Con l’uscita dell’ultimo album di Marracash È finita la pace, non solo il rap italiano ha visto un ciclo iniziato dallo stesso rapper nel 2020 con Persona, ma è stato anche il momento in cui si è evidenziata una tendenza già presente nel rap italiano: una forte retorica anti-tecnologica. Se nei primi anni del genere l’attenzione critica era rivolta a televisioni e radio, oggi il bersaglio sono i social media e l’IA. Ovviamente, l’avversione ai nuovi mezzi tecnologici è radicata ben oltre il movimento hip-hop, e si alimenta nella stessa società in cui vivono gli artisti; e, in generale, la contrapposizione tra artificiale e naturale è presente da secoli nella retorica dell’essere umano. Oggi il rap offre uno spaccato interessante di ciò che ribolle nei tessuti sociali, ma quando i rapper sfruttano liriche anti-tecnologiche e spesso generaliste, sembrano dimenticare la storia stessa dell’hip-hop. Un genere che ha sempre avuto un costante intreccio con l’innovazione tecnologica e ne ha, spesso, giovato.

La storia dell’hip-hop mostra come la tecnologia – intesa come l’insieme di strumenti creati dall’uomo per trasformare il proprio ambiente ed esprimersi – sia stata centrale nella nascita, evoluzione e diffusione del genere. Per molto tempo, e ancora adesso, uno dei motivi per cui l’hip-hop fatica a essere riconosciuto come arte allo stesso livello di altri generi musicali è proprio l’uso di tecnologie alternative. Eppure, l’unicità del genere sta invece nel suo rapporto ambivalente con la tecnologia, sfruttando diversi strumenti e innovazioni per reinventarsi furtivamente e con creatività. Oggi gli stessi rapper si accusano a vicenda di eccessiva semplificazione dovuta all’innovazione tecnologica, mentre i critici esterni contestano l’uso massiccio dell’autotune, polemica tornata alla ribalta di recente, ancora una volta, a Sanremo. E in questa situazione, i rapper dimenticano la genesi del movimento di cui fanno parte, imponendosi di fare la musica come la tradizione italiana preferisce o adottando retoriche contraddittorie contro internet, gli smartphone e lo streaming.

Tutti scemi con i social e la tele’ (Guè, “Bastardi senza gloria”, 2018) 

Aumenta la tecnologia, diminuisce il lessico (Nayt, “Certe bugie”, 2024)

Io non mi fido di questo sistema, di ‘sti cellulari

Delle antenne, radio e tele, di tutti questi canali (Johnny Marsiglia, Vacca, Aban, Don Joe & Shablo, “Non mi fido di questo sistema”, 2011)

Excursus dalle origini a oggi

L’hip-hop, nato negli anni ‘70 nel South Bronx di New York – un’area dimenticata dalla politica, dove i residenti iniziarono a cercare un senso di comunità e identità attraverso i blockparty. I primi DJ e MC si arrangiarono con console e giradischi rudimentali, strumenti essenziali con cui svilupparono un legame profondo per creare nuove sonorità. Il primo a dimostrarlo fu DJ Kool Herc, che nel 1973 intuì l’effetto travolgente che si creava alle feste ‘spezzando’ ritmicamente una traccia e mandandone un’altra in loop. Il breaking, tecnica chiave nella diffusione dell’hip-hop, veniva eseguito in modo approssimativo ma ingegnoso, sfruttando due giradischi. Significativa era anche l’esclamazione che DJ Kool Herc urlava alle feste: “B-boys, B-girls, are you ready? Keep it rock steady!”, un invito che non solo esprimeva il momento di esaltazione e divertimento, ma anche la connessione profonda tra la musica, la danza e la tecnologia che alimentava il breaking. 

Lo stesso potremmo dire per lo scratching, altro elemento distintivo dell’hip-hop, tecnica da Granmaster Flash, DJ. Tutto questo induceva a balli da parte dei break-dancer non a caso definitivi “robot dance”. 

