lavorare

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[Tempo di lettura: 3 pignalenti]

Non ricordo quanti anni avessi la prima volta che ho lavorato, cioè che qualcuno mi ha dato dei soldi per svolgere una mansione. Sicuramente andavo a scuola, forse non ero ancora adolescente. Non avevo un contratto, ovviamente, e a pagarmi era quasi sicuramente qualche parente che voleva insegnarmi il valore del denaro e della fatica per guadagnarselo. 

Mi ricordo, invece, la prima volta che sono stata pagata da qualcuno che non fosse un familiare: era la mia università, avevo vent’anni, aiutavo le segretarie del dipartimento di ingegneria a fare i badge alle matricole, sistemare faldoni di documenti, archiviare pratiche, chiusa per ore in una stanza piena di polvere e inaccessibile al resto degli studenti. Contratto da 150 ore, 10 euro lordi l’ora, uno dei tanti contrattini che le università con carenza di fondi e personale fanno ai ragazzi per sgravarsi dei costi di un contratto regolare e a tempo indeterminato. Chissà, a ripensarci, se avevo una qualsiasi forma di assicurazione. 

I miei genitori non volevano che io lavorassi e io, invece, lo facevo di nascosto. Loro avevano capito, molto prima di me, che lo studio è una cosa seria e da tutelare e non deve essere interrotto da certe idiozie come un contratto sottopagato. Ho fatto altri lavori, sempre all’università, come quando assistevo in qualità di tutor – qualcuno mi spieghi cos’è un tutor – il mio relatore nell’organizzazione di un master di secondo livello (facevo tutto io, anche insegnargli cos’è il tasto destro del computer e come si usa “questo cazzo di Drive”, parole sue). 150 ore, 10 euro l’ora, lordi. 

Ce ne sono stati tanti altri ma in nessuno riesco a trovare una qualsiasi forma di interesse, qualcosa che valga la pena di essere raccontato. Non c’era amicizia con i colleghi né solidarietà di classe, non mi sono mai innamorata di nessuno durante un turno, nessun incontro mi ha cambiato la vita. L’epica del lavoro ha senso soltanto quando esce dalla macchina produttiva, quando diventa anti-lavoro. 

Di recente una persona che conosco mi ha chiesto di dare una mano a un suo amico editore a organizzare una presentazione nella città in cui vivo, “la casa editrice non può mandare nessuno” – forse non ha dipendenti? Allora mi sono messa dietro a un tavolino pieno delle copie dell’autobiografia sciatta di un attorone ultranovantenne. All’inizio mi era stato promesso un “rimborso spese”, che il giorno prima della presentazione, al telefono con questo editore di Biella, è diventato un “cadeau librario” da spedirmi per posta come ringraziamento per il disturbo, mi raccomando dammi il tuo indirizzo, mi diceva, insieme a tanti grazie e spero di conoscerti presto. A fine presentazione ho venduto tutte e ventisei le copie, arrivate direttamente dal Piemonte in un grosso pacco ancora imballato, 20 euro l’una, imparanoiata perché contavo e ricontavo e dal pacco di banconote che avevo in tasca (tutto cash e senza ricevuta) mancavano i soldi di una copia ed ero sicura che avrei dovuto metterli di tasca mia. Quando sono andata a darle all’assistente dell’attorone, un tizio ovviamente romano di una cinquantina d’anni, conta e riconta a lui i conti tornavano, allora sono rimasta lì impalata a fissarlo finché non mi ha dato 50 euro in mano e non mi ha chiesto “Ti va bene?”. Sì e me ne sono andata. Il cadeau non è mai arrivato. Come dicevo, niente di interessante, anzi tutto molto triste.

Non capisco perché ci costringiamo alla sofferenza, al travaglio, alla fatica. A ripensare a quando mi hanno insegnato il valore dei soldi, a quando mia nonna mi ripeteva di quanto fosse importante risparmiare ed essere oculata e attenta, avrei voluto invece che con onestà qualcuno mi insegnasse a rubare, come fa il capitalismo e come fanno i ricchi. Avrei voluto essere educata all’esproprio, alla necessità di fare il meno possibile e con sciatteria.

Sono stanca del lavoro e di chi lo racconta con entusiasmo. Sono stanca della passione, dell’entusiasmo, dell’arte, dell’impegno e delle vite che cambiano così e cosà. Mi annoia a morte dovermi presentare, dire cosa so fare, andare agli eventi perché ci sono persone che poi forse mi daranno dei soldi per fare questo e quello. Soprattutto, sono stanca dei ricatti di chi è in posizione di potere. Vorrei che tutte le persone che mi hanno maltrattata sul posto di lavoro subissero un torto a loro volta, soffrissero, stessero male da morire ma senza morire. Gli auguro vita lunghissima.

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