L’amnistia del ventennio – Il fantasma del mito fascista nelle mostre d’arte italiana

L’amnistia del ventennio – Il fantasma del mito fascista nelle mostre d’arte italiana
Adolfo Wildt, Maschera di mussolini, 1923
[Tempo di lettura: 5 pignalenti]

Il 16 febbraio 2018, a meno di un mese dalle elezioni politiche che lo avrebbero portato alla guida del ministero dell’interno, Matteo Salvini twitta: “Ci stanno riempiendo di clandestini che dicono che scappano dalla GUERRA, ma la guerra ce la portano in casa. Chiedere ORDINE non è fascismo, ma è BUONSENSO”.

Due giorni dopo, nella sua Milano, alla Fondazione Prada viene inaugurata la mostra Post Zang Tumb Tuuum: Art Life Politics Italia 1918-1943. A cura di Germano Celant, l’esposizione ripercorre venticinque anni di produzione artistica italiana, in una forbice di tempo che raramente si trova al centro delle analisi storiche o storico artistiche: dalla fine della Prima Guerra Mondiale alla caduta del Fascismo, che non coincide però storicamente con la capitolazione dei fascisti e che soprattutto, chiudendo la mostra, lascia fuori la Resistenza.

Questi due eventi, apparentemente distanti, sono legati dal fantasma di una storia che senza soluzione di continuità porta dalla metà del secolo scorso fino a oggi. Se Salvini può giocare con disinvoltura sulla distinzione di cosa sia buonsenso e cosa fascismo è anche perché in molti ambiti della vita civile e culturale nei decenni si è faticato, o non si è voluto, definire i confini di cosa sia stata l’Italia della dittatura e di quale sia la sua eredità.

Non è soltanto la veste delle istituzioni a plasmare l’identità di un Paese: contano le condizioni di vita reali, la giustizia sociale, la libertà sostanziale di cui godono le persone, l’accesso all’istruzione, il discorso culturale che si anima in democrazia. Quest’ultimo ha il potere di creare le narrazioni in cui collettivamente ci rispecchiamo, e le mostre d’arte o d’archivio hanno il vantaggio non solo di narrare ma anche di mostrare, di lavorare sulla memoria visiva con delle immagini, fisiche e non metaforiche, usate per raccontare un’epoca.

L’esposizione della Fondazione Prada prende il titolo da una celebre opera poetica futurista di Filippo Tommaso Marinetti, il libro parolibero Zang Tumb Tuuum (1914), collocandosi post stagione delle Avanguardie e aprendosi con il primo dopoguerra. Il percorso di visita si articolava per anni e metteva in mostra opere d’arte strettamente intese – dipinti, sculture- e documenti d’archivio. Proprio questi nell’idea del curatore dovevano servire a illustrare la mostra, avrebbero avuto la capacità di “parlare da soli”.

Spesso nella curatela delle mostre o degli ordinamenti museali il criterio cronologico è considerato il più oggettivo: esporre opere e documenti in ordine di tempo sembra una scelta meno invasiva rispetto alla possibilità di raccontare la storia con un criterio tematico o formale. La mostra di Celant adotta questa strategia, non vuole avere un punto di vista ma mostrare senza giudicare. Così, dietro a un’operazione apparentemente oggettiva, si nasconde il rischio di una fruizione acritica che spaccia per neutro uno sguardo in realtà orientato. L’anno 1938 viene raccontato senza un cenno alle leggi razziali, la sala del 1935 non parla dell’invasione in Etiopia.

Incredibilmente, un’intera sala viene dedicata alla proiezione in forma spettacolare e immersiva degli ambienti della Mostra della Rivoluzione Fascista, ideata per volere di Mussolini nel 1932 per celebrare i dieci anni dalla Marcia su Roma. Come sottolineano Raffaele Bedarida, Sharon Hecker e Vanessa Rocco in diversi contributi raccolti in Curating Fascism- Exhibition and Memory from the fall of Mussolini to Today (Bloomsbury, 2023), la mostra a Fondazione Prada corre il pericoloso rischio di restituire un’idea tutto sommato pacifica, se non spettacolarizzata, del venticinquennio in questione.

Rispetto alle scelte curatoriali si aggiungono delle considerazioni: non ci sono pannelli didattici che contestualizzino le opere. Dipinti e sculture sono affiancati da documenti di archivio considerati testimonianze storiche di per sé in grado di raccontare, senza bisogno di spiegazioni o mediazione. Ma può essere sufficiente lasciare che i documenti degli archivi sul fascismo parlino da soli, affidandoci a quanto i fascisti dicevano di loro stessi?

