La macchina da presa, in una lenta carrellata, inquadra alcuni oggetti poggiati disordinatamente su una scrivania, mentre sentiamo fuori campo un uomo chiedere come deve presentarsi. Dopo un generico «di quello che vuoi», la telecamera segue le mani del personaggio abbottonarsi dalla vita fino al collo una camicia su cui è ritratta la bandiera americana, per poi inquadrarne il volto: «my name is eduard limonov. i’m an independent communist». Così si apre Limonov: The ballad of Eddie di Kirill Serebrennikov, film uscito nelle sale italiane il 5 settembre, dopo il debutto al Festival di Cannes.
Nel resto del film l’intervistatore non sarà più presente in scena, eppure chi abbia letto il romanzo Limonov di Emmanuel Carrère (2012) può facilmente ipotizzare che questo personaggio rappresenti proprio l’autore francese, tanto marginale nel film quanto importante, grazie al suo libro, per la fama in Europa dello scrittore e politico russo. Eduard Limonov, pseudonimo di Ėduard Veniaminovič Savenko, è nato nel 1943, morto nel 2020. È stato operaio, sarto, mendicante, maggiordomo. È cresciuto in Ucraina, si è trasferito a Mosca in cerca di fortuna letteraria, quindi a New York per assecondare il suo desiderio di successo, a Parigi per diventare finalmente uno scrittore affermato, poi di nuovo in Russia. Si è arruolato successivamente come combattente di una legione straniera tra Vukovar e Sarajevo nel 1991 al fianco dei serbi nella guerra civile jugoslava. Di ritorno in patria, ha fondato un partito di ispirazione “nazional-bolscevica”: la bandiera rossa, al cui centro sono stilizzati una falce e un martello neri iscritti in un cerchio bianco, ricorda molto quella delle SS tedesche. È stato un rivoluzionario e, successivamente, un prigioniero politico dal 2001 al 2005, formalmente incarcerato per istigazione alla rivolta e detenzione illegale di armi. «Siamo in una guerra e serve che qualcuno comandi le truppe», ha dichiarato più tardi, come testimonia un video pubblicato su YouTube da un canale d’informazione francese. Si è proposto come uno dei pochi oppositori politici di Putin, candidandosi alle elezioni presidenziali del 2008 contro Medvedev assieme a una coalizione di partiti di opposizione al regime. L’unico scopo di ognuna delle sue azioni, così ci è tramandata la sua figura, è stato il culto della propria personalità.
Il film di Serebrennikov è la libera trasposizione cinematografica del romanzo di Carrère. Dico libera perché, nonostante il libro sia stato il soggetto del film e Carrère abbia fatto una consulenza a Serebrennikov in fase di scrittura, sono sostanziali gli elementi di differenza tra i due lavori, tanto che potremmo quasi considerarle due opere slegate che hanno per protagonista la stessa persona. Il film ripercorre a volo d’uccello la vita dell’autore russo omettendo molti aspetti essenziali non tanto per la biografia di Limonov in sé, quanto per l’architettura del romanzo di Carrère e per l’idea a esso sottostante. Elenco brevemente gli aspetti più calzanti su cui il film differisce dal libro, per poi procedere a parlarne compiutamente: in primo luogo, la stretta correlazione tra culto della personalità letteraria e culto del leader politico, che coesistono nella figura pubblica di Limonov; in secondo luogo, la relazione tra la sua biografia e lo sguardo di chi la racconta.
Come abbiamo provato ad evidenziare, Limonov, nato quasi alla fine della Seconda guerra mondiale e morto, senza che il fatto destasse molto clamore, all’inizio della pandemia di coronavirus, ha attraversato molti spazi e molti contesti del Novecento e dell’inizio del Duemila. Non è scontato, a ben pensarci, che un intellettuale nato nell’Ucraina sovietica e fieramente difensore dei valori dell’URSS si sia integrato – o abbia provato a farlo – nella società statunitense o in quella francese. Eppure, è proprio in Europa che i suoi libri hanno avuto il maggior successo iniziale, salvo poi essere riaccolto con l’autorità e il fascino di una star nella Russia post-sovietica, alla quale si è presentato mosso dal sentimento di rivalsa di chi è stato escluso da una società ormai al collasso – quella sovietica, siamo negli anni ’90 del Novecento – e di cui lui, tuttavia, sembrava essere rimasto uno dei pochi difensori.
