“Lontano dall’occhio di bue” – Intervista a Roberto Mandracchia

“Lontano dall’occhio di bue” – Intervista a Roberto Mandracchia
[Tempo di lettura: 7 pignalenti]

Nella raccolta di prose La Sicilia è un’isola per modo di dire (2018), lo scrittore siracusano Mario Fillioley si chiedeva come rappresentare oggi la Sicilia con la consapevolezza di doversi confrontare con una miriade di rappresentazioni stereotipate, esotizzanti, denigratorie o più banalmente datate di un’isola che più diventa famosa e “turistica e più viene a coincidere con il racconto che se ne è sempre fatto e se ne continua a fare”. Se nel corso dell’ultimo ventennio autrici e autori come Orazio Labbate (Lu scuru, 2014) o Vincenzo Profeta (La Palermo male, 2021) hanno esplorato le possibilità narrative gotiche ed esoteriche della cultura siciliana di oggi e del passato in controcanto ai romanzi storici di Giuseppina Torregrossa (Il conto delle minne, 2009) e  Stefania Auci (I leoni di Sicilia, 2019), Roberto Mandracchia si è dedicato a raccontare la sua Agrigento, anagrammata in Garogenti, attraverso la riscrittura eroicomica di due grandi classici della letteratura moderna: come nel Don Chisciotte in Sicilia (2022) il capolavoro di Cervantes si intrecciava alle fantasie di un anziano professore convinto di essere il commissario Montalbano dei gialli di Camilleri, così ne L’implosivo, pubblicato nel 2024 per i tipi di minimum fax, un latitante di mafia veste i panni di un novello Robinson Crusoe costretto a escogitare inedite strategie di sopravvivenza nella cascina in cui si trova apparentemente abbandonato dai suoi.

A quasi quindici anni dal tuo esordio con Guida pratica al sabotaggio dell’esistenza  e ormai arrivato al quarto romanzo ti senti almeno un po’ famoso?

Ogni volta che sento parlare di fama penso a una barzelletta che mio zio mi ha raccontato anni fa. Ci troviamo nella sala comune di una clinica psichiatrica e tre degenti fanno a gara a chi è fra loro il più famoso. Parte il primo: Io sono Napoleone Bonaparte, ho conquistato mari e monti e da semplice borghese sono diventato imperatore. Lo interrompe il secondo: Napoleone, tz, io sono Mosè, ho guidato il mio popolo attraverso le acque del mare e attraverso il deserto e Dio in persona mi ha dato i dieci comandamenti! Scatta il terzo: Chi ti detti iu?! [Cosa ti ho dato io?!]. Ovviamente non mi sento famoso perché non lo sono, ma ammetto che al quarto romanzo la platea dei miei lettori si è allargata: da venticinque sono passati a ventisei, battendo Manzoni. Mi piacerebbe essere famoso? Sì e no. Sì perché raggiungerei con le mie storie molte più persone e perché riceverei un’adeguata ricompensa economica all’impegno che metto nello scrivere; no perché uno scrittore, come una spia di Greene o di Le Carré, lavorerebbe meglio lontano dall’occhio di bue, dal centro della scena: uno scrittore deve poter osservare e non essere osservato.

Oltre a scrivere insegni lettere alle scuole medie. Parli mai della scrittura ai tuoi studenti? Ti percepiscono come famoso?

Loro sì che pensano sia famoso, o almeno piace loro pensarmi così, e li diverte cercarmi su internet. Ma sono ragazzini: per loro diventa famoso pure chi riesce a mangiare dieci pizzette di fila. Anche se, in fondo, non sono tanto interessati al concetto di fama ma all’aspetto dolente dell’attività artistica: Professo’, quanto guadagna coi libri? Molti soldi? La cosa più divertente per me, invece, è leggergli nello sguardo ammirazione mista a sconcerto quando rispondo loro che il mio ultimo romanzo è di 200 pagine. Tutte queste? E come fa? A quel punto assumo la mia posa da vecchio saggio e rispondo: Una parola alla volta; una, parola, alla, volta. Parlo molto di scrittura in aula quando leggiamo un racconto o un brano tratto da un’opera letteraria famosa e analizziamo spesso i meccanismi che muovono le storie (ma spiego anche come funziona l’intero processo editoriale: dal manoscritto allo scaffale della libreria). Poi si esercitano a inventare e scrivere storie; l’anno scorso, ad esempio, la mia classe (una seconda media di Gallarate) ha partecipato a una staffetta di scrittura creativa con altre scuole d’Italia: ciascuna classe scriveva un capitolo diverso fino a completare un’unica storia, che poi è stata stampata in un libretto e adesso ogni mio alunno ha la sua copia ricordo, e anche io.