Post Zang Tumb Tuuum: Art Life Politics Italia 1918-1943, Fondazione Prada, Milano 2018

L’esempio di Fondazione Prada non è il primo, anche se potrebbe apparire come il più clamoroso proprio per il clima politico dell’anno in cui si svolge. Le strategie con cui negli anni dal dopoguerra a oggi si è messa in mostra l’arte degli anni Venti, Trenta e Quaranta sono state diverse.Nel 1967 a Firenze Carlo Ludovico Ragghianti -critico antifascista- cura Arte Moderna in Italia 1915-1935. L’obiettivo della mostra non era raccontare il rapporto tra arte e fascismo, ma esporre le opere realizzate in quella forbice di tempo che, tra l’altro, non coincide interamente con il Regime. Le opere sono presentate in virtù di un criterio purovisibilista, trascendono completamente da una storia sociale dell’arte.

Il curatore vuole raccontare quegli anni mettendo in evidenza in qualche modo i fatti (le opere) e non i giudizi. L’impronta critica di Ragghianti era crociana, non a caso Benedetto Croce aveva definito il fascismo come una parentesi. La protagonista della mostra doveva essere l’alta qualità dell’arte di quei decenni, quasi potesse simboleggiare un riscatto dalla dittatura. Non importava il rischio che il pubblico, tornato a casa dopo la visita, potesse pensare che, tutto sommato, il fascismo aveva fatto anche cose buone di cui un’arte così apprezzabile era testimonianza.

Arte Moderna in Italia 1915-1935, Palazzo Strozzi, Firenze 1967

Quindici anni più tardi il contesto politico e culturale italiano è cambiato e nel 1982 si tiene a Milano la mostra Annitrenta. Arte e cultura in Italia a cura di Renato Barilli. Rispetto al precedente più diretto, quello ragghiantiano del ‘67, questa esposizione non riguarda solo l’arte moderna, ma anche la cultura e più in generale il costume: il cinema, la letteratura, la stampa, la moda. In questo senso la mostra si impegna a ricostruire un contesto, un discorso sul decennio al centro del racconto. L’immersività è tale che l’allestimento riprende strutture e scenografie di mostre degli anni Trenta, come la Sala dell’Aviazione della mostra dell’Aeronautica italiana del 1934.

Il rischio di spettacolarizzazione era forte, e gli studi recenti dimostrano come questo non fosse tanto un rischio, quanto un calcolato effetto: l’esposizione così fatta era stata fortemente voluta da Carlo Tognoli, allora sindaco socialista di Milano, in contatto diretto con Barilli, e doveva avere un ruolo nel posizionamento del PSI: in tempi di compromesso storico, il Partito Comunista Italiano a guida Berlinguer rischiava di erodere voti al centro-sinistra craxiano. Così i socialisti ritenevano necessario raccontare il fascismo come la più blanda tra le dittature della prima metà del Novecento, per ricordare di contro quanto il comunismo sovietico fosse stato meno tollerante e più repressivo (Bedarida, Hecker, 2023).

I fantasmi del passato che attraversano la cronistoria di queste mostre non sono creature aree e misteriose, immagini minacciose di un’epoca remota, ma catalizzatori influentissimi del pensiero moderno. Oltre la ricostruzione storica, il fascismo è un pezzo di cultura che non riusciamo nettamente a distinguere perché i suoi strascichi non finiscono, si perpetuano nel discorso pubblico, nella politica, in accademia, nelle mostre. Umberto Eco in Fascismo Eterno scrive “[..] dietro un regime e la sua ideologia c’è sempre un modo di pensare e di sentire, una serie di abitudini culturali, una nebulosa di istinti oscuri e insondabili pulsioni”.

È evidente che non ci sia un nesso diretto, se non una sorprendente concomitanza temporale, tra l’inaugurazione di una mostra di livello internazionale e una dichiarazione becera di Salvini, ma la cronaca solletica qualche riflessione. Se chi ha la responsabilità di raccontare la storia convive con questa sfera nebulosa di cui parla Eco, senza tentare di schiarirla, quanto è facile per Salvini nei suoi tweet giocare sul confine di ciò che è fascismo e ciò che non lo è?

Le mostre descritte non sono apologetiche, non sono fasciste ma è proprio questo carattere ambiguo e subliminale a renderle discutibili. Non volendo credere che la mostra del 2018 volesse esaltare il Fascismo o proporlo come un’epoca in qualche modo desiderabile e da rimpiangere, nel migliore dei casi c’è da pensare che la problematizzazione del Ventennio fosse in qualche modo data per scontata, o ritenuta non necessaria. Eppure dal 1918, anno con cui inizia il percorso, al 2018 in cui l’esposizione viene inaugurata mentre Salvini nega di essere fascista e si appella invece al buon senso, fino al 2024 con le inchieste sulla gioventù meloniana, è ormai plastica la manifestazione di una mancata presa di coscienza di un Paese che non ha ancora fatto i conti con la propria storia.

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