Il film di Serebrennikov cerca di tracciare questa parabola esistenziale attraverso la fotografia, i costumi e la musica. All’iniziale bianco e nero cupo con cui il regista racconta il Limonov operaio e, successivamente, aspirante scrittore dei circoli letterari russi, seguono le luci e i vestiti della New York degli anni Settanta, la musica di Lou Reed e David Bowie e il caos della 5th Avenue: capelloni e giacche di pelle o di camoscio, il protagonista si aggira per New York illudendosi di essere il primo motore di una rivoluzione della società letteraria o, addirittura, della società nel suo insieme. Limonov si mimetizza nei contesti che abita, assume una nuova forma in ogni fase della sua vita – non a caso, il romanzo di Carrère è rigidamente scandito in capitoli che procedono per città e anni. A spingerlo a emigrare in America era stata Tanja, la sua fidanzata di allora, aspirante modella succube di altrettante velleità di successo che lo convincerà di essere un predestinato. A questo rapporto sentimentale Serebrennikov dedica molta importanza all’interno della pellicola, ne esalta l’intensità, il potere deformante della personalità dell’artista, la perversione. Si pensi, a titolo esemplificativo, al gesto plateale con cui Limonov ha cercato di attirare l’attenzione di Tanja mentre era in casa con un altro amante: dopo aver bussato ripetutamente e senza successo, si è tagliato le vene e ha imbrattato di sangue il muro esterno dell’appartamento. Tuttavia, il regista omette di citare molte altre relazioni della vita di Limonov, come quella precedente con Anna, che lo aiuterà a trovare il suo pseudonimo (una crasi tra “Limon”, il frutto, e “Molotov”, la granata) o le successive con la domestica Jenny o con la ricca alcolista Nataša, che diventerà persino sua moglie. Limonov distingue, in modo irricevibile per la società contemporanea, le donne per classi a seconda di canoni estetici e sociali: classe A, B, C e così via. Le figure femminili, ci racconta Carrère e omette di raccontarci Serebrennikov, sono state esse stesse, per Limonov, strumento opportunistico di ascesa sociale. Il racconto romanticizzato, da parte del regista, di un solo amore depotenzia la controversia del rapporto che Limonov aveva con il sesso e con le relazioni sentimentali.
Ad ogni modo, sarà soprattutto a causa della fine della relazione con Tanja che Eduard si trascinerà in una spirale bulimica di dipendenza da droghe, vita sregolata ai limiti del vagabondaggio, prostituzione, rapporti omosessuali. La progressiva degradazione fisica e sociale si interrompe quando trova lavoro come maggiordomo presso un ricco imprenditore, che vede in lui un talento letterario da non sprecare. Nel tempo libero dal lavoro scrive romanzi in cui fa della propria vita, senza alcuna mediazione né finzione, la trama del racconto. Questo approccio ossessivo e perverso alla materia di cui scrive lo rende famoso in Europa, grazie al contatto con un editore ottenuto da alcuni conoscenti.
In Francia, l’aspetto estetico di Limonov comincia a istituzionalizzarsi: il punkabbestia emarginato diventa un dandy, un uomo elegante e composto. Sono gli anni Ottanta, la sua fama come scrittore cresce in modo direttamente proporzionale all’approssimarsi del crollo dell’Unione Sovietica. A testimoniare l’importanza, per Limonov, dell’estetica come veicolo di un messaggio intellettual-politico, a cui il film rende effettivamente giustizia, possiamo ascoltare l’inizio di questa intervista del 1989 per una televisione francese. Nel video vediamo Limonov e il suo intervistatore chiacchierare amabilmente e fumare una sigaretta, seduti a quello che sembra essere il tavolo di un locale. Limonov indossa con portamento fiero un’uniforme da soldato sovietico. Alla domanda dell’intervistatore sull’importanza del look per uno scrittore, Eduard risponde così: «Questa è l’uniforme che i sovietici hanno indossato a Praga, Berlino, a Vienna, ad Auschwitz. Questi stivali sono gli stivali del totalitarismo per schiacciare le democrazie».