Come spiega Cesare Alemanni nel libro Rap. Una storia, due americhe:

“Per un giovane nato e cresciuto nella povertà dell’America urbana degli anni Settanta, la prospettiva di lasciarsi alle spalle quella situazione non solo era poco realistica: era quasi impensabile. Per questa ragione, a differenza di come si racconterà in seguito, l’hip-hop delle origini non trae la sua forza propulsiva da una qualche vaga promessa di way out ed emancipazione socio economica. Nasce semmai come forma di racconto autoriflessivo e autoaffermativo”.

L’hip-hop mirava a risignificare i luoghi abitati da chi ne faceva parte, trasformando il nulla in cui vivevano in un’esperienza collettiva di condivisione.

You gotta fight for your right To party (Beastie boys, (You Gotta) Fight for Your Right (To Party!), 1986)

Party for your right to fight! (Public Enemy, Party for Your Right to Fight, 1988)

Per molto tempo, questa è stata l’anima del genere. Nella dicotomia apparentemente opposta tra party e fight, la tecnologia ha giocato un ruolo cruciale: non solo come strumento per produrre musica, ma anche come mezzo di identificazione e protesta, ancora oggi insostituibile. Se oggi diciamo “togli a un rapper l’autotune e non sarà più lo stesso”, un tempo si diceva “togli a un rapper il boombox e non lo riconoscerai più”. L’iconica immagine del ragazzino nero newyorkese che cammina per le strade dei quartieri periferici con un passo altalenante, un paio di sneaker e un boombox – lo stereo di grandi dimensioni che sprigiona bassi potenti e profondi – è ben nota. Definito anche “ghettoblaster”, negli anni ’80 era uno degli oggetti simbolo dell’hip-hop, alimentando un immaginario che i media avevano stereotipato per rappresentare il rapper dell’epoca.

Anche in questo caso, all’oggetto è stato denotato un ruolo identificativo in alcune delle canzoni più rilevanti all’epoca. LL Cool J nel 1985 pubblicava, con la nascente etichetta Def Jam, I Can’t Live Without My Radio, singolo che faceva parte dell’album Radio, in copertina proprio un boombox: 

My name is Cool J, I devastate the show

But I couldn’t survive without my radio

Terrorizing my neighbors with the heavy bass

Mentre i Beastie Boys, nel 1986, in Time to get ill cantavano:

Ridin’ down the block with my box in my hand

Today I feel like chillin’ just as chill as I can

Coolin’ on the corner with a forty of OE

Con l’evoluzione tecnologica, alcuni strumenti tecnici, come i campionatori, hanno avvantaggiato Dj e MC, dando loro la possibilità di usare i sample – brevi frammenti musicali – di canzoni altrui per creare la propria musica. Se inizialmente l’isolamento dei sample era fatto attraverso i piatti, grazie a questi strumenti, l’intero genere ha subito un enorme cambiamento, poiché ha permesso con l’evoluzione della tecnologia dei campionatori di mixare e modificare elementi sonori estratti da diversi elementi musicali da cui origina (Funk, Jazz, Soul, Reggae, Blues, Disco), permettendo alle basi hip-hop di diventare progressivamente sempre più elaborate e originali, fino a creare una propria indipendenza stilistica rispetto agli altri generi da cui prendeva spunto. Poi con la diffusione dei pc e lo sviluppo di software per la creazione musicale – le DAW o Digital Audio Workstation – nel genere si è diffuso il beatmaking. Dai tempi del primo sampling a quelli di software come FL studio o Logic per creare nuovi beat, l’hip-hop ha goduto di un espansione a livello globale notevole, fino a renderlo uno dei generi più influenti negli ultimi 50 anni. 

Allo stesso modo, sono cambiati i canali con cui l’hip-hop veniva e viene diffuso, esaltandone la popolarità e rendendolo un genere sempre più influente. Nel 1984, il famoso canale televisivo MTV che aveva inaugurato le sue trasmissioni tre anni prima con la frase “Ladies and gentlemen, rock and roll”, fu costretto dal successo degli Run-DMC con Rock Box a trasmettere il pezzo, dopo anni in cui il medium si era dichiarato disinteressato al genere. Due anni più tardi uscì Walk this way sempre degli Run-DMC con la partecipazione degli Aerosmith, e MTV non potè che trasmetterla ossessivamente visto il successo del pezzo. 

Quando la distribuzione musicale è stata passata a internet, il rap ha progressivamente occupato il web, instaurando un immaginario strettamente legato a quello della rete (ma anche in forte contrasto con essa, per l’appunto). Molti rapper sono diventati famosi, negli scorsi anni, grazie ai nuovi spazi digitali come YouTube, Instagram, TikTok. L’hip-hop tenta costantemente e furtivamente di approfittare delle innovazioni, con una non sempre esplicita volontà di scardinare i metodi tradizionali, o per lo meno quelli che si utilizzavano fino a quel momento, con un fine distruttivo-costruttivo. In tutti questi casi, le tecnologie di ogni epoca si sono intrecciate nettamente con quella dell’hip-hop che ha saputo sfruttarne al meglio i vantaggi che poteva offrire, rendendolo un genere quasi ossessionato dall’uso di questi strumenti, a differenza di altri che invece non sono riusciti a capitalizzarli nella stessa maniera. I rapper, forse inconsciamente, fanno con la tecnologia quello che facevano prima di fare hip-hop, cioè hustling.

L’autotune di 808s & Heartbreak

Un caso decisivo di connessione tra rap e tecnologia è stato il disco 808s & Heartbreak di Kanye West. Le dichiarazioni e i gesti folli di Ye – dalla controverso difesa antisemita fino all’intervento spropositato agli MTV awards – hanno fatto dimenticare al pubblico (e anche a molti rapper italiani) l’irripetibile freschezza che Kanye ha saputo introdurre col suo quarto album in studio. 808s & Heartbreak, uscito nel novembre del 2008, non solo è stato di rottura rispetto ai suoi dischi precedenti, ma ha portato per la prima volta nel genere un rap urgentemente cupo e addolorato. Nel podcast Popcast, Jon Caramanica, parla di 808 & Heartbreak in questi termini:

“La gente spesso dimentica che il vero punto non era solo che lui esprimeva tristezza, ma che abbia scelto di non incorniciarla o seppellirla sotto rime complesse. La lasciava nuda, esposta. Ovviamente, da un punto di vista strutturale, il suo canto è molto meno complesso del suo rap, e proprio il fatto che lo consegni in modo così diretto e senza fronzoli è, di per sé, un’innovazione”. 

Il rap canticchiato e metricamente meno impegnato che Kanye si concede, enfatizza la sua abilità nel dialogare e fondersi artisticamente con una tecnologia vista, fino a quel momento, con sospetto: l’autotune, introducendo questa nuova dimensione artistica, prima inesplorata. Se, in origine, era considerata una tecnologia di supporto per correggere digitalmente l’intonazione della voce, il rap melodico di Kanye sul cocktail di tastiere e batterie del Roland 808 non sarebbe stato così innovativo senza l’utilizzo dell’autotune con un effetto singhiozzante, definendo quel suono come “dei cuori spezzati”. Le tracce sono un’esplicita ibridazione tra la sua voce e il software. È perciò il primo disco hip-hop a usare così ampiamente l’autotune – qualcosa considerato artificiale, ancora oggi disprezzato su molti fronti – per esprimere ferite e delusioni, risultando più che mai autentico. Mark Fisher, nel libro Spettri della mia vita, riferendosi a 808s & Heartbreak scrive:

“[L’]autotune è sotto molti punti di vista l’equivalente sonoro dell’aerografo digitale, e l’uso (eccessivo) delle due tecnologie (insieme con la crescente diffusione della chirurgia cosmetica) genera l’aspetto e la sensazione di qualcosa di iperbolicamente migliorato, piuttosto che di esplicitamente artificiale”. Questo è forse il caso più evidente in cui un software diventa una parte esosomatica di un artista, senza il quale non avremmo avuto melodie spregiudicatamente meccaniche fino a essere unicamente umane.

