sessuale con quell’abominio, ma ciò che mi atterrì fu notare che il Tempio era sparito, al suo posto sembrava di trovarsi all’interno dell’essere che avevo violentato nello spazio comunitario. Gli stessi astanti erano ora chiaramente degli “altri” e al posto della bara, che custodiva il mastodontico corpo di mio fratello Fabrizio, c’era  una lastra di pietra su cui era accasciato un gigantesco essere che sembrava collassato sotto i suoi pesanti strati di grasso. 

Gli arti dell’essere erano quasi invisibili, così come il cranio, infossato nel torace, dotato di una lunga chioma di capelli, o meglio peli, unti e radi. Gli “altri” si voltarono per accogliere mio fratello Fabrizio, vestito con il suo solito camice, i suoi strumenti e il suo pennello da conciamorti, il bisturi. Ciò che vidi è impossibile da raccontare perché nessuna parola può essere tanto sporca e abominevole da indicare una tale mostruosità. Mentre il bisturi seguitava a tracciare le braccia in preghiera della Y sul torace dell’essere, una quantità spropositata di organi cominciò a defluire come un geyser. 

La vista mi fece immediatamente vomitare, ma non riuscivo a distogliere lo sguardo, ormai prono davanti l’altare, piangevo dal dolore mentre sforzavo la mia ugola con sonori rantoli. Fabrizio setacciava il flusso di interiora e raccoglieva gli organi più bizzarri, dal colorito bluastro e livido, dalle forme stravaganti, irrazionali, e scartava quelli, per così dire, normali. Chilometri di intestini, pancreas e cuori scivolavano per tutto il tempio di carne, e gli “altri” nel frattempo si apprestavano ad accumulare molti di questi organi come se cercassero qualcosa. Poi accadde qualcosa di orrendo, tutti quanti iniziarono a cibarsi degli organi tubercolari e gonfi del mostro, un pasto ignobile che me li fece  rassomigliare a dei cani in calore. Terminato il consumo della carne proibita, Fabrizio venne denudato dai Dunmeh e costretto ad avere un rapporto sessuale con quel mostro, il quale, sotto i colpi impacciati di mio fratello prese le sembianze di mia moglie Marta e poi in seguito le mie, ero io! A giacere sotto mio fratello, il medico anatomopatologo rispettato, c’ero io, che ero stata mia moglie e prima ancora Dio, e prima ancora il cadavere di mio fratello. 

Gli antichi greci hanno descritto le epifanie delle divinità in maniera distruttiva, come Zeus che venendo illuminato dalla candela di Semele la carbonizza con il suo semplice manifestarsi, guardare un Dio significa anche morire. E in quel momento mi sentii  esattamente così, morto. Non ebbi la forza di rialzarmi, immerso nel mio vomito, mentre i fedeli mi guardavano come si guarderebbe un uomo che sta per morire. 

Ieri mattina ho guardato fuori dalla finestra della sala da pranzo del centro, ricordo di aver pensato che mi sarebbe piaciuto ricevere una visita da Marta e dai bambini. Mi sembrava di sentirli nella stanza accanto, ma voltandomi c’era solo il silenzio. Silenzio e le pagine di quel diario – “Senta: è importante che lei scriva a penna, si sforzi, ha bisogno di un contatto fisico con il mondo” – pagine piene di una scrittura che non riesco a riconoscere come mia. “Sono Fabrizio Marchetti”, c’era scritto così nella prima pagina. Mi sono seduto, ho iniziato a scrivere con quella mano troppo grande per essere la mia, cento volte, con calma automatica, ho trascritto quello che avevo appena letto. “Sono Fabrizio Marchetti”. 

L’ho guardato a lungo, quel nome. Anche oggi. Quando mi abituo, mi guardo allo specchio e mi riconosco. In questi momenti ho di nuovo le mie sembianze e la faccia smunta di mio fratello si materializza davanti ai miei occhi. Ritorno a quella sera, quando venne a casa dopo la mia telefonata, ricordo i suoi occhi colmi di giudizio e amarezza. Avevo provato a spiegargli che cosa mi fosse accaduto ma sembrava non capirmi, come se mi esprimessi con suoni che non aveva mai ascoltato. Gli avevo mostrato le mani macchiate dal sangue della Musa ma per lui erano pulite, intonse. 

“Basta con questa storia del monastero! Dio, Fabrizio, ti rendi conto di come suoni? Ti stai distruggendo, e con te anche noi”, così mi aveva urlato contro quando gli avevo spiegato che i dunmeh avevano nascosto parti della Musa dentro me e dentro i miei familiari. “Devo salvarvi. Marta, i bambini… anche tu. L’organo… sta crescendo dentro di voi.”

Mi passo la mano tremante tra i capelli, stringo il bisturi in un’altra, con il respiro spezzato. 

“I Dunmeh coltivano organi tumorali per acquisire la connessione con Dio! Mi hanno fatto ammalare e anche voi che siete stati a contatto con me lo siete!”, perché si ostinava a non capire?

“Per fortuna ho salvato Marta, Matteo e Federica, è stato un bene che siano rimasti qui da me oggi pomeriggio”.

“Fabrizio che stai dicendo? Cosa hai fatto a mia moglie e ai miei figli?”

“Nulla che non potesse salvarli! “Vai… vai a guardare nel freezer. Ho… ho tolto un pezzo. Un pezzo di quella maledetta carne.”

Mi ritrovai nel mezzo di una colluttazione, la storia si ripete sempre, ogni città è stata fondata dopo che due fratelli hanno scelto di massacrarsi a vicenda, solo che stavolta la lotta preannunciava la fondazione della città di Dio sulla terra, per quanto amassi mio fratello non poteva più vivere, forse non era neanche più mio fratello ma un avatar della Musa che tentava di dissuadermi dalla mia missione salvifica. 

Le luci delle sirene inondano lo studio della mia clinica di un bluastro insopportabile. I corpi purificati dei miei nipoti, di mio fratello e di mia cognata sono stati salvati, sono qui davanti a me, aperti come libri di verità. Al loro interno, come dentro la nicchia buia di un tempio, lo vedo in tutto il suo orrendo splendore: la voluttuosa apparenza del corpo di Dio, vibra come se temesse, come se pregasse di non essere estratto dalla fitta rete di capillari con cui si aggrappava illegittimamente all’organismo dei miei parenti. Prima di estrarlo da mio fratello mi fermo ad ammirarlo: resto stordito, sento un brivido, come punto da mille spille, tra la nuca e le tempie. Sta pulsando, la carne di Dio sta pulsando.

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