In una Medusa di qualche mese fa, Matteo De Giuli ha scritto: “Ursula K. Le Guin costruiva mondi paralleli come specchi deformanti, strumenti per mettere alla prova, per quanto possibile, le crepe del presente. Con la meticolosità di un’ingegnera e la curiosità di un’antropologa, approcciava la realtà come fosse un congegno da smontare e poi rimontare, sostituendo qua e là una rotella, una vite o un ingranaggio”. La scrittura di Le Guin era un esercizio di modificazione di piccoli pezzetti di realtà, una variazione su un tema già scritto, portata alle estreme conseguenze armoniche e melodiche.

Lo scorso maggio sono stati tradotti in Italia due romanzi che analizzano, deformandolo, il nostro rapporto con il sesso: Estasi americana, l’ultimo romanzo di CJ Leede, scrittrice di Los Angeles vincitrice di molti premi per la letteratura di genere e pubblicata in Italia da Mercurio con la traduzione di Gaja Cenciarelli, e Vanishing World, un romanzo della scrittrice giapponese Murata Sayaka tradotto da Anna Specchio e pubblicato in Italia da e/o. Si tratta di due opere che usano la distopia proprio come quello specchio deformante attraverso cui psicanalizzare il presente, immagine a cui De Giuli collega la poetica della scrittrice statunitense, metafora chiave per spiegare programmaticamente le distopie che oggi influenzano il nostro immaginario.

Nel mondo in cui si svolge la storia di Estasi americana, la mutazione di un virus SARS trasforma le persone contagiate in zombie aggressivi e perversi, il cui unico istinto irrefrenabile è violentare e uccidere, non necessariamente in quest’ordine, chiunque incontrano, per poi morire a loro volta dopo pochi giorni. La protagonista, Sophie Allen, è una sedicenne cresciuta nel Midwest, in una famiglia cristiana radicale e educata in un istituto gestito da suore, dove ogni esperienza fisica e erotica è un tabù, dove certe letture sono proibite e l’educazione sentimentale tra coetanei ricorda quella del giovane Törless raccontata da Robert Musil.

In casa viveva anche il fratello Noah, a cui Sophie è molto legata, spedito qualche anno prima in un riformatorio cattolico dopo che i genitori avevano scoperto la sua omosessualità tramite i giornaletti che nascondeva sotto il letto. Sophie, che in casa non ha televisione né internet, è tenuta all’oscuro della diffusione del virus dai genitori: scoprirà l’esistenza della malattia quando, ormai sfuggita a ogni forma di controllo sanitario, si diffonderà nella sua città e colpirà i genitori stessi, che la ragazza, al rientro da scuola, trova nudi sul divano di casa mentre fanno sesso: la versione distopica di un qualsiasi momento di scoperta di una persona adolescente. A quel punto i genitori, nudi, occhi iniettati di sangue e bava alla bocca, tenteranno di ucciderla, ma ci riuscirà lei per prima.

Sophie, in fuga da una casa divenuta mostruosa, inizia un percorso di soggettivazione in cui la scoperta del desiderio coincide con la fine del mondo. La sua educazione sentimentale si compie sullo sfondo di una società che si decompone, e proprio in quella decomposizione trova la possibilità di un riscatto sensuale.

Rimasta sola, Sophie inizierà il suo percorso di formazione, in cui dovrà affrontare i pericoli di una società al collasso e senza regole in compagnia di Maro, un poliziotto coraggioso e spericolato appena maggiorenne (di cui si innamora), della sua collega risoluta Cleo (di cui è gelosa), dei coetanei Ben e Helen (un ragazzo nerd di cui Sophie si innamora e una ragazza bella e sicura di sé di cui è gelosa), Wyatt, un bambino rimasto orfano incontrato in un hub per la vaccinazione sperimentale, e Barghest, un cane enorme e aggressivo che la salva più volte sbranando i nemici, trovato per caso a difendere il cadavere del vecchio padrone in una casa ormai abbandonata, quindi ammaestrato e trasformato in suo fido compagno con la più tipica forza dell’amore.

La formazione di Sophie consiste nella progressiva scoperta della sessualità, nella normalizzazione dei tabù sul corpo – estremizzati e spesso poco credibili, come quando Sophie è terrorizzata dall’essere sfiorata sul braccio ferito dal poliziotto Maro – e nella scoperta, lenta e pedante, del piacere erotico libero da condizionamenti.