I rapper, comunque, non si smentiscono, e nel movimento la diffidenza verso l’innovazione è sempre stata presente; e forse sta proprio in questo uno dei motori che spinge altri componenti a sperimentare così tanto. Tant’è che nel 2009, Jay-Z, pubblicò la traccia D.O.A. (Death of Auto-Tune) dove rappava:

You niggas singin’ too much

Get back to rap, you T-Paining too much

//

That sound stupid to me

If you a gangsta, this is how you prove it to me (uhh, uhh!)

Nigga, just get violent

This is death of Auto-Tune, moment of silence

Qui il rapper newyorkese lamenta l’eccessivo canticchiare dei rapper e il peccato di non essere abbastanza gangsta e violenti. Cita T-Pain perché fu lui il primo a riscoprire l’autotune nel 2005, e fu sempre lui a spiegarne le potenzialità a Kanye. Che ne dica Jay-Z, 808s & Heartbreak e il suo autotune spaccacuori ha avuto l’ineguagliabile effetto di ispirare, in modi diversi, Drake e Future, ma anche Frank Ocean e Childish Gambino, dando quindi vita a diverse correnti artistiche dentro l’hip-hop stesso. Oltre a dimostrare come il macho-gangsta rap fosse in una definitiva fase calante, 808s & heartbreak dimostra l’ineffabile commistione tra rap e nuove tecnologie. E da questa relazione nasce una sensibilità che si può esprimere soltanto attraverso la musica stessa. In questo rivoluzionario progetto, l’autotune non è meno importante della voce di Kanye, le liriche sono meno importanti delle atmosfere synth pop, e solo in questo modo abbiamo ottenuto un vero risultato artistico liberatorio. Kanye ci ha di fatto dimostrato come dominare perfettamente lo spirito del tempo, attraverso sonorità che oscillano tra la banalità e la perfezione.

Critiche, contro critiche e hustling

Una caratteristica comune in molti rapper, attuali e non, è un approccio ambivalente e ai limiti del parossismo verso le innovazioni. L’approccio luddista di alcuni rapper per affermare un machismo che si manifesta nel non-detto “lo faccio da me, naturalmente”, ha il solo effetto di individuare nella tecnologia musicale (e generale) gli aspetti negativi che può causare alla propria arte, e alla società di riflesso, sentendosi di dover dichiarare che “quelle cose” non le faranno mai. I casi di incomprensione e diffidenza verso la tecnologia all’interno del genere sono pressoché infiniti. In italia, nel lontano 2015, Marracash scriveva su Twitter: “L’autotune è come la cocaina. Ogni anno pensi “questa roba passerà” ma poi tira sempre”, salvo poi farne un uso sottile ma distintivo nel suo Status. E allo stesso modo, Marracash ha parlato di 808s & Heartbreak come uno degli album che lo hanno ispirato di più. 

Rimanendo nel panorama italiano, possiamo dire lo stesso del chiacchieratissimo anno 2016, quando Instagram introdusse le stories e molti rapper si spostarono massicciamente sul social, facendolo diventare un diario a porte aperte. Un uso così spregiudicato del mezzo, in particolare da parte della Dark Polo Gang e di Sfera Ebbasta, introdusse l’importanza estetica nell’immaginario del rap italiano, con ovvie ispirazioni americane. Su YouTube è ancora possibile trovare archivi musicalmente rilevanti (al di là del mero gossip), non solo per chi assisteva al tempo a queste serie tv improvvisate, ma su come il rap stava cambiando ancora una volta appropriandosi di un nuovo mezzo tecnologico. E se i rapper adulti lamentavano l’uso dei social media:

Edita, non medita, poi addebita la tua credit card

Dimentica la tua identità, è più autentica la tua replica

Non hai un account: è un handicap

Conta la presenza scenica

A metà tra carne e pixel, l’opera più triste della genetica

(Nitro, “L’oracolo di Selfie”, 2015) 

Oggi che il genere è in una fase di stallo, se non in crisi, andare a rispolverare le origini può calmare questa diffusa diffidenza verso la tecnologia e ispirare i rapper a essere artisti, come quelli alle origini, sopra le righe e con il coraggio di compiere atti di disobbedienza alternativa e piccoli gesti quotidiani per distinguersi dalla propria cerchia. Così ha fatto Kool Herc che staccava le etichette dai vinili per non farsi rubare i titoli dagli altri DJ in un periodo di scarsa reperibilità e conoscenza musicale. Così fece Kanye quando gli dicevano che non poteva rappare, ma solo fare il beatmaker. E lui usò l’autotune.