Limonov si è vestito così per presentare il suo saggio La grand epòque, una celebrazione dei fasti dell’URSS di Stalin, pubblicato nel 1989, proprio mentre l’Unione Sovietica sta per crollare. «La mia famiglia è una famiglia semplice: mio padre vive in un villaggio, mio nonno ha vissuto in un villaggio, per noi è stata una grande epoca perché mio padre, nonostante vivesse in un villaggio, ha avuto la possibilità di andare a una scuola militare e fare la carriera militare. È stata l’epoca dell’uomo in uniforme, dell’uomo forte. È un’immagine di uomo vero». D’altronde, in varie uscite pubbliche Limonov ha testimoniato di aver lasciato l’Unione Sovietica non per motivi politici ma esclusivamente per sue «ambizioni personali». L’aspetto estetico di Limonov sembra, quindi, essere consustanziale al messaggio politico che vuole veicolare. Non a caso, negli ultimi anni della sua vita lo vediamo indossare, tanto nel film quanto nelle foto disponibili su internet, abiti lunghi, eleganti e austeri: quasi esclusivamente vestito di nero, indossa lunghi cappotti di lana o di velluto sopra abiti che ricordano sempre, in qualche modo, un’uniforme militare. I suoi capelli, dapprima in linea con le tendenze estetiche di gruppi sociali di contestazione, sono ora bianchi e pettinati all’indietro, mentre i baffi e il pizzetto gli conferiscono un’aura di autorità: sono gli anni del leaderismo politico.
È tuttavia necessario evidenziare come, nel film di Serebrennikov, la parabola estetica di Limonov, così accuratamente rappresentata, sembra non tenere conto del rapporto con il suo contraltare politico. Non a caso, è proprio la seconda parte della sua vita a essere pressoché totalmente oscurata, descritta soltanto come una sorta di appendice della vita di un uomo che aveva raggiunto l’apice dell’interesse pubblico in qualità di dandy-artista, piuttosto che come militante. Dal film è rimossa la carriera militare di Limonov, viene raccontata brevemente la sua prigionia ma senza specificarne i motivi (mettendo in luce piuttosto il fascino che, anche come carcerato, esercitava sull’amministrazione statale russa in qualità di intellettuale) e soprattutto non c’è traccia della figura di Putin, nonostante alcune scene rappresentino la nascita del partito nazional-bolscevico, che era stato ufficialmente messo al bando dal dittatore russo. Potremmo considerare lecito concentrare l’interesse di un film biografico su una fase specifica e limitata della vita di un artista e di per sé questo non rappresenterebbe un problema, se non fosse che, a mio parere, questa decisione mette in ombra l’essenza stessa della figura di Limonov.
Veniamo quindi al secondo punto dell’analisi: lo sguardo dell’osservatore. Il romanzo di Carrère muove non tanto dalla figura di Limonov di per sé, anche perché, al momento della pubblicazione del romanzo, non era famoso al punto da giustificarne una biografia. Ciò che muove la scrittura del romanzo è piuttosto un gioco articolato di riflessi che riguardano la vita personale di Carrère stesso, il periodo storico in cui Carrère contestualizza Limonov, l’interesse che il suo carisma suscita nei confronti dello scrittore francese. Cito un brano dall’incipit del romanzo per far capire di cosa parlo:
In cima alla scalinata, davanti alle porte chiuse del teatro, ho visto una sagoma che mi ricordava vagamente qualcuno, ma non riuscivo a capire chi. Era un uomo con un cappotto nero, reggeva come gli altri una candela, ed era circondato da diverse persone con cui parlava sottovoce. Al centro di quel cerchio dominava la folla, benché defilato attirava gli sguardi, dava l’impressione di essere importante […]. L’uomo ha girato la testa, come se nonostante la distanza l’avesse sentita. La fiamma della candela ne ha scolpito i lineamenti.
Ho riconosciuto Limonov.
