Per la mia mente viaggia solitaria l’immagine di un uomo che assomiglia a papà, un busto di carne seduto nella cabina di un camion col muso schiacciato. Mio padre non stringe mai il volante, lo tiene tra l’indice e il pollice così come quando si gioca a tenere in equilibrio una matita facendola dondolare. Non lo afferra neppure quando davanti a sé si accende una foresta di luci rosse, di macchine che si appiccicano una al culo delle altre, nemmeno quando due carcasse metalliche si fondono in un corpo solo.
«Lo sai perché hanno paura dei camion, bambina?».
«Perché ti possono schiacciare?».
«No, perché alla gente non piace sentirsi piccola», mi dice un giorno quando torna a casa col camion pieno di sangue che non ha fatto in tempo a riportare al macello.
Non sono i soliti tre giorni, ma settimane vuote da riempire mentre lui è in Romania. Va a trovare nonna, solo. Mamma rimane a casa con me, e io con lei.
La bambina ha scuola, non possiamo trascinarla in giro come un pacco, gli aveva detto qualche settimana prima di partire, mentre incastrava in un borsone tra i pacchi di caffè delle tavolette di cioccolata.
A me non chiedono mai se voglio andare in Romania, ho dieci anni e non ho voce nella diarchia di questa casa. Mia madre, invece, intavola monologhi a dieci portate sul perché non può spostarsi, e dunque vedere nonna. Io e papà non fiatiamo, lasciamo che il sottinteso si posi tra di noi, come in un ballo dove le mani non si toccano, ma che fa comunque girare tutti in cerchio.
Mamma dice che non può andare in Romania, ma è in questa casa che è assente. La sua sveglia suona alle quattro e mezza e torna nel pomeriggio tardi, mentre sto guardando i cartoni. Non mi chiede se ho fatto i compiti, mi bacia al centro della testa e mi da due colpetti sulla schiena, lì dove le scapole si guardano.
«Tirati su bene, che poi cresci come una pianta di fagioli».
«E poi ti serve il bastone», le faccio il verso io.
Anche se gli angoli della bocca fanno fatica a sollevarsi, mamma mi sorride, mi da un altro bacio sbrigativo.
Ho dieci anni e la vicina di casa mi viene a prendere a scuola. I miei compagni mi chiedono se è nonna, ma la Signora Rosa condivide con noi solo il pianerottolo. Torno in una casa vuota, la pasta in frigo dalla sera prima da scaldare in microonde, me lo ricorda il bigliettino che mamma ha attaccato al frigo. La Signora mi chiede se ho bisogno di qualcosa, ma io non ho mai bisogno di niente. Lei allora scompare, va di fretta da questa sua amica che incontra ogni pomeriggio, forse antipatica tanto quanto lei, che non entra mai in casa nostra.
Alle tredici e un quarto squilla preciso il telefono in corridoio. Una, due, cinque volte, restituisce all’appartamento una voce. Appoggio ai piedi del divano la ciotola con la pasta incollata e gelata. Non uso più il microonde da quando Roberto, il bambino biondo che siede davanti a me in classe, mi ha spiegato che può scoppiare da un momento all’altro, quell’aggeggio. Mi ha gridato BOOM! sputacchiando sul quaderno di matematica e imitando con le mani un fiore che sboccia.
«Così muori e tutte le tue budella si appiccicano ai muri della cucina!».
Ho dieci anni e ogni sera prima di andare a dormire mamma prega sottovoce Dio, gli chiede di proteggermi, poi mi chiama vicino al suo letto e mi fa ripetere Dio proteggimi, e a mente, da un paio di settimane, aggiungo dal microonde. Mi affascina la sua capacità di ricordarsi ogni sera le stesse frasi, che pronuncia mentre sta avvolta nel piumone bianco con le mani unite sui seni.
Roberto aveva poi continuato a fare movimenti convulsi con le dita, agitandole verso l’alto accompagnando la danza da grugniti e sputacchi. Sembrano le radiazioni di cui mamma mi ha raccontato, di quella volta che per settimane dall’orto non hanno potuto mangiare la frutta e la verdura piantate dai nonni.
«Come a Černóbyl?».
«Si dice Čérnobyl! Ignorante!».
Mamma mi chiama ogni giorno alle tredici e un quarto precise.
«Hai mangiato?».
«Sì, stavo finendo adesso».
«Ricordati di sparecchiare la tavola».
«Sì, mamma».
«E se hai bisogno di qualcosa, chiedi alla Signora Rosa».
Abbasso la cornetta e torno in salotto. Ai piedi del divano mi guarda la pasta abbandonata. Mi lancio sui cuscini ben ordinati per altezza facendo cigolare tutto il mobile. Alla televisione non sono ancora iniziati i cartoni, ma lascio lo stesso acceso sulle notizie di calcio, abbasso il volume quasi al minimo per non farmi sentire.
