Quando ho deciso di costruire la scatola non ero ubriaco. Ero lucido. Sorridevo, inchiodando le assi. 
L’ho fatto perché è così che mi chiama mia moglie, l’uomo nella scatola.  
L’ho scoperto da mio figlio, Andrea. Sara dice che, da quando abbiamo divorziato, non faccio altro che vegetare in questo monolocale che puzza di piscio. «Come una scatola» dice lei, secondo mio figlio.
Me li immagino, riesco perfino a sentire le loro risate.
Non sanno niente, ma come sempre credono di sapere tutto.

L’ho scoperto il mese scorso, di giovedì. È la sera in cui Andrea viene a cena da me.
Se non avessi insistito con Sara e con il giudice per avere una sera alla settimana, lui mi avrebbe girato alla larga senza tanti rimorsi.
Quella sera Andrea è entrato in casa senza salutare, con le cuffie nelle orecchie e il cellulare in mano. Si è seduto davanti a me, ha aperto il cartone della pizza e ha iniziato a mangiare, senza alzare lo sguardo dallo schermo. Si sentivano i battiti sordi della musica che le cuffie gli pompavano nelle orecchie.
Io l’ho fissato per un po’, ma lui non ha mai alzato lo sguardo. Ogni giovedì era così. Io cercavo di attirare la sua attenzione con regali costosi. Un cellulare nuovo, vestiti firmati, scarpe. Ottenevo dieci minuti di tregua, e poi di nuovo il muro. Ma quella sera non avevo comprato nulla. Mi ero stancato.
Così, ho allungato la mano e gli ho strappato via le cuffie. Lui ha alzato finalmente gli occhi su di me.
«Perché non parliamo un po’?» gli ho chiesto.
Lo sguardo di Andrea mi ha misurato dall’alto: ero un verme che si contorceva a terra. «Non mi rompere i coglioni.»
«Non parlarmi così!» ho urlato, sbattendo una mano sul tavolo. «Sono tuo padre.»
Andrea si è appoggiato allo schienale della sedia. Aveva un sorriso cattivo. «Sai come ti chiama la mamma?» ha fatto una pausa perfetta, per tenermi appeso alla risposta che mi stava per dare. «Ti chiama l’uomo nella scatola. È questa la scatola,» ha descritto con un gesto il mio monolocale, «puzza di sudore e piscio. E io di perdere tempo con te mi sono rotto il cazzo.»
Si è alzato, è uscito sul balcone e si è acceso una sigaretta.
«Non sapevo che fumassi» ho mormorato, parlando da solo.
Dopo qualche minuto, è rientrato. Ha buttato il mozzicone davanti ai miei piedi e l’ha schiacciato con la punta di una scarpa che gli ho regalato io. Mi ha fissato con disgusto.
«Giovedì non torno più. Se dici qualcosa alla mamma, le dico che mi hai picchiato. Lo sai che mi crederebbe.»
Era vero, nessuno avrebbe dato retta a me dopo quello che avevo fatto.
Andrea è uscito, sbattendo la porta.

L’aria era fredda e puzzava di gasolio: in qualche modo mi riempiva, facendomi dimenticare. Non c’era neanche una stella. Che peccato, ho pensato.
Non ricordavo come fossi arrivato lì, sul ponte, ma in quel momento non mi importava. Non sapevo neanche perché fossi andato via dal bar, magari mi avevano cacciato. Ho fatto qualche passo e ho sentito la brezza fresca del fiume come una carezza sulla pelle. Ho afferrato il corrimano di metallo sul parapetto per non cadere. Cazzo, ho pensato, come mi sono ridotto. Mi è venuto da ridere e sono scivolato con il culo a terra. Quando mi sono tirato su, ho lanciato un’altra risata nel buio. Perché no?
E invece ho avuto l’impressione che l’eco della mia risata mi ritornasse in gola, scendendomi nelle viscere. Mi sono vomitato sulle scarpe. Subito l’aria della notte mi ha portato tutte le domande che non volevo farmi e il sussurro del fiume ha iniziato a chiamarmi come una voce che offre perdono.
Le mie braccia attaccate al corrimano hanno fatto forza, un piede si è alzato oltre il parapetto e mi sono ritrovato davanti al vuoto.
Il cielo era nero. Ho chiuso gli occhi, sentendo un sorriso sulle labbra. In fondo, non era difficile far finire tutto.
All’improvviso, una mano mi ha strattonato per la giacca. Sono caduto all’indietro. L’urto con il selciato mi ha tolto il respiro. Ho aperto gli occhi e ho visto una donna, un’ombra di carne e vestiti sporchi. Mi ha guardato con occhi acquosi.
«Tientela, la tua vita del casso!» 
Ho urlato qualcosa, per far uscire il dolore. Lei mi ha guardato ancora, con uno strano luccichio negli occhi. 
«Non te si’ di queste parti, carino.»
Non ho risposto. Ho provato ad alzarmi, ma lei mi era addosso. Era grossa e la mia testa vorticava.
«Gheto un regal par mi?»
Le sue mani viscide hanno iniziato a frugarmi. Mi ha stretto le spalle e ho di nuovo sbattuto la testa per terra.
«Tutto so’ nel fiume, no?»
Una risata soddisfatta, non ho sentito altro.

Il giovedì successivo mi rigiravo tra le mani l’iPhone che mi avevano consigliato al negozio. Volevo scrivere un messaggio ad Andrea, ma non trovavo il modo di aprire WhatsApp. Ogni volta che prendevo in mano quel telefono, vedevo il volto sudicio della donna che mi aveva derubato.
Sul tavolo i cartoni della pizza erano freddi. Andrea non arrivava.
Mi sono attaccato al telefono. Alla settima telefonata ho sentito la sua voce.
«Che cazzo ti prende?» di sottofondo pulsava una musica da discoteca.
«Ti sto aspettando.»
«Ma hai la demenza?»
Il sudore mi ha incollato il telefono all’orecchio.
«Io non ci vengo più da te, mi hai rotto le palle, ometto nella scatola
«Smettila, Andrea! Sono qui che ti aspet…»
«O la pianti o…» la sua voce si è fatta cattiva. «Avrai anche convinto il giudice che sei cambiato, ma la mamma se le ricorda ancora le tue botte.»
«Andrea, non sai niente. Smettila.»
Ha attaccato.
Ho sentito un cerchio caldo stringermi la gola. Mi sono alzato, rovesciando la sedia, ho preso una bottiglia di grappa. Sul balcone sono stato a guardare il profilo grigio dei palazzi soffocare nella notte.

Così mi sono messo a costruirla, una scatola. Sono bravo a fare queste cose.
Non avevo ancora pensato a cosa farci, però ero sicuro che fosse lo strumento giusto. Sara fa fare ad Andrea tutto quello che vuole. L’ha trasformato in un arrogante stronzetto, e come sempre devo fare io la parte del cattivo.
Mi serviva qualcosa di solido, indistruttibile. Ho comprato assi di legno da un metro e mezzo, chiodi, viti e cerniere rinforzate.
Due giorni dopo era pronta. Una cassa di legno massiccio, chiusa con due lucchetti. Ho testato la sua resistenza con un piede di porco: il legno gemeva, ma non si spezzava. Per riavere qualsiasi cosa ci avessi messo dentro, Andrea avrebbe dovuto strisciare ai miei piedi. Ci so proprio fare con queste cose.
Mi restava da capire cosa chiudere nella scatola.

L’idea mi è arrivata due giorni dopo. Era mattina, il momento migliore della giornata.
Ho parcheggiato poco lontano dalla villetta a schiera di Sara. Era presto. Avevo una copia delle chiavi del cancello del complesso residenziale.
Quando abitavo lì, uscivo sempre di casa a quell’ora per andare a correre lungo il canale. Era un momento in cui sentivo tutto al suo posto, sentivo un equilibrio che poi mi sfuggiva nel corso del resto della giornata. Rientravo a casa, leggermente sudato, e trovavo Sara e Andrea che facevano colazione. E tutto iniziava. O forse tutto finiva.
Pensavo a questo, quando quella mattina ho visto Andrea sul vialetto. Usciva per andare a scuola.
Ha aperto il cancello e si è chinato per appoggiare un piattino di ceramica sul selciato, vicino al muretto. Un gatto grigio con il muso striato di bianco è sbucato fuori da un’aiuola e si è avvicinato. Ha allungato il muso e ha iniziato a leccare il latte. Andrea ha allungato la mano, distendendola sul dorso del gatto.
Da dentro l’auto, mi è sembrato di intravedere un sorriso farsi spazio sul volto di mio figlio. E ho pensato che lì avrei potuto colpire.

