Passa un tempo particolare da quando smetti di assomigliare a quando sei piccolo e inizi a assomigliare ai tuoi intenti. Papà era convinto che la mamma dopo anni a insegnare a bambini e ragazzi non fosse altro che un paio d’occhiali storti. Lui invece, dopo anni nella finanza, si guardava allo specchio e si percepiva una vernice ingrigita. Il nonno stava su un peschereccio fino a tarda notte e la brezza gli aveva cambiato il volto anno dopo anno.
A me piace il posto in cui sono adesso, mi ci potrei abituare. Arriva nutrimento penzoloni con cadenza regolare e non c’è spiffero che riesca a disturbare questa febbre tiepida che mi rende caldo e assonnato. Mamma bella c’ha pensato bene a me e ha messo un sole nel ventre che mi tiene protetto. Quando il sole non basta, poggia una mano sulla sua pancia e a me arriva il suo tesoro. In questo spazio da pulsantiera posso toccare tutto e mamma bella reagisce per affinità. Alle volte ride, altre si accartoccia e mi restringe lo spazio per impedirmi di tastare. È lì che cominciamo a litigare. Ma passa subito, sia a me che a mamma bella. Passa quando ondeggia con il bacino e i fianchi e qui dentro tutto quanto salta e salto anche io perché mamma danza, e lo fa leggera leggera come se non avesse la stiva piena. La musica che ascolta mamma bella mi piace di più rispetto a quella che ascolta papà, che ci mette un’eternità a scegliere una canzone e intanto passano momenti di silenzio in cui i fianchi di mamma bella stanno fermi fermi. E io la sento tanto stanca mentre papà sta a scegliere il suo pezzo e a pensare e a chiedersi. E poi magari comincia un lamento fiacco, che mi fa poggiare la testa dove c’è più tepore, dove la mamma mette la mano per riposarsi e mi fa solamente socchiudere gli occhi, e io per pochissimo smetto di saltare. Per fortuna, quando le voci di mamma e del papà si frammentano e ascolto tante altre persone, la musica la sceglie mamma bella e tutti le vengono incontro perché sono interessati a me. Mi danno una razione del loro tepore e io premo tasti e a volte mamma bella si contrae altre sta bene in piedi e tutti mi chiamano «Festa!», e dalle urla capisco che il mio nome sarà leggendario. In questo spazio da pulsantiera, in cui ogni volta che tocco qualcosa, qualcuno risponde, io sono dio e tutto è alla mia portata e nulla potrà mai farmi del male.
Mi disturba un po’ mamma bella quando si poggia al letto selvaggia e tira a sé il papà e in pancia brilla la frenesia. Sarà la festa che continua. Finché la frenesia di mamma bella non si arresta per un istante, perché papà alla sua candida e scimmiesca virilità fa seguire un’interruzione.
«Potrebbe toccare la testa del bambino» dice, ma lo so pure io che sta rivendicando la formula magica, quella che mamma bella gli riserva solo in determinate occasioni: «coglione».
Lo so pure io papà che qui vogliamo solamente divertirci, che mamma bella si vuole divertire e io voglio uscire fuori e fare la festa come dite voi. Smussano i loro angoli per mettersi comodi e per farmi spazio e cominciano facendo «Oh Dio!», e allora sarà questo il mio nome, glorioso, e sarà leggendario.
Capisco quando è papà a mettere la mano sul tetto della mia capanna, perché il suo respiro stride rispetto al mio – non è in simbiosi come quello mio e di mamma bella – ma crea una cappa di calore ancor più forte, anche se alcune volte preme maldestro e quel respiro mi va via per un istante. Succede ogni tanto, per esempio quando mamma bella si dimentica di darmi del cibo, ché è impegnata a discutere, e non viene giù nemmeno quel formaggio dal nome goffo che gusto più degli altri. E papà non fa altro che urlare «soldi» e poi continua con parole ancora più goffe che non capisco, e per fortuna mamma bella si accorge che papà si è dimenticato la mano sulla pancia altrimenti io non avrei saputo che tasti premere per farmi ascoltare. Ma entrambi sono così distratti quando succede e continuano «soldi, soldi» e se ne parlano così deve essere perché sarà quello il mio nome, glorioso, e sarà un nome leggendario.