Papà torna dopo due settimane dalla Romania. Ho dieci anni e non distinguo il suo essere assente sul camion dall’ essere a casa di nonna a quasi duemila chilometri da noi. Ogni sera chiama dopo cena, così come quando è al lavoro, mamma è già a letto e si strofina sulle mani rovinate abbondanti strati traslucidi di crema.
«Ciao papà!».
«Dì ciao anche alla nonna che è qui con me».
Non fiato e corro in camera a nascondermi dietro la porta, col naso appiccicato ai disegni belli. Sono quelli che faccio la sera, dopo che mamma è andata a dormire, quando posso accendere la piccola lampada rossa sulla scrivania e stare sveglia la notte come papà. A volte escono brutti, perché lei viene a controllare quando sente rumori, e a me, poi tocca buttare via tutto prima che mi scopra ancora alzata.
Papà torna comunque e nonostante, e mi porta un libro. La copertina è ingiallita ed alcune pagine si sono staccate, mi avverte prima ancora di porgermelo in mano. Mi dice che è uno dei suoi scrittori preferiti, mi pianta addosso gli occhi severi di chi non conosce a sufficienza la cura ma la cerca negli altri. Provo a leggere il nome, ma le lettere mi rimangono incastrate tra i denti come lattuga.
«Senc…senke… sken…».
«Si legge Sien-kie-wicz. Ripeti».
Io ripeto tutto quello che papà mi chiede di ripetere, finché non mi dice brava.
«È questo signore con il pizzetto», mi indica il profilo dell’uomo sulla parte sinistra della copertina.
«E questa?».
Papà mi spiega della maestosa colonna costellata di minuscole figurine schiacciate una sopra l’altra, come le macchine in autostrada. Mio padre nomina lo sconosciuto, addomestica il vago delle immagini e me le restituisce cristalline sotto due parole: popolo Romano.
«Noi, però, siamo Daci, ricordatelo. Vedi come sono fatte le nostre orecchie? Sono i conquistatori ad aver contaminato il nostro sangue con i loro lobi attaccati».
Subito metto le mani sulle orecchie preoccupata, lì dove cade il piccolo orecchino d’oro, c’è uno spazio di salvezza.
«Che significa quo vadis, papà?».
«Dove vai?».
Ascolto papà che mi racconta dei Romani perso con lo sguardo nel vuoto, ma non trattengo nessuna nozione, ho dieci anni e mi basta che lui mi parli, mi mostri quello che gli piace. Il suo passato mi arriva a frammenti, papà l’esperto di telecomunicazioni militari, papà il macchinista sulle petroliere, papà l’immigrato che dorme su una panchina fuori dalla stazione di Roma Termini, papà il traslocatore di appartamenti di ricchi romanacci, gli eredi di quel popolo che ha finito per servire come i suoi antenati.
Papà mi lascia Quo Vadis, lo tengo sul comodino, non so leggerlo, è un’editura pentru literatură universală, edizione per la letteratura universale. La sera smetto di colorare e uso la lampada rossa per illuminarlo e sfogliarlo, ma le parole hanno lettere con i cappelli e le code, a scuola non mi insegnano come si legge la lingua di mamma e papà.
Ma io voglio sapere che cos’ha di speciale quella storia. Quando ripeto due o tre volte, scandendo come papà mi aveva insegnato, il titolo del libro, la bibliotecaria mi guarda stranita. Mi ignora come se avessi parlato una lingua a lei sconosciuta, ma io rimango immobile come la colonna sulla copertina del libro di papà davanti al bancone.
Se cerchi i Battelli a Vapore, sono su quello scaffale. Per la tua età vanno benissimo quelli con il dorso arancio», mi indica spazientita.
Cerco tra i titoli l’uomo col pizzetto, ma non c’è modo di trovarlo, si nasconde.
Mamma si affaccia sulla porta della biblioteca e mi intima a sbrigarmi.
«Non farmi urlare», sibila tra i denti.
Quando torno a casa, lì, sul comodino, il vecchio mi osserva serio. Lo cerco dove tutte le storie hanno un antenato comune, il libro di scuola, e sfoglio le pagine ancora intonse fino a che, in fondo, non trovo i capitoli sul popolo Romano. Lo sguardo si incastra in una fitta ragnatela di strade. Appoggio la punta dell’indice su Roma e percorro con delicatezza l’intera penisola, il prato verde che rappresenta l’Europa, lì fino all’est rimane una parola solitaria, Dacia. Quo vadis, dove vai, ripeto le parole come un incantesimo segreto. Voglio sapere dove va mio padre.