Qualche mattina dopo, ho osservato la stessa scena. Il piattino, il gatto, la carezza sul muso, il sorriso di mio figlio. Poi Andrea si è incamminato verso la fermata dell’autobus.
Mi sono accoccolato sul sedile, sorridendo di piacere. Immaginavo Andrea che cercava disperatamente di forzare la scatola. Sì, era perfetto.
Si sarebbe messo a urlare. Insulti, cattiverie, il solito. Gli avrei risposto con una risata. Lui, allora, sarebbe diventato violento, colpi alla cassa di legno, magari uno spintone verso di me. Il tempo, però, sarebbe passato. Da quanto è chiusa la scatola?, avrei domandato ad alta voce. Ma chi se lo ricorda! Uno non può respirare per sempre chiuso dentro a una scatola… E lui si sarebbe messo a implorare, a chiedere scusa, a giurare di aver capito la lezione. Non vedevo l’ora di –
Un colpo sul vetro mi ha fatto aprire gli occhi.

«Cosa ci fai qui?»
Ho abbassato il finestrino e l’ho guardata, stropicciandomi gli occhi con la mano. «Sara…»
«Ti ho chiesto cosa ci fai qui. Non farmi tirare fuori l’ordine restrittivo.»
«Volevo solo salutare Andrea, ma sono arrivato troppo tardi, credo.»
Mi ha guardato e il suo viso si è ammorbidito. Ero un animale innocuo, ormai. Ho pensato che i suoi occhi chiari, dopotutto, fossero ancora belli.
«Ascolta, qui non devi venire. Lo sai che se ti vedo, devo avvisarli. Ma non voglio crearti problemi, quindi non venire. Andrea è da te il giovedì» ha detto con un sospiro. «Chiamalo ogni tanto, magari può aiutare.»
«Va bene,» mi sono tirato su sul sedile e ho messo in moto, «va bene.»
Lei si è voltata e ha imboccato il vialetto.

Aleggiava per le strade un odore acre di immondizia. Guidavo lentamente, rasente al marciapiede, gettando occhiate tra i coni di luce dei lampioni. Sentivo la bottiglia di vetro vuota rotolare sotto ai sedili. Ho attraversato il ponte, inoltrandomi per un quartiere di palazzi cadenti. Le strade a quell’ora erano deserte.
Sono gli altri a costringermi a mettere le cose a posto, non sono mai stato una persona cattiva. Cosa vogliono tutti? Un uomo può sopportare fino a un certo punto, poi è una catena che si spezza e che rilascia la tensione come una frusta. Così è andata, non come ha detto il tribunale. Ho solo provato a far funzionare quello che non andava. Ci so fare con queste cose.
Finalmente, appoggiato alla saracinesca di un alimentari, ho visto un grumo di vestiti. Nonostante il buio della notte fonda, ero sicuro. Era lei. Ho accostato lungo il marciapiede a un paio di metri di distanza. Ho abbassato il finestrino.
«Hai bisogno di soldi?»
«Che…?»
«Hai bisogno di soldi? Voglio aiutarti.»
«Se’… ma ci sito?» il grumo si è messo seduto.
Ho visto quello che cercavo: un volto gonfio, capelli grigiastri attaccati alla fronte e occhi cerchiati di sudiciume.
«Ti ho vista e ho pensato di aiutarti,» ho insistito, «ho un centinaio di euro…»
Si è avvicinata. Probabilmente ha pensato di non aver nulla da perdere. Lo pensano tutti.
«Allora? ‘sti soldi?» ha detto, aggrappandosi alla portiera con dita grosse come wurstel.
Con un sorriso sfavillante, ho stretto il pugno e l’ho colpita.
Ho sentito uno schiocco di cartilagine che si spezza.
È caduta all’indietro sul marciapiede. Poi ha cominciato a guaire.
Sono sceso. Lentamente, l’ho raggiunta. Ho colpito quel sacco di carne con un calcio. Poi mi sono chinato e ho sentito il suo tanfo. Aveva il viso sporco di sangue.
«Dove cazzo è il mio portafogli?» ho cercato di ringhiare, ma la mia voce era allegra.
Lei ha emesso un lamento stridulo, coprendosi il viso con le mani.
Mi sono avvicinato ai cartoni su cui era sdraiata fino a poco prima. C’era un fagotto di vestiti. L’ho sparpagliato con un calcio. Delle mie cose non c’era traccia. 
Sono tornato da lei. Si divincolava a terra in preda alla confusione.
«Mi hai preso il portafogli e il cellulare, brutta stronza. Ero ubriaco, sul ponte della ferrovia,» i suoi occhi trafitti dal terrore erano fissi su di me, «dove cazzo sono le mie cose?»