Nell’Implosivo, per costruire il personaggio del mafioso latitante Carmine Stanga, ti sei ispirato a personaggi che ormai possiamo dire storici, oltre che famosi e famigerati. Anche nei romanzi precedenti avevi esplorato il tema della notorietà, ad esempio nella forma della mitomania senile del protagonista di Don Chisciotte in Sicilia e in quella sacrale e religiosa della santona di Vita, morte e miracoli. Volevi esplorare fin dall’inizio questo motivo letterario o sono le storie che ti ci stanno un po’ guidando da sole?

Sono le storie a portarmi dove poi finisco, anzi, più che le storie, sono i protagonisti. Non avevo pensato che un filo comune negli ultimi tre romanzi potesse essere rappresentato dal tema della notorietà, della buona o cattiva fama, e questa mi sembra un’osservazione interessante. Ho notato comunque che mi interessano gli outsider, mi interessa il contrasto che si viene a creare fra un individuo e la società nella quale è immerso. E neppure io so bene il perché di questa fissazione. Un saggio molto interessante al riguardo è L’Outsider di Colin Wilson, in Italia l’ha pubblicato Edizioni Atlantide.

Come ti anticipavo nel proporti questo dialogo, a me il tuo romanzo ha turbato: normalmente non amo le critiche moraliste alla letteratura, e non penso esista un male così grande da risultare irraccontabile, ma in certi momenti leggendoti ho pensato che stessi giocando davvero col fuoco. All’inizio ci si scorda quasi di che tipo di personaggio si sta parlando: la riscrittura di Robinson Crusoe, la descrizione degli spazi abitati dal latitante, l’amicizia con Ninnì e l’amore per Egle prevalgono su tutto, complice una scrittura da commedia che mi sembra tu abbia raffinato anche rispetto al Don Chisciotte. Però poi il ritorno alla realtà arriva, e la rievocazione del sequestro e omicidio di Giuseppe Di Matteo viene raccontato con una freddezza che contrasta non poco con il registro ironico usato in precedenza. Qual è l’effetto che volevi creare nel lettore? Di contro, com’è stato, da scrittore, alternare umorismo e dramma nel mettere in scena un personaggio così controverso?

Per non annoiarmi, a ogni nuova storia cerco di alzare l’asticella della difficoltà. Nel caso de L’implosivo era quella di scrivere pagine che fossero allo stesso tempo “fero e piuma” e di spiazzare il lettore; un ottimo recensore (in quanto ottimo lettore) ha trovato per il mio libro una descrizione perfetta: “romanzo trabocchetto”. Da lettori finiamo a fare il tifo per qualsiasi personaggio protagonista, soprattutto se è anche un narratore in prima persona, e anche con Carmine Stanga succede: ci si immedesima perché è nei guai e deve tirarsene fuori e a ciascuno di noi tocca fare lo stesso nella vita di tutti i giorni, chiaro e semplice. Ma come fa letteralmente Stanga nella storia, anche io qui e là nel romanzo ho piazzato delle metaforiche tagliole: sono i ricordi e le considerazioni che riguardano il protagonista in quanto feroce boss mafioso. Il lettore dovrebbe chiedersi: quanto sono belve, questi mafiosi, e quanto esseri umani? dove termina l’umanità e inizia la ferinità? ma termina realmente questa umanità? Non si scrive per fare le coccole ai lettori.

Un po’ come a Sciascia, visto che hai scritto di mafia anche a te tocca fare il mafiologo, e ti faccio una domanda difficile. La mafia che racconti, quanto ancora è presente e quanto invece è Storia? Noi siamo cresciuti, direttamente o indirettamente, col ricordo della violenza degli anni Novanta. Secondo te quanto di quella stagione rimane e quanto invece è rimosso, al netto di ricorrenze e celebrazioni simboliche, dalla coscienza storica recente? Insomma, quanto siamo ancora consapevoli di essere usciti solo di recente da un periodo sanguinoso?