Dopo aver affrontato le peripezie tipiche di gran parte delle storie di formazione a carattere avventuroso del masscult occidentale contemporaneo (incontri, scoperte, lutti, nuove amicizie e amori, risemantizzazione dei sentimenti), Sophie prosegue il suo viaggio nel mondo con uno sguardo adulto, finalmente consapevole di sé e del proprio corpo. Cercherà per tutto il viaggio di ricongiungersi con Noah, nella speranza che il fratello sia scampato al contagio, e alla fine troverà alcuni biglietti che testimoniano che vivo e si è finalmente innamorato di un ragazzo. La realtà non si ricompone: il virus non viene sconfitto, anzi probabilmente dilagherà fino a uccidere ogni essere umano; la protagonista, nel frattempo, può finalmente fare sesso con il suo nuovo amore (Ben, perché Maro muore da eroe) quando saranno nel loro prossimo rifugio.

In Vanishing World, strutturato in tre parti, Murata racconta le conseguenze di un cambiamento radicale nei costumi sociali, inserendosi nelle pieghe di ciò che resta mentre il mondo cambia. Vanishing World si muove in uno spazio apparentemente ordinato, sterilizzato, dove la catastrofe non ha la forma dell’esplosione, ma della normalizzazione. È una distopia asettica, amministrativa, burocratica, in cui ogni impulso viene regolato e disattivato.

Amane è l’ultima persona vivente concepita tramite un rapporto sessuale: tutte le inseminazioni, nel nuovo mondo, avvengono artificialmente, di solito quando le donne raggiungono i 28 anni. Fare sesso tra coniugi è considerato incesto; le relazioni romantiche sono ammesse soltanto fuori dal matrimonio, anche più di una contemporaneamente; l’uso degli anticoncezionali – sia femminili che maschili – è obbligatorio per legge a partire dai sedici anni e, in generale, fare sesso è una pratica che interessa ormai a poche persone. Qualcuno potrebbe già pensare di star leggendo un trattato sul migliore dei mondi possibili.

Amane si vergogna dell’anomalia del suo concepimento e ha, per questo, un rapporto conflittuale con sua madre, considerata il seme di una nascita impura e oscena. Tuttavia, la protagonista, al contrario dei suoi coetanei, prova fin da piccola una strana fascinazione per l’atto sessuale, anche se nelle fasi iniziali della scoperta di sé trova soddisfazione erotica soltanto nell’immaginare rapporti con personaggi di manga e anime. La masturbazione, ciò che lei chiama sesso con i suoi fidanzati “del Mondo dell’Aldilà”, è il principale sfogo delle sue pulsioni erotiche.

Paradossalmente e con affanno Amane esplora i rapporti fisici tra esseri umani, spesso trasferendo il piacere concreto in scenari di finzione, come quando scopre che anche il suo amico Mizuuchi è attratto da Lapis, uno dei personaggi animati che più li eccita: il sesso tra i due si trasfigura un rapporto di entrambi con Lapis, un atto di donazione dei propri corpi a lui. Se Sophie si forma nel trauma della sovraesposizione, Amane cresce nell’anestesia collettiva: la sua anomalia non è l’eccesso, ma il residuo. È il corpo che ancora desidera in un mondo che ha espulso il sesso come funzione obsoleta.

Diventata adulta, dopo un primo matrimonio fallito perché il marito aveva provato a baciarla (incesto!), Amane si sposa con Saku, un coetaneo incontrato a una sorta di evento speed date per mettere su famiglia. In questo romanzo, l’idea di famiglia di sangue normalmente intesa è allargata ai coniugi, per cui si prova un affetto incondizionato e primordiale. Amane vive altre relazioni, alcune con persone dell’Aldilà, altre con persone dell’Aldiquà. Anche Saku frequenta una serie di fidanzate, con relazioni che lo portano a soffrire molto e a deprimersi: è Amane stessa che lo consola quando rientra a casa e lo trova ubriaco in lacrime sul divano – anche in questa distopia gli uomini che soffrono per amore sono patetici. Per chiunque, raggiunti i 28 anni, arriva il momento dell’inseminazione artificiale, Amane e Saku sono già in ritardo ma sognano di essere felici e costruire un nucleo familiare solido. Sentono che avere relazioni extraconiugali è solo fonte di sofferenza e vogliono attuare una forma di restaurazione aggiornata della famiglia tradizionale.

Nella terza parte del romanzo, quindi, i due decidono di trasferirsi a Chiba, una “città sperimentale” ad accesso controllato in cui viene testato un modello di società radicale: il concetto di famiglia nucleare è abolito; vivere insieme tra coniugi è reato; il sesso è totalmente rimosso (la masturbazione è consentita in delle pseudo cabine usate quasi esclusivamente per liberare il proprio corpo dai bisogni fisiologici, senza la ricerca del piacere).

