Nel 1942, Walter Benjamin in Tesi di filosofia della storia descriveva l’opera di Paul Klee Angelus Novus come un angelo con gli occhi spalancati che non vede davanti a sé un susseguirsi di eventi, ma una catastrofe; era l’angelo della storia, travolto da una tempesta che “lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle”. Questa idea di futuro non sembra tanto lontana da quello che molte comunità nel mondo sperimentano quando si trovano a dover confrontare la loro identità con le aspettative della cultura occidentale. In particolare, quando parliamo del confronto tra un supposto occidente e un oriente, negli ultimi decenni, si è spesso evidenziato il grande gap temporale che separa i due “emisferi verticali” del mondo: da una parte la vecchia Europa e gli Stati Uniti, dall’altra l’Asia e il suo futuribile presente.

Si tratta di una dialettica strettamente legata alla tecnologia e all’innovazione; l’idea è: dove c’è tecnologia, c’è futuro. L’identità del futuro, attualmente, è talmente abbarbicata a queste popolazioni da impedire, in certi casi, di pensare di avere un’alternativa nel presente. In quale tempo mi trovo? In quale tempo vorrei essere? La collocazione del nostro io, collettivo o individuale, in uno spazio e in un tempo altro, è il risultato della ricerca di un tempo che verrà in cui le condizioni di vita siano diverse rispetto alle prospettive che offre la realtà ora, in cui non sia necessario rivendicare un glorioso passato per poter essere finalmente ammessi ai piani alti della storia, in cui si possa abitare un immaginario fantastico, ancora meglio, fantascientifico.

La relazione tra i futurismi indigeni (Indigenous Futurisms) e la fantascienza è proprio questa: immaginare futuri possibili attraverso canali e identità che, dalla prospettiva occidentalizzante, sono considerati esotici, secondari, non determinanti. Indigenous Futurisms è un termine coniato da Grace Dillon, critica Anishinaabe e docente della Portland State University che, nel 2012, pubblica Walking the Clouds. An Anthology of Indigenous Science Fiction, una raccolta di letteratura fantascientifica prodotta da scrittori contemporanei nativi del Nord America, dei Caraibi e dell’Australia. Non è casuale che il termine sia caratterizzato al plurale: “Indigenous Futurisms, in the plural, was a choice that I made after 2012. Until then I was calling it “Indigenous Futurism.” The choice reflects the richness of Indigenous communities globally. I based it on the process and legal struggles that led to the United Nations Declaration on the Rights of Indigenous Peoples, with an s. It took about three decades of struggle to get that letter s in there. The reason that it’s so important is because our nations can cross borders of what are perceived as other nations.” Con questo termine l’autrice definisce il ruolo delle prospettive indigene che, attraverso l’arte e la letteratura, creano mondi e spazi abitabili oltre la percezione e la prospettiva storica dettata dalla “supremazia occidentale”, ridefinendo anche l’idea di confine, oltre il concetto di nazione tipico della storia degli stati europei e nord-americani. 

Quello stadio infantile della conoscenza proprio delle avanguardie novecentesche lascia lo spazio alla creazione di un immaginario in cui la narrazione di tipo occidentale è completamente esclusa, o quanto meno non determinante, dove ci si appropria della sfera  della tecnologia e di un futuro “prosteticamente migliorato”. Così lo definisce Mark Dery nel 1993 nel suo saggio-intervista Black to the future, dove dialoga con alcuni dei più importanti esponenti di quello che sarà da lui denominato Afrofuturismo, discutendo sui legami che esistono tra letteratura nera, tecnocultura degli anni 80, realismo magico e panafricanismo. Sebbene, infatti, Dery affermi che tendenze afrofuturiste esistano dagli esordi della fantascienza, lo studioso sente la necessità di stilare i punti salienti di questo movimento che utilizza la letteratura fantascientifica per contaminare l’arte, la musica, il teatro e la letteratura di temi che rappresentino una via di fuga e un esame dei problemi che gli afroamericani sperimentano nel mondo. Nonostante il suo contributo all’identità e alla definizione dell’Afrofuturismo, questa paternità risulta messa in discussione da alcuni teorici successivi, a dimostrazione del sentito problema di una definizione di sé e della propria attività all’interno di una comunità intellettuale. La stessa Dillon afferma, infatti, in un’intervista su e-flux journal, che, anche se Dery è stato accreditato come il coniatore del termine nel 1994 con l’opera Flame Wars: The Discourse of Cyberculture, è grazie ad Alondra Nelson, nel 2002, con il numero di Social Text sull’Afrofuturismo che si è iniziato a parlarne in modo definito. Il giudizio di Dillon è drastico e legittimo: “Once again, final credit was given to a white man […]. For my part, I start that discussion on Afrofuturism with Nelson; her collection is the first genuine piece of scholarship on Afrofuturism that brings in different African-American voices.”

