Potete versare una donazione volontaria sul seguente IBAN IT14A0200805204000103311081 intestato a Elisabetta D’Arcangelo, che non sono io, è mia madre, non ha i social e grazie alla cultura patriarcale non ho ereditato il suo cognome, quindi la regola riguardo l’anonimato della rubrica è salva. 

Inizialmente l’incipit era per il meme, poi ho pensato che se qualcuno alla fine avesse veramente versato qualche euro ci avrei guadagnato una cena o una birra. Ma pure a lasciarli sul conto di mamma va bene, che campa due minorenni con l’assegno truffa di Meloni e manco ha potuto chiedere il Reddito di Cittadinanza perché quando mia nonna è morta le ha lasciato cointestata, con altri quattro fratelli, una casa al terzo piano senza ascensore, a Torre Spaccata, sottotetto di una costruzione anni Sessanta, forno d’estate e cella frigorifera d’inverno. Rinunciare alla quota del prestigioso immobile equivarrebbe a rinunciare anche alla possibilità di poterci abitare. Insomma, non se la passa bene. 

Mia madre non ha un lavoro e non la biasimo, la conosco abbastanza da poter dire che lei e il concetto di lavorare per sopravvivere, che si configura tramite lo strumento dei soldi, sul lungo e tortuoso percorso della realizzazione logico-filosofica, non si incontrano mai. Sono due dimensioni inavvicinabili come cercare di unire due poli uguali dei pezzi di Geomag. Per mia mamma l’idea di lavorare per la sussistenza semplicemente non ha senso, in questa visione nemmeno arriva a scontrarsi col concetto del dovere, c’è proprio un rilassatissimo e spontaneo epilogo genetico, è predestinata a sbattersene. Sicuramente se fosse nata ricca l’avrebbe avuto, una Carriera con la “c” maiuscola in qualche ambito stranissimo in cui ci si occupa di roba spiritualnerd tipo l’oroscopo o i tarocchi, una versione di Wanna Marchi che da chaotic evil passa a good e l’unico sincero scopo di lucro che ha è stare con le girls a chiacchierare. Sono sicura che avrebbe spaccato, avrebbe fatto soldi a palate senza neanche volerli. Se fosse nata nel Duemila sarebbe stata un’influencer da mezzo milione di followers. 

Ma è del Sessantotto, piena di traumi, l’ultima di cinque fratelli maschi in una di quelle famiglie di origini abruzzesi ambo i lati, genitori cresciuti entrambi in orfanotrofio a pane e Dio, politicamente attivi nel senso che andavano a votare Democrazia Cristiana solo perché c’era “cristiana” nel nome e vivevano il voto come una  confessione. Storico massimo del riscatto sociale fu trasferirsi dal Trullo a Torre Spaccata a fine anni Settanta. Quindi sostanzialmente se la pianderculo.

Nemmeno mio padre è una formica operaia, fa il geometra libero professionista e ciclicamente va in burnout. Roba che se non trascorre almeno sei, sette mesi di alimentazione esclusiva legumi, pane e spinaci congelati e una settimanella di luce staccata, il lavoro manco lo cerca. Durante la prima fase del lockdown decisi di andare a trovarlo. Ero annoiata da un mese a stretto contatto con coinquiline che avevo riscoperto, chi più chi meno, profondamente discutibili. Poi mio padre vive sul litorale romano, andando da lui avrei visto un po’ di mare. Il 10 marzo 2020 lo aveva travolto nel bel mezzo della sua modalità-sopravvivenza: aveva sbloccato il buono spesa statale, pensato per l’emergenza, proprio come se fosse stato un premio acquisito alla seconda run di un videogioco survival platinato – meno di cento euro al mese -, fatto scorta di legumi secchi, pane un giorno sì e uno no, soldi giusti per sigarette, caffè e verdure congelate per una sessantina di pasti. Quando arrivai mi illustrò tutti i trick che si era inventato per campare tranquillo: i legumi secchi a bagno ogni sera, la radice di zenzero che ribolliva non so da quanto per non farsi mancare mai una tisanina calda, trovare un errore nei conti in bolletta da segnalare ogni volta per guadagnare sui tempi di scadenza, non investire mai in un impianto di riscaldamento. Sotto i dieci gradi si costruisce un kotatsu giapponese vecchia scuola, due sedie una di fronte all’altra davanti al divano, distanziate un metro e mezzo, sulle cui sedute è tesa una coperta sotto la quale infilare le gambe e mettere il caldobagno. Sono rimasta lì almeno tre mesi, ci si stava ok, preparammo pure la torta all’acqua per rimanere al passo con i tempi, tutti facevano dolci, poi io comunque avevo qualche soldo da parte e qualche insalatona la mangiammo. Un giorno nella lattina dei borlotti più economici del discount, l’ultima in attesa del bonus che avremmo ritirato il giorno dopo, ci trovammo ben sigillato dentro il condimento per l’insalata di riso. La situazione fu così esilarante che ce li mangiammo pure un po’ contenti, non so come dire. 

Alla fine non biasimo neanche lui, lavorare fa schifo, se c’è la salute c’è tutto, finché c’è si può campare di veramente poco per molto tempo. Mio padre appena si riprende dal burnout si impegna in qualche progetto per buildare l’antro e tenerlo funzionante per la prossima avventura.

Non è per romanticizzare la povertà, ovviamente è problematico non essere capaci di garantirsi una stabilità economica minima. È difficile curarsi, ti devi ingegnare, ti serve un certo grado di dissociazione lucida, oltre a un’attitudine alla precarietà che i miei hanno letteralmente sublimato. La loro condizione, intendiamoci, non è né di realizzazione né tantomeno di felicità, li intristisce molto non potermi aiutare economicamente, ma allo stesso tempo hanno disintegrato completamente il peso dell’aspettativa morale del riscatto sociale nei termini dell’accumulo del capitale. Ho imparato da entrambi uno dei più grandi atti di cura nei confronti della propria inadeguatezza al sistema, desacralizzarlo per sopravvivergli.

Io non sono minimamente al loro livello, immagino ancora un futuro in cui ho un lavoro e dei soldi da parte, fantastico di farmi assumere dallo Stato per non doverci pensare mai più. Ma se devo essere del tutto sincera, in fondo, è come se avessi da sempre il sospetto di avere in me naturalmente ereditato il gene della miseria, e non in un’accezione deterministica di impossibilità ad avere una vita canonica in termini di soldi, quanto piuttosto una predisposizione innata a pensare che sia una gran cazzata. D’altronde, tutti a scervellarsi su come far diventare tutti ricchi allo stesso modo, quando la vera rivoluzione sarebbe quella di decidere domani di diventare tutti poveri. Nel frattempo, per lasciare a questo profondissimo concetto il tempo di germogliare nelle vostre menti, ci tengo a dirvi che l’IBAN non è una gag.

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