Capita che dopo momenti del genere mamma bella sia più fiacca del solito e che casa mia sia angusta e raggrinzita e mentre sono pronto a suggere l’amore di mamma bella, lei decide di togliere quella dose di formaggio goffo e sostituirla con bile di catrame fetido e puzzolente e non so ancora come farle capire che questa cena mi fa vomitare. Per fortuna va poi a dormire, e mamma bella quando dorme, dorme per bene. Io glielo dico, glielo dico che sono io che la faccio così bella perché le passo tutti miei ormoni da aitante dio quale sono. Lo sento dire dagli altri che mamma bella non è mai stata bella come adesso. E fa finta di non sentire e mi viene da dire la formula magica che le dice papà: «scema».
«Scema, guarda che è il momento di ascoltare!», vorrei dirle così perché questa è la voce di papà che le dice che è sempre più difficile e che non credeva nemmeno lui che Raffaele potesse dargli così tanto in così poco e che quando è con lui ogni preoccupazione vola via. Su questo è chiaro papà, lo ripete una quantità di volte che faccio fatica a contare, è chiaro sul fatto che la colpa non è di mamma bella ma è tutta sua. Il suo lamento sembra quello fiacco delle note musicali che sempre ascolta, ma io non voglio chiudere gli occhi, voglio solo ascoltare la voce di papà che a mamma, mentre dorme, dice che forse non è facile come pensava e che l’entusiasmo iniziale c’ha messo così poco tempo a diventare una esiziale foschia. Che non la sente più accanto, e che, ancor peggio, vorrebbe starle accanto molto meglio ma proprio non ci riesce. E la sua testa è affastellata da sensi di colpa che si sedano solo quando sta con Raffaele. «Ci ha avresti mai creduto?».
Mamma bella non si sveglia, e io sto cercando di farle capire che papà è così che vuole chiamarmi, Raffaele, un nome unico, glorioso, leggendario. Papà con questo Raffaele si sente uomo di nuovo e non ci avrebbe creduto nemmeno lui, che Raffaele e quel suo volto imberbe ed efebico l’avrebbero reso uomo a quarantadue anni. E alle volte ci pensa papà, così dice, che potrebbe essere suo padre, sia padre che mio che padre di Raffaele, ma questa parola è un albero abbattuto nella sua foresta. E se proprio la colpa dovesse essere di qualcuno, non sarebbe né sua, né di mamma bella, né di Raffaele, ma di chi si è frapposto fra il loro amore. Papà pizzica il tetto di casa mia.
Muovo le dita della mano cercando di ricordare come fa mamma bella quando la melodia agisce per lei. Qui dentro quando mi metto a danzare da solo si crea una luce lagunare che mi rende più sommesso che divertito, ma io muovo le mie dita e sto qui a ballare una samba immobile. Finalmente mamma bella si è svegliata. Barcolla la mattina, e nel bagno la sento tutta incresparsi e dopo fare una serie di abluzioni che non le tolgono la spossatezza. Papà è seduto sul divano in salone. Mamma bella è una rovina sulle sue ginocchia. Sono un coro di vetri rotti che conversa di finestre. E si scambiano modi d’amore in cui non riconosco nessuno dei miei gloriosi, leggendari nomi. In questo spazio da pulsantiera, che è un po’ mondo, un po’ sputacchiera, sono dio eppure sono inerme adesso che mamma bella sta dicendo a papà di andare via e che tutto questo non sarebbe successo se la sua sua stiva non si fosse riempita. E chiude la mano, la rende strumento d’amore violento. E questo che scaglia sul tetto di casa non è un pizzico, né una carezza, è forte come sono forti le sue gambe, forte come un feto e come un condottiero.
Passa un tempo particolare da quando smetti di assomigliare a quando sei piccolo e inizi a assomigliare ai tuoi intenti. Io mi sento così bene in mezzo all’acqua e allora credo che vorrei abitare al mare e pescare, come faceva il nonno. E vorrei che mamma bella non smettesse di darmi quel formaggio goffo che tanto mi piace. E se un giorno dovessi uscire dall’acqua che ristagna qui dentro, vorrei che la mamma lo lasciasse decidere a me, condottiero.
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