Per quanto il termine futurismo possa portare con sé un’identità definita e (discutibilmente) indiscutibile, quanto teorizzato e messo in atto dagli Indigenous Futurisms e dall’Afrofuturismo non è una corsa affannata verso la glorificazione del progresso, del dinamismo e della velocità, né il termine deve portare a pensare che il futuro sia quell’obiettivo a cui i suoi artisti, critici e letterati agognano. Il futuro, attualmente, è l’ unica dimensione su cui poter agire, in una società che non permette di vivere e definire il presente come tale. Il problema era già stato sollevato negli anni Settanta da Edward Said nel famosissimo Orientalismo, saggio in cui si discuteva sulla tendenza dell’Europa a formare la propria identità attraverso il confronto e la svalutazione di un altro indefinito, collocato nella definizione “orientale”. Questa percezione rimane vivida anche negli studi di decenni successivi: lo studioso Naoki Sakai, ancora negli anni Novanta, precisava che l’oriente non esistesse nemmeno come unità culturale, linguistica o religiosa, il cui principio di esistenza si basava sull’essere altro da sé, per qualcuno di esterno – l’Europa. Nella consapevolezza di una definizione al di là di confini esternamente strutturati, l’Afrofuturismo si dimostra fluido non solo nella concezione dello spazio, ma anche del tempo, nel passaggio tra passato, presente e futuro: la scienza e la tecnologia si mescolano con la magia e il folklore, fondendo le proprie radici con una ricerca speculativa sul futuro. Ciò da cui questi movimenti prendono distanza è, infatti, una definizione imposta dall’esterno che nel passato si è realizzata nell’associazione a un essere “primitivo”, un umano primordiale. Pensando al colonialismo ottocentesco, e in particolare agli studi antropologici del tempo nell’India britannica, il caso è quello di un essere umano privato della sua dignità, messo letteralmente a nudo per il piacere o per l’interesse “scientifico e antropologico” dei coloni che lo consideravano come il residuo cristallizzato e inevoluto di un passato altrimenti inattingibile e comunque da correggere. 

In un enorme salto temporale, invece, il caso del Giappone tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del secolo scorso è emblematico: la nazione, in quel periodo, è percepita come un “satellite della Terra” per usare le parole di Jean Baudrillard in America. Il paese era arrivato a un’evoluzione tecnologica tale che aveva superato i confini della normalità percepita dagli stessi Stati Uniti; per questo motivo, secondo l’equazione per cui chi non è europeo o statunitense è altro, il Giappone non era considerato il nuovo centro del mondo, paradossalmente, proprio a causa dei suoi importanti progressi economici e tecnologici. A livello temporale questo decentralizzamento si è tradotto in un balzo in avanti che li ha portati lontani dal centro del tempo, cioè il presente. Se non è più possibile collocare queste popolazioni nel passato e non si vogliono collocare nell’oggi, l’unico tempo abitabile rimasto è il futuro, giustificando questo posizionamento forzato attraverso l’assunto: tecnologia = progresso.