Quando sono arrivato, mancava poco all’alba. Sentivo ancora le nocche doloranti. Ho appoggiato il piattino davanti al cancelletto della casa di Sara, nello stesso punto dove lo preparava Andrea. Qualche istante dopo, il gatto è strisciato fuori. Mi ha guardato con una certa curiosità e si è avvicinato.
L’anestetico ha fatto effetto in un attimo. Il gatto ha ruotato la testa e si è accasciato a terra. Sono tornato a casa senza farmi vedere da nessuno.
Adagiato nella scatola che avevo costruito, il gatto sembrava in pace con il mondo. Gli ho accarezzato il musetto, poi gli ho sparso una manciata di croccantini attorno. Dopotutto, non aveva fatto niente di male.
Ho inchiodato il coperchio e poi finalmente mi sono riposato.

Uscivano dagli spogliatoi come un branco di cani randagi. Fuori, nel parcheggio, i genitori ad aspettare chiusi nelle auto. Mi sono seduto sul cofano per osservare meglio la scena e mi sono acceso una sigaretta. Andrea mi ha visto subito. Il suo viso si è contratto leggermente. Ho soffocato un sorriso, pensando alla scatola pronta per lui.
«Cosa ci fai qui?» mi ha detto, avvicinandosi.
«È un po’ che non vieni.»
«E allora?»
«Una sera ogni tanto, non ti chiedo altro. Oggi è giovedì.»
Gli ho allungato un pacchetto, lui l’ha preso. Ho visto un momentaneo bagliore nelle sue pupille.
«Ti ho visto fumare e ho pensato che potesse piacerti.»
Ha aperto il pacchetto e ha soppesato il tubetto , freddo e lucido, sul palmo della mano.
«A casa ho alcune ricariche di vari gusti» ho detto, per concludere la trattativa.

Andrea è arrivato quella sera, insolitamente in orario. Si è seduto al tavolo e ha guardato il cartone della pizza. La scatola era nascosta sotto il lavello. Non avrei più saputo dire con certezza se il gatto al suo interno fosse vivo o morto di asfissia. Di sicuro, Andrea non aveva tempo da perdere.
«Hai una faccia strana» ha osservato, prendendosi una fetta di pizza.
«Sono solo contento che tu sia venuto» ho risposto, trattenendo un sorriso. Dovevo essere paziente, aspettare, essere pronto. Inghiottivo singhiozzi di piacere.
Abbiamo mangiato in silenzio. Poi, alla fine, ho preso la scatola e l’ho appoggiata sul tavolo. Andrea la fissava perplesso. 
«Cos’è?» mi ha chiesto.
«L’ho costruita per te,» ho risposto, «ma la cosa importante è quello che c’è dentro.»
Andrea ha tentato di aprirla, ma era chiusa con un centinaio di chiodi e due lucchetti rinforzati. Ha sbuffato. Disprezzo e commiserazione sul viso di mio figlio. «È chiusa. Sei stupido?»
«Certo che è chiusa» la gioia è esplosa finalmente sul mio viso, l’ho sentita come un calore improvviso.
«E allora?» sul viso di Andrea c’era un’esitazione che non avevo mai visto.
«Non so quanta aria rimanga lì dentro. A quest’ora il tuo gatto potrebbe essere già soffocato. Finché non apriamo questa scatola non lo possiamo sapere.»
«Il mio gatto?»
«Certo, il tuo gatto,» mi sono alzato in piedi, «nella scatola.»
Era il momento della mia vittoria, avrebbe strisciato, implorato, frignato come un bambino.
«Io non ho nessun gatto.»
Siamo sprofondati nel silenzio.
«Come nessun gatto? Ti ho visto la mattina dare da mangiare a un gatto, fuori casa.»
«Hai ucciso il gatto della signora Miglioranzi?»
«Il gatto della signora…»
Qualcosa di pesante è sceso sulle mie spalle, finendo dritto nel mio stomaco.
«Tu sei malato» è scoppiato a ridere, piegandosi sulla sedia. «Quel cazzo di gatto a cui la mamma mi fa dare da mangiare tutte le mattine» sghignazzava senza riuscire a fermarsi. «Questa è la cosa più divertente che abbia mai visto, merda!»
Sentivo la stanza stringersi a ogni parola.
«Sei un uomo ridicolo» ha concluso Andrea, alzandosi e avviandosi verso la porta.
Sono rimasto solo, a guardare la mia scatola.
Non mi restava che costruirne una più grande.