Sia gli uomini che le donne, selezionati una volta l’anno tramite estrazione, hanno il compito di portare avanti delle gestazioni (agli uomini viene innestata una specie di sacca extrauterina collegata alla parte bassa dell’intestino, ma le gravidanze non hanno mai successo); i bambini, detti kodomo-chan, vengono subito strappati al genitore e crescono allevati dall’intera comunità in una sorta di rete di cura totalizzante: tutti gli adulti, indipendentemente dall’età e dal genere, sono chiamati “Mamma” e hanno il dovere morale di dedicare tutto il proprio tempo libero alla crescita dei piccoli. Sia Amane che Saku sono selezionati per diventare “Mamme”, lei perde il bambino, lui è il primo uomo a riuscire a portare a termine una gravidanza. Perso il figlio e desiderosa di crearsi una propria famiglia, Amane prova ormai repulsione per quella città e per la nuova società che si sta sperimentando. I bambini hanno tutti gli stessi vestiti, lo stesso taglio di capelli, persino le stesse espressioni. Il tono di Murata è minimale, quasi clinico, e proprio per questo ancora più perturbante: l’orrore non viene gridato, ma sussurrato tra le pieghe di una frase apparentemente neutra.

Amane, in questa società, è ormai una cellula tumorale, un organismo avulso dal contesto e dannoso per la sua sopravvivenza. Di fronte al bivio se andare via o adattarsi, decide di rimanere. La madre va a trovarla per cercare di convincerla a fare il contrario, ma Amane la colpisce alla testa e la tiene imprigionata nel suo appartamento, trasformandola in una bestia in cattività.

Nella scena finale, qualche tempo dopo, Amane incontra un ragazzo adolescente, potenzialmente il figlio di chiunque. Entrati nel suo appartamento, Amane ha con lui un rapporto sessuale: “Sulle lenzuola bianche, io ho creato il sesso. Non avevo altra scelta. Avevo scordato come si faceva alla vecchia maniera, perché era già scomparso dal mio corpo. Ho cercato di assecondare la voce che proveniva dal mio interno, come ero solita fare tempo addietro, ma mi sono presto arresa. Non sentivo più alcuna voce. Conoscevo il da farsi, ma sentivo che il sesso era già stato espulso dal mio corpo. Forse io, o meglio, l’intero genere umano, aveva esaurito il sesso nel Mondo dell’Aldilà. Con il capo inclinato, ho cercato di incastrare dentro di me quell’affare simile all’esuvia di un serpente che penzolava tra le gambe del kodomo-chan, come se fosse il pezzo di un puzzle”. I due romanzi, diversissimi per stile e ambientazione, sono accomunati da una domanda essenziale: cosa resta del desiderio quando la società si disfa – o si perfeziona – fino a cancellarne le condizioni di possibilità?

Entrambe le autrici ambientano i loro racconti in futuri deformati eppure riconoscibili, che riflettono i rispettivi immaginari culturali. Estasi americana mette in scena, da un lato, l’America rurale e religiosa, caratterizzata dalla repressione dell’erotismo e da una violenza sistemica che esplode nella forma del contagio e della rivolta individuale. L’infezione che devasta la società è insieme fisica e simbolica: è un virus che trasforma l’affetto in ferocia, l’intimità in cannibalismo, il linguaggio in allucinazione. La fuga della protagonista è al tempo stesso un’esplorazione erotica e un processo di deprogrammazione. Il suo corpo, a lungo represso, si risveglia nel caos, e nel disfacimento generale trova paradossalmente una via di emancipazione.

Dall’altro lato, Vanishing World racconta il Giappone postindustriale, ordinato, asettico, in cui la distopia non si manifesta come collasso ma come anestesia dei sentimenti e controllo normativo delle emozioni e della sessualità. In questo Giappone del futuro prossimo – che è però già inscritto in molte tendenze del presente – ogni eccedenza è patologica. L’ordine si mantiene attraverso la standardizzazione, l’indifferenza, la negazione dell’individualità. Amane, la protagonista, è una sopravvissuta del desiderio: il suo corpo continua a produrre pulsioni, fantasie, slittamenti che il sistema considera anomalie. Non c’è censura esplicita, non ci sono punizioni: il controllo si esercita attraverso la norma. Il romanzo, scritto in uno stile sobrio e chirurgico, mette in discussione le basi affettive della convivenza: cosa succede a una società che rimuove la sessualità? Che neutralizza il desiderio in nome della sicurezza, dell’efficienza, dell’igiene emotiva? Semplicemente, scompare l’umano. In entrambi i casi, è la figura femminile a incarnare il punto di rottura: Sophie e Amane sono le protagoniste e insieme i sintomi di un mondo che crolla o evapora, e lo fanno attraverso il corpo, le sue pulsioni e le sue anomalie.