Quello che si crea è sempre lo stesso prodotto: un’immagine esotica che presuppone un altro in quello che, per Cina e Giappone soprattutto, viene definito tecno-orientalismo. Il problema di percezione, infatti, non riguarda soltanto l’ente definente esterno, ma è un’identità che viene incollata, citando il contributo del sociologo ed etnologo Gabriele De Seta Il Sinofuturismo è il nuovo tecno-orientalismo?, alla popolazione cinese che inizia a credere di essere davvero parte del tempo futuro. Comunque vada, c’è un’interiorizzazione delle informazioni che provengono dall’esterno, utilizzate come se fossero una vera e propria parte identitaria, quando in realtà sono, principalmente, stereotipi. Questo tipo di immaginario si espande nella cultura globale, al punto da portare, afferma la critica Dawn Chan su Artforum, ad esempio nella produzione cinematografica, a vedere un nutrito numero di attori asiatici come personaggi (quasi mai protagonisti) localizzati sempre nel futuro, oppure in una dimensione altra. 

L’immaginario orientato al futuro, dunque, è un’alterità con cui si creano possibili scenari perché il futuro si trova in quella che De Seta ha definito la “periferia della temporalità occidentale”. Che i futurismi contemporanei si sviluppino in zone considerate marginali dalla visione eurocentrica non è un caso: la civiltà si innalza dove c’è posto per poter costruire e quello spazio, attualmente, non è il presente, così come non è, ancora di più, il passato. Immaginiamo una città che si costruisce attorno a un nucleo storico: c’è un agglomerato originale, il passato, che non si può e non si vuole toccare, cambiare o reinterpretare e c’è poi uno spazio che si allontana sempre di più da questo centro, e che muta costantemente. Questa logica non è solo metaforica. Nel suo articolo De Seta espone i problemi e i caratteri del Sinofuturismo, quel repertorio culturale proveniente dalla Cina che “dalla tessitura di stuoie di bambù converge con la produzione di videogiochi”. L’ipervelocità e il consumismo tecnologico si mescolano con la tradizione filosofica cinese, la cibernetica e il passato della Cina antica. Come entità estremamente complessa e stratificata, il Sinofuturismo è alimentato da due spinte: attraverso la prima tenta di sfuggire alle maglie del controllo statale, ma allo stesso tempo è frutto dei successi della Cina in ambito tecnologico e non sente di far riferimento a un passato di deportazione, depauperamento della cultura da parte di un invasore esterno corrispondente a quello che ha reso possibile gli Indigenous Futurisms; inoltre, il termine stesso non sembra essere nato all’interno della cultura cinese, come invece accade per i futurismi indigeni secondo Dillon. Entrambi i futurismi hanno la qualità di percepire il tempo come un fluire e un intrecciarsi di passato presente e futuro, ma gestiscono diversamente il loro approccio con il divenire in potenza perché partono da presupposti diversi. Per gli Indigenous Futurisms la sola fantascienza (e non la tecnologia e l’innovazione del presente) è stata per i primi tempi un canale importantissimo di comunicazione e una via di fuga dalla contemporaneità, seguendo la linea inaugurata dall’Afrofuturismo, mentre sia l’esistenza del termine Sinofuturismo, sia i suoi presupposti non emergono da simili necessità, ma hanno abbracciato in certi casi le logiche del tecno-orientalismo che lo descriveva come prodotto di un paese iper-avanzato.