In italia, artisti giovani come Tony Boy hanno capito l’importanza degli spoiler (meglio di molti altri colleghi) che spesso finiscono su piattaforme non ufficiali come Soundcloud. In questo spazio digitale c’è un mondo pieno di pezzi mai usciti su Spotify o Apple Music, che però i fan apprezzano siano conservati proprio in questo spazio alternativo. Negli spoiler su Tik Tok di Tony Boy è pieno di utenti che dicono di aver già sentito quel pezzo o gli domandano se mai uscirà una traccia specifica. Questo archivio digitale e collaborativo a cui Tony Boy ha saputo dare impulso e che è costituito autonomamente dalla sua fanbase, esemplifica come sfruttare le piattaforme per diffondere e stimolare la propria arte, invece che limitarsi alla semplice catena di registrazione, annuncio, pubblicazione su Spotify, Apple Music e Youtube. Allo stesso modo Tony Boy pubblica su Youtube versioni live di alcune tracce che non sono ufficialmente uscite, alimentando ancora una volta la propria immagine di indipendenza e unicità, seppur il web sia pieno di tracce inedite liberamente ascoltabili. Questo rende i fan attivi, interessati al suo processo creativo, e li esula dalla posizione di essere meri ascoltatori, sempre più obsoleta nell’era digitale. Questo è un esempio di quello che dalle origini gli americani chiamano “fare hustling” e che vorrei declinare a un uso spregiudicato e dirompente delle tecnologie. In questo risiede l’attitudine hip-hop che i più anziani quanto i più giovani dicono sia stata annacquata nel movimento. Al contrario, un artista come Sfera Ebbasta ha perso quell’istintività di far uscire video su Youtube in grado di trascinare le attenzioni del pubblico. Il rapper di Cinisello si è chiuso in un’esclusività dai risvolti negativi per la sua stessa produzione artistica (lo ha ammesso lui stesso dopo l’uscita del suo ultimo album). Ha scelto la via dell’esclusività con un disfunzionale silenzio assoluto, anche a livello artistico. Se la triade XDVR, SFERA EBBASTA, Rockstar è stata sfornata in un certo momento storico, è anche per i risvolti positivi di un’attitudine molto più intraprendente che il rapper aveva verso le novità e particolarità di ogni piattaforma, che sembra ormai persa. 

Se i rapper sono sempre stati tra i migliori a sfruttare la tecnologia, dalla produzione alla diffusione, in questi ultimi anni stanno vivendo un’evidente difficoltà a comprenderne le dinamiche affinché gli siano favorevoli. In un periodo storico in cui il rap e l’industria culturale-musicale sono sempre più allineati, vorrei che i rapper fossero di nuovo capaci di vestire questa doppia dimensione di artisti e hustler, per dominare le nuove tecnologie. Chi tra i rapper usa la retorica del “fuori-dal-sistema”, “no-social”, “contro l’industria”, spesso poi si ritrova a fare album, featuring, apparizioni calcolate. In questo momento, i rapper non fanno altro che inseguire l’industria musicale-culturale, senza più cavalcarla; non la formano quasi più, ma ne sono più che altro influenzati. Vorrei che i rapper italiani, invece che rappare di situazioni americanizzate con descrizioni generiche e decontestualizzate e in fondo inesistenti in italia, fossero capaci di mettere in rima il loro particolare disagio nell’usare le nuove tecnologie, da internet all’AI. Mi piacerebbe acquisissero il coraggio di giocarci di più, come hanno saputo fare alcuni rapper americani in tempi non sospetti, o come hanno fatto i trapper nel 2016 o Tony Boy ultimamente.

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