Vivo qui da due anni e la città mi appare sempre di più come un meccanismo per umiliare i poveri.
Vediamo la città dall’alto, schiacciata sul piano orizzontale di una mappa, ma è un’illusione del materialismo: la città è una stratificazione geografica sovrapposta su più livelli.
La città si proietta verticalmente su innumerevoli piani, una divisione occulta in caste – generata dall’intreccio di differentissime forme di capitale – fatta di gesti, frequentazioni, cadenze, giudizi impliciti, umiliazione.
Nella base profonda di questa stratificazione stanno i poveri: sono quelli che sentono più di tutti l’umiliazione.
Costretti a studiare l’onomastica esoterica dei ristoranti giapponesi (quelli con i veri giapponesi) mentre si spostano tra quartieri dai contorni incerti; a volte è possibile vederli toccarsi la gamba sinistra come per un prurito incessante: tengono aggrappato a quella gamba il cilicio del trasporto pubblico.
Il trasporto pubblico è il braccio armato che spezza le resistenze sociali, che schiaccia le teste dei poveri sui marciapiedi fino a lasciargli un solo respiro utile. Il trasporto pubblico traccia confini precisissimi, dà l’illusione del dominio delle distanze e poi lo sottrae per ribadire la sua essenza capricciosa di divinità. La divinità bisogna pregare, alla divinità bisogna sottomettersi. L’assenza arbitraria del trasporto pubblico lascia sgomenti e deboli come un abbandono improvviso delle forze.
C’è questa scena molto bella nel film Looper in cui per fermare un fuggitivo nel futuro lo si imprigiona nel passato: una volta sedato, un chirurgo specializzato comincia a mutilarlo (prima il naso, poi le orecchie, infine un braccio, le gambe) così che le mutilazioni una volta effettuate nel passato si riflettano improvvisamente sul suo futuro; la sua corsa per scappare dalle autorità diventa un caracollare del corpo nel fiorire imprevedibile delle suture: prima correvi ascoltando i passi degli inseguitori avvicinarsi, ora non senti più niente, non hai più orecchie; prima correvi, ora stai saltellando improvvisamente sull’unica gamba che ti è rimasta.
Ora. Soltanto ora ti accorgi che sei sempre stato in balia di un potere illusivo che ti era stato donato solo perché ti infettasse col suo privilegio il corpo, perché si aggrappasse a lui come un cancro per poi venire strappato di netto e rilasciare le metastasi – piccoli operaie volenterose – a finire di distruggerlo. Così è la metro C o il tram 19 quando vengono chiusi, deviati, temporaneamente soppressi.
Ma non si ferma qui l’infamia. Ciò che resta ai poveri quando il trasporto pubblico toglie loro la libertà di movimento è: il monopattino elettrico. Fermiamoci per un momento a osservare questo capolavoro del tardo capitalismo. Il monopattino era un gioco per bambini che è diventato un mezzo di trasporto. Dicono leggero, dicono divertente, dicono economico, lo dicono ma non è vero. In centro vedi scorrazzarci i turisti che sfrecciano alti sul traffico melmoso come pinne dorsali di squali con gli occhiali Persol e il berretto dei Celtics.
Facciamo un esperimento. Ora prendi un povero e metticelo sopra. Povero cristo rimasto incastrato nel centro città per il capriccio del dio – la metro c’era la, metro non c’è; pregami, adorami – deve tornare in periferia attraversando strade lastricate, strade ad alto scorrimento, strade intricate e trafficatissime. Il divertimento diventa massacro, la brezza primaverile che massaggiava i connotati del ricco si fa assassina e scaraventa chili di mosche nelle palpebre strette a fessura del povero. Gli autobus sono mosasauri che cacciano in branco, pronti a speronare la preda magra per pura crudeltà. Anche la legge si accanisce contro di lui, vuole assicurarlo.
Mentre il tassista e il cliente del tassista imprecano sul pericolo manifesto di mettere un giocattolo che va a 25 km/h in mano a una persona che evidentemente dovrebbe stare testa bassa a lavorare a quest’ora e non surfare il traffico mentre noi stiamo bloccati mortacci tua.
Sul mezzo pubblico il povero sviluppa quotidianamente la sua coscienza di essere povero. Se sopravvissuto alla sciarada del monopattino – la metro ora c’è; pregami, inchinati a me – viene sferzato dalla brutalità dell’aria condizionata sui vagoni. Poi anche il flusso ghiacciato della condizionata si ferma – ennesimo capriccio divino – torna la scatola di carne di corpi stretti sudati che premono compattati nel cargo.
Facce depresse che cercano di non guardarsi vicendevolmente, tentano di sottrarsi almeno all’umiliazione di un altro specchio umano riflesso. Ognuno l’un l’altro tutti vicendevolmente appaiono a un passo dal guizzo omicida dello scippo, il traditore occulto può essere chiunque, pronto ad abbandonare le sacrosante regole imposte per ergersi sopra la legge e farsi agente del caos e tu stringi più forte la mano sul portafogli e tu rotei gli occhi in paranoia. Dlin Dlin Dlon. Un gingle di ricompensa risuona nell’aria, si accorda ai molti altri che fuoriescono dagli smartphone surriscaldati da ninja fruit saga.
L’ultimo peccato, il più turpe e violento, della città è quella di pensarsi mondo. Espandersi silente nel cervello dei suoi abitanti come una forma occulta di neurosifilide, guastare le sinapsi e riconfigurare i circuiti neuronali fino a farti pensare finis terrae finis urbis e niente più rimane reale oltre quella soglia, non c’è fine all’umiliazione perché l’umiliazione è la vita e la vita è questa che stai vivendo in città.
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