Sinofuturism (1839 – 2046 AD), Lawrence Lek, 2016

De Seta arriva ad affermare che, forse, l’unico punto in comune con gli altri futurismi, è il riferimento al futuro. È grazie a Lawrence Lek, infatti, artista multimediale di origine tedesca, con il video saggio Sinofuturism (1839-2046 AD) che il termine ha iniziato a indicare una specifica categoria culturale e artistica, “an invisible movement, a spectre already embedded into a trillion industrial products, a billion individuals, and a million veiled narratives.” L’opera di Lek si sviluppa in sette punti chiave che alimentano le due visioni della Cina, da un punto di vista interno ed esterno: l’idea dell’esotico orientalista si fonde con quella di un paese eroico, unito e stabile utilizzando fantascienza, melodramma, realismo sociale. Per riprendere quanto affermato dalla curatrice e storica dell’arte Xin Wang su e-flux journal in Asian Futurism and the non-Other, non è paradossale, né illegittimo, considerare le radici ideologiche di questo tipo di futurismo basate sul tecno-orientalismo, a patto che non si definisca e non si stabilisca come un sistema incontestabile. Quanto realizzato da Lek nel 2016, un “manifesto retroattivo” del movimento, sembra rispondere a tutte queste esigenze; lo dice anche l’introduzione al video saggio: “not based on individuals, but on multiple overlapping flows. […] Because Sinofuturism has raisen without conscious intentions of authorship, it is often mistaken for contemporary China. But it is not. It’s a science fiction that already exists.” 

Ma la fantascienza che tipo di prodotto è? Da questo punto di vista, l’idea di alterità futuribili ha portato a percepire che la tecnologia e il progresso fossero meri strumenti positivi (o al massimo neutrali) di un panorama culturale e pseudoantropologico malato. In realtà la scienza presenta una doppia faccia: da un lato è certamente guardata attraverso la lente dei suoi usi decoloniali, mescolandosi con la narrativa e producendo nuovi immaginari; dall’altro, è ancora evidente il ruolo coloniale dei suoi strumenti che impediscono, contemporaneamente, la creatività e la sovranità indigene. Lo dice Baudrillard nel 1986, quando afferma che il Giappone è un satellite del pianeta Terra: le zone che non sono “noi” vivono già in un tempo altro, escluse dal presente, costantemente impegnate nel miglioramento di se stesse, al punto quasi da non rendersi conto di essersi staccate dalla realtà. 

AbTeC Gallery | Reformatted Vernissage, 2020

Gli Indigenous Futurisms, al contrario, nella loro volontà di ritagliarsi uno spazio autonomo per la riflessione personale, indagano anche il lato oscuro della tecnologia, popolato di questioni legate alla crisi climatica e alle applicazioni tecnologiche in campo militare. L’AbTeC (Aboriginal Territories in Cyberspace) è uno studio d’artista che cerca di garantire la presenza indigena nelle pagine web, negli ambienti online, nei videogiochi che compongono il cyberspazio. I due fondatori Jason Edward Lewis e Skawennati sentivano che i nativi americani avessero bisogno di un luogo da chiamare casa in modo autodeterminato. Le opere esposte presso AbTeC utilizzano la tecnologia come mezzo di espressione, non ne evidenziano necessariamente le capacità di progresso e avanzamento. Da parte dei futurismi contemporanei, infatti, non c’è la volontà di riformare l’universo, di ricrearlo integralmente attraverso la produzione artistica, letteraria o musicale, quanto alimentare quella durata bergsoniana che fonda passato, presente e futuro, correggendone allo stesso tempo le coordinate. Se per Bergson, alla fine dell’Ottocento, la materia e la memoria – sorella della durata – sono due elementi opposti e complementari, dove la materia è il blocco della vita, mentre la memoria è lo slancio vitale in atto, nei futurismi contemporanei, in particolare negli Indigenous Futurisms, spazio e tempo, materia e memoria, fluiscono insieme, per creare una pluralità d’intenti dove scienza e non scienza possono collaborare e superare, nelle parole di Grace Dillon, il “binarismo tra scienza occidentale e scienza indigena non occidentale”. Questo focus sulla scienza è ulteriormente confermato nell’intervista a Dillon dalle parole dell’intervistatrice Isadora Neves Marques: “But Indigenous Futurisms introduce, to my mind, a rupture not only in the conceptualization of time but also within the very topic of science fiction itself. It’s science fiction, not future fiction. It’s about the science, first and foremost.”

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