Uno dei miei ricordi da bambino è l’omicidio del maresciallo Guazzelli nel 1992, poco più di un mese prima della strage di Capaci, avvenuto a pochi metri da quella che era casa mia. Avevo sei anni, tornavo da scuola con mio padre e ricordo la folla intorno al punto esatto dell’agguato, ricordo lo sconcerto degli adulti, ricordo un elicottero che gira e rigira su un casolare di fronte alla mia palazzina. Qualche anno dopo, mio nonno ha avuto un incidente stradale, la sua auto è finita da uno sfasciacarrozze che fungeva anche da deposito e lì ho visto proprio la macchina del maresciallo crivellata dai proiettili (sono sicuro fosse di Guazzelli, ma potrebbe anche essere un falso ricordo e trattarsi di un altro agguato mafioso). Ovviamente mi colpì molto sfiorare quella carcassa, tanto che lo ricordo ancora oggi. Quel sangue rimane nella memoria di chi c’era e viene ancora oggi narrato a chi non c’era ancora e, voglio essere fiducioso, continua ancora oggi a turbare. Anche il mafioso, come lo scrittore e come la spia, deve aver capito che era meglio stare lontano dai riflettori, dal centro della scena, per poter continuare indisturbato la propria attività. Il protagonista del mio romanzo è liberamente modellato su vari mammasantissima della mafia, ma soprattutto su Bernardo Provenzano, colui che ha avviato il processo di immersione dell’associazione a delinquere siciliana. Episodi di violenza costellano ancora lo snodarsi della mafia, ma spesso sono semplici regolamenti di conti, non gli eclatanti “attacchi allo Stato” degli anni ’90. A margine, va detto inoltre che potere costituito e mafia hanno sempre avuto dei confini incerti fra loro. Oggi la mafia c’è, è un’Idra privata di tante teste grosse ma altre teste più piccole compaiono, è sicuramente meno folcloristica e si confonde con molte altre forme aberranti di capitalismo.

E la letteratura cosa può fare, per mantenere viva quantomeno la memoria di quel periodo? Mi pare che piano piano tu abbia trovato una tua modalità, con una geografia meridionale reimmaginata per anagramma – Garogenti in luogo di Agrigento ma anche la Retolo/Loreto in Vita, morte e miracoli -, e del resto ti è sempre piaciuto immaginare mondi paralleli ben prima che il concetto di multiverso entrasse nell’immaginario mainstream; ricordo la tua rubrica Roberto Mandracchia nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui immaginavi di volta in volta un te stesso alternativo. A questo proposito ti chiederei dove collocheresti i tuoi romanzi: in questo giocare con ucronie ed eterotopie, verso quali modelli ti senti più debitore? Verso il Camilleri che inventa Vigata, nel filone del gotico meridionale, o vai più in direzione del racconto realista-magico della Storia della Sicilia, con l’idea che sia una Storia altra di per sé?

La letteratura fa quello che ha sempre fatto: mentire per cercare di raccontare al meglio le verità. Tutto qui, e non è certo poco. Nei miei romanzi ho sempre anagrammato i nomi dei luoghi reali perché in fondo la descrizione che ne faccio è una mia versione, nelle quale sposto, quindi anagrammo, gli elementi per i miei fini. Non scrivo guide turistiche, mi hanno chiesto un paio di volte in questi ultimi anni di scrivere libri sui luoghi interessanti di Agrigento, ma ho sempre declinato, al momento non mi interessa. Sono debitore a luoghi come la Montelusa di Pirandello, la Regalpetra di Sciascia, la Vigàta di Camilleri, ma anche la contea di Yoknapatawpha di Faulkner, la Maycomb di Harper Lee, la Santa María di Onetti e la Macondo di García Márquez. Luoghi trasfigurati dalla memoria e dall’ingegno di chi scrive e che provano a scavalcare una precisa collocazione geografica diventando stati della mente, specchi in cui chiunque potrebbe rivedersi.

Hai già riscritto Don Chisciotte e Robinson Crusoe, che qualche critico, a partire da Ian Watt, ha collocato insieme a Don Giovanni e Faust tra i personaggi fondativi dell’individualismo moderno. Hai intenzione di concludere una trilogia in salsa siciliana o c’è tutt’altro progetto da parte? Sarà comunque una commedia o prima o poi tornerai ai toni torbidi di Guida pratica?
Un mio amico, il mio ex agente letterario e l’attuale fondatore della casa editrice Timeo, mi ripete da anni che dovrei scrivere un romanzo intitolato I fratelli Caramazza e prima o poi potrei farmi tentare dalla boutade. Intanto, ho appena finito di scrivere, per una futura antologia, un racconto breve di genere giallo/noir ambientato in Sicilia solo perché rientrava nella commissione. Per quanto riguarda il prossimo romanzo, vorrei staccarmi dalla mia isola, ho un’idea che si aggira da un bel po’ dentro la mia testa, ho letto molte fiabe e molti saggi sulla fiaba e dentro il taccuino ho una marea di appunti spesso slegati fra loro. Vedremo. Sicuramente sarà, come sempre e come la vita, una tragicommedia.

Condividi:
Leave a Comment

Comments

No comments yet. Why don’t you start the discussion?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *