Questa notte ho sognato l’Agenzia delle entrate.
Fuori dal palazzone grigio c’è una guardia giurata, un ragazzetto di appena vent’anni dagli occhi azzurri e le spalle ben piazzate, ha in mano un foglio di carta un po’ stropicciato e una penna rossa, mi chiede il cognome, il mio non c’è. Io sono sicura di essermi prenotata, cerco nelle mail, inizialmente mi sembra sparita pure quella, invece c’è, nella fretta avevo fatto l’accesso a quella di lavoro e non a quella personale. Quando mi sale l’ansia non riesco a fare più niente, è come se dimenticassi come stare in piedi, dove sono nata o il mio numero di cellulare. Anzi, più di una volta mi è capitato di inventarne uno sul momento, continuando a sorridere. Probabilmente per questo motivo la burocrazia mi odia. Do numeri sbagliati, perdo in continuazione i documenti (una volta ho smarrito carta d’identità e passaporto nella stessa settimana e ho dovuto portare dei testimoni a garantire alla questura che io ero io, per fortuna gli hanno creduto), spesso sbaglio a fare le fatture (anche qui non so che mi succede ma sbaglio a copiare il mio iban, dimentico il codice fiscale, confondo domicilio e residenza). Ho sempre paura che qualcuno un giorno busserà alla porta e mi dirà: devi venire con noi. E io, impreparata e colpevole, sarò pronta a fare la mia valigetta verso questo quartier generale della burocrazia che io immagino come una sorta di incrocio tra Metropolis, Fantozzi e un film di Jaques Tati. E questo fa capire quanto poco ne sappia.
Comunque, la guardia giurata trova il mio cognome, avevano sbagliato l’orario loro (per una volta non sono io!), entro dentro e c’è una prima fila. Aspetto dieci minuti, controllo ossessivamente i documenti che ho preparato, sento che qualcosa non va, una signora molto piccola dietro di me con occhialetti tondi e un rossetto violaceo mi chiede che ore sono, le rispondo le dieci e tredici, lei alza le spalle e aggiunge: secondo me chiudono prima di fare le nostre pratiche, sono due mesi che provo a cambiare il mio codice fiscale. Mi rigiro, cerco di non far penetrare le parole della signora nella mia testa, sfoglio con il polpastrello ancora i fogli, non trovo il mio documento di identità, inizio a tastare tutte le mie tasche, è in quella posteriore. Tiro fuori la mia patente, è del 2018 e c’è sopra una foto irriconoscibile, ho i capelli biondissimi e una frangetta piastrata male. Porto uno di quei girocolli neri osceni che sono andati di moda per due giorni che sfortunatamente sono coincisi proprio con le mie foto alla macchinetta sotto casa. Arrivo allo sportello, scopro che ho preso l’appuntamento per la registrazione di atti privati e non per la richiesta di codice fiscale, non so che dire, le chiedo scusa, non ci capisco niente, lei decide di farmi un favore, lo dice proprio “le faccio un favore eh”, in quella maniera un po’ di noi romani che pensiamo di essere tutti nel bel mezzo di un’operazione a cuore aperto, eroi delle nostre storie – mentre l’unica cosa che fa la signora è premere un bottone e far uscire un bigliettino con un codice alfanumerico. Nel dubbio, la ringrazio e mi metto ad aspettare seduta.
Nel giro di qualche secondo mi rendo conto che c’è un’unica fila in piedi dietro a una piccola transenna. Nessuno parla, la fila è ordinata, allora mi alzo e chiedo: cosa succede? una signora incinta mi risponde che oggi c’è l’assemblea dell’agenzia delle entrate e quasi nessuno si è presentato al lavoro quindi la fila è unica. La prima domanda che mi viene in mente è: cos’è precisamente un’assemblea dell’agenzia delle entrate? la seconda è: perché ho un bigliettino se non c’è una biforcazione nella fila? e la terza e ultima: quale favore mi ha fatto la signora se non c’è nessuna differenza nella fila?
Ancora più perplessa mi metto in fila anche io e comincio ad aspettare, il tempo sembra non passare mai. Le undici diventano le dodici, le dodici diventano le tredici. Poi arriva il mio momento di entrare nel cubicolo. I fogli sudati in mano, la gamba che mi trema, poggio tutto sul tavolo e mi accorgo che dall’altra parte c’è una lucertola al computer con un paio di occhiali da vista che mi chiede cortesemente cosa devo fare, io rispondo modificare il codice fiscale, sorridendo, la lucertola mi chiede perché sorrido, io non so che rispondere, poi con un tono monocorde mi dice: ah non il suo codice fiscale, ma quello di un’associazione. Io rispondo sì. La lucertola batte con le sue zampette sulla tastiera con un po’ di difficoltà, io sono immobile, mi guardo intorno per cercare di incrociare lo sguardo di qualcuno e dirgli telepaticamente “perché c’è una lucertola al posto di una persona?”, non c’è nessuno. La lucertola mi dice che non c’è nessuna associazione a mio nome e che la patente è scaduta da tempo. Io dico no, no, non è possibile, l’ho controllato prima di entrare, la guardo di nuovo e leggo lucidamente che il 2028 è l’anno di scadenza. Da quanto tempo sono qui dentro? Alzo la testa verso il soffitto e una fine ma fastidiosa pioggerellina inizia a cadere dall’alto, la lucertola apre con la zampetta destra un mini ombrello, io mi faccio bagnare la faccia incredula. Poi mi sveglio, non è acqua, ma sono piccole lacrime che mi scorrono sulle guance.
Apro il telefono, sono solo le otto e mezza e alle dodici, come mi ricorda l’agenda dell’iphone, devo essere all’Agenzia delle entrate. Prendo un grande respiro e mi alzo in piedi, vado subito a controllare quando scade la patente.
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