Carrère racconta di averlo incontrato al funerale della giornalista e militante antiputiniana Anna Politkovskaja nel 2006. L’intreccio con le vicende della storia russa è fondamentale: l’autore francese, tramite la biografia di Limonov, non racconta soltanto la vita di un individuo, bensì cerca di trasfigurare, attraverso il suo personaggio, la trasformazione sociale della Russia da Paese sovietico a oligarchia capitalista e il passaggio dal bipolarismo novecentesco al multipolarismo del ventunesimo secolo. Il racconto di Carrère intreccia la biografia di un uomo alla grande Storia del Novecento. L’interesse per le vicende sociali russe, inoltre, è mediato dalla figura di sua madre, Hélène Carrère d’Encausse, studiosa di storia russa e membro dell’Académie française. Carrère si inserisce pienamente nel filone letterario del romanzo come narrazione di fatti allo stesso tempo privati e universali. Limonov è un militante ipertrofico, controverso, a tratti irricevibile, con idee tendenti al nazismo, il prodotto di una società radicalmente altra rispetto a quella occidentale e che pure ha cercato e ottenuto il successo proprio in Occidente. Scrive Guido Mazzoni nei Destini generali:
Ciò che oggi rimane [in occidente] dell’impegno e della sua retorica è un arcaismo o una pantomima. In secondo luogo, la blanda schizofrenia da cui tutti noi siamo percorsi rappresenta, per molti, una conquista, un esito cui tendere: se l’imperativo che domina la vita dei militanti, come scrive Fortini, è lo stesso che attraversa la vita dei santi, «vivere coerentemente», la vita e la psiche incoerenti, l’io allentato degli occidentali contemporanei sono percepiti anche come la liberazione da un vincolo, come un bene. E infine mi era chiarissimo che a tutto questo io non avevo da opporre alcunché. Sicuramente non avevo da opporre un progetto politico. Oggi non esiste alcuna controforza organizzata che proponga un’idea di mondo alternativa a quella occidentale, a parte il fondamentalismo islamico, qualche residuo esperimento marxista latinoamericano e i nuovi modelli di dispotismo asiatico, peraltro perfettamente integrati nel capitalismo, perché se c’è una cosa che la storia degli ultimi quarant’anni ci ha mostrato, dal Cile di Pinochet alla Cina contemporanea, è che fra capitalismo e democrazia non c’è alcun rapporto.
Limonov, in quanto emarginato dalla società occidentale e poi nostalgico sovietico nella Russia di Putin, rappresenta il contraltare di questa trasformazione nella politica, nella cultura e nella società del Duemila, è un fantasma del Novecento che irrompe con veemenza fisica – persino militare – nel XXI secolo. In questo, la sua figura non è affatto diversa da quella di Putin, con l’unica differenza che Putin – un ex gerarca del KGB che ha preso il potere con il favore del vecchio apparato statale sovietico – ce l’ha fatta, Limonov no. Quando viene messo in carcere, racconta Carrère, Limonov sente di aver raggiunto finalmente il suo obiettivo, ovvero essere riconosciuto come il primo e più importante tra gli scarti della Storia:
«Ne ho incontrati molti», scrive, «di questi uomini forti e malvagi che hanno ucciso e ora sono torturati dallo Stato. Sono miei fratelli, io sono un piccolo mužik come loro in balia del vento ostile delle prigioni. Voi me l’avete chiesto e io scrivo per voi, ragazzi, ospiti delle segrete. Non vi giudico. Sono uno di voi […] Appartengo a quella categoria di persone che non si sentono perdute in nessun luogo. Vado verso gli altri, gli altri vengono verso di me. Le cose si aggiustano naturalmente».
La celebrità di Limonov rappresenta il riflesso, affascinante e derelitto, del passato sul tempo presente. Più volte Carrère lo racconta accerchiato da giovani, mentre emana un’autorità dal carattere storico, che trascende il suo essere individuale. Il fascino che evoca è un fascino secolarizzato. Per questo motivo, il demerito di un film come quello di Serebrennikov è di aver reso la biografia di Limonov esclusivamente “la ballata di Eddie”, la storia di un punk raccontata a ritmo di musica. Se alla figura di Limonov sottraiamo la Storia che l’ha prodotta, ciò che resta è un dandy isterico, maniacale, pieno di aspirazioni frivole e di idiosincrasie. Serebrennikov cerca di fare di Limonov una celebrità in senso occidentale, un uomo che aspira a nient’altro che alla realizzazione di sé e non a un cambiamento della società per mezzo di sé. In questo, credo, risiede uno dei rischi principali del culto contemporaneo della celebrità: quella di astrarre gli individui dal loro contesto. Quando sono uscito dalla sala in cui proiettavano il film, la persona accanto a me, che non aveva letto il romanzo di Carrère, lo ha commentato così: «Mi è sembrata la parodia di un coglione».