Ai poli opposti di una scrittura deformante stanno il possibile desiderabile e l’incubo prossimo. Queste due dimensioni si intrecciano con le trasformazioni materiali e simboliche delle nostre società: il controllo e la sorveglianza dei corpi, la loro medicalizzazione, la crisi del desiderio, la riorganizzazione dei legami affettivi e delle strutture familiari. Sophie e Amane abitano universi opposti, ma attraversano percorsi simili: la scoperta del corpo, l’inadeguatezza del mondo, la violenza della norma e l’insistenza ostinata di un desiderio che sopravvive anche nell’apocalisse. Le società postindustriali, come quella americana e giapponese, rappresentano due laboratori estremi di queste trasformazioni: la prima, attraversata da un’ideologia del successo, da una religiosità diffusa e da una cultura pop ipersessualizzata ma ancora moralista; la seconda, segnata dalla solitudine urbana, dall’iperfunzionalizzazione dei corpi e da un crescente distacco tra istinto e forma sociale. È proprio in questi contesti che le distopie contemporanee situano le loro narrazioni: non come mondi lontani, ma come variazioni patologiche del presente.

Nei due romanzi, la distopia non è solo uno scenario esterno, ma una condizione interna, iscritta nel corpo delle protagoniste e nei gesti minimi dell’intimità. Nonostante le differenze narrative, i due romanzi condividono un tema cruciale: il desiderio come resistenza. Se in Estasi americana, il corpo di Sophie è il campo di battaglia tra la repressione religiosa e la pulsione erotica, e la sessualità, prima demonizzata e poi mitizzata, diventa il simbolo di un’umanità che cerca di sopravvivere oltre l’autorità e la colpa, in Vanishing World, al contrario, il desiderio è clandestino, faticoso, quasi incomprensibile persino per chi lo prova. Amane si scopre deviata proprio perché continua a desiderare in un mondo che ha reso il desiderio un disfunzionamento. Il suo corpo non è violato da un agente esterno, ma eroso dal silenzio normativo che lo circonda. E tuttavia, anche in lei, la sessualità resiste, si trasforma, sopravvive come gesto di insubordinazione, come linguaggio altro che non può essere pienamente soppresso. La scena finale, disturbante e ambigua, è l’esito di questo conflitto: un atto senza piacere, un sesso residuale che diventa epitaffio della specie.

Le due autrici non costruiscono mondi per evadere dalla realtà, ma per scavare nella sua parte più rimossa. Leede spinge al parossismo i topoi del romanzo di formazione, li contamina con l’horror e con la cultura pop, e costruisce un’epopea della scoperta che, sotto la sua superficie sensazionalistica, è un’analisi della repressione religiosa e patriarcale del desiderio femminile. Murata, invece, pratica un minimalismo straniante, costruendo una distopia che non denuncia il potere attraverso la violenza, ma lo mostra nella sua forma più sottile: la cancellazione sistematica delle emozioni, la normalizzazione della distanza, l’azzeramento dell’immaginazione erotica. Il mondo di Vanishing World è inquietante proprio perché sembra plausibile.

Entrambe le opere fanno della distopia uno strumento critico: Leede inscena la catastrofe per liberare, Murata l’ordine per soffocare. In entrambi i casi, è la protagonista – giovane, marginale, desiderante – a portare avanti il confronto col mondo, diventando laboratorio di una nuova umanità. Laddove la distopia classica immaginava sistemi totalitari come metafore del potere politico, qui il controllo si esercita sul corpo, sul sesso, sull’affettività. Ma in entrambe, è la soggettività femminile a incarnare l’irriducibilità del corpo. La distopia, qui, non è ambientazione, ma meccanismo epistemologico: serve a mettere a nudo le strutture profonde del potere e i dispositivi che regolano la riproduzione sociale, familiare, affettiva. Leede e Murata usano l’estremo per mostrare l’ordinario. Non descrivono futuri impossibili, ma versioni iperboliche del presente: l’ossessione americana per la purezza morale, la disciplina giapponese verso la soppressione dell’individualità. Alla fine, resta una domanda sospesa: può esistere un desiderio che non sia già normalizzato o patologizzato? Sophie e Amane non offrono risposte, ma esperienze. La prima attraversa l’incendio e ne esce viva, anche se irrimediabilmente mutata. La seconda si dissolve lentamente, lasciando solo un’impronta sul vuoto. E forse è proprio questo che ci dicono le distopie contemporanee più interessanti: non mostrano come sarà il futuro, ma quanto sia fragile e conteso il presente. Non ci dicono cosa accadrà, ma dove siamo già.

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