Il pesce rosso

Il pesce rosso
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Quando mi sposto da un punto a a un punto b non sopporto l’idea di non poter toccare di nuovo il punto a, di rimanere relegata alla prospettiva parziale del nuovo scenario, avendo già scartato (non messo da parte, scartato come un cioccolatino) l’orizzonte offerto dal primo punto.

Per cui a volte non esco dalla stazione e torno al punto di partenza, per il solo piacere di vedere ri-arrotolarsi nel finestrino l’orizzonte già srotolato. Mi dà gioia comprimendomi i denti e i muscoli della mandibola, la gioia delle sensazioni che celiamo agli altri. È come se condividessi un segreto astrale con lo spazio-tempo e fossi in comunione con consapevolezze al di là della banalità pratica, al di là delle considerazioni economiche. Con una misera borsa di studio non dovrei permettermi questi viaggi nel tempo e nello spazio. Mi costano i kiwi al mercato della Coldiretti, il sapone intimo di marca, a volte anche la pizza del sabato sera.

Con i miei viaggi in treno di andata e ritorno, sto tentando l’esperimento di scindere spazio e tempo, di non viverli più insieme, di trovare il loro punto di rottura che è il punto in cui li sento più uniti che mai. Quando vedi lo spazio che si riarrotola dopo essersi srotolato, è come se il tempo provasse ad andare avanti mentre lo spazio torna indietro, e a un certo momento che non saprei indicare ma che conosco bene, il tempo sente la tentazione di andare indietro con lo spazio, ma non riesce e si sgancia. Ho scritto molto di queste mie riflessioni, intuizioni, induzioni e deduzioni, servendomi a pieno raggio degli strumenti offerti dal procedimento logico – i miei diari che poi sono diventati lettere ai cari amici alle care amiche, ai parenti talvolta, anche se non stanno prendendo bene questa mia mania ferroviaria – e poi ho capito che dovevo uscire dal procedimento logico. Ma solo attraverso la deduzione, l’induzione, la pratica logica, ho potuto astrarmi. Dovevo privilegiare i marginalia, spostarmi alla periferia del procedimento logico per spezzarne la magia, rompendo il cerchio come già avevo rotto lo spaziotempo.

Ho cercato segnali fra le pozze d’acqua nelle zone industriali al limitare delle città, nelle schiere di macchine metallizzate dei parcheggi di grandi centri commerciali di provincia, nell’insegna rossa della Coop Fi che si affaccia puntuale nel grande finestrino del treno poco dopo il momento in cui mi sveglio (all’andata). Forse tra le due o ripetute si nasconde un segno del ciclo del tempo. A, b, o. Salto logico.

Sto attuando la mia missione ferroviaria perché spero di essere notata un giorno da chi gestisce la fabbrica dei viaggi nel tempo: anch’essa sovra-strutturata sub specie capitalis come ogni cosa – sto provando anche a rispolverare un po’ di latino maccheronico sperando di attirare l’attenzione di Fra Teofilo Folengo, l’ecclesiastico eretico eroicomico che sospetto essere stato un viaggiatore nel tempo incompreso. Spero, fatto il viaggio di andata a sue spese, mi inviti a Bassano nel suo convento, dove mangerei bene e respirerei aria fresca, non quella pesta delle città della ferrovia – Torino Roma Milano – non le considero più le città piccole fuori dall’alta velocità, che sembrano meno inquinate ma lo sono di più perché non fa vento: l’aria è pece nella Pianura Padana, peggio di Parigi, peggio di Bangkok, ma io non sono mai stata a Bangkok, forse il segnale è nella pagina dove si allineano le parole, i sintagmi dottoressa mi lasci andare a Bangkok ho abbastanza fondi credo, da farla passare come missione accademica dottoressa io sono in comunione con lo spazio e il tempo, io viaggio al di là del tempo, di Teofilo ho il benestare, la prego mi lasci andare.

In treno un bambino intona una canzone africana e balla sostenendosi con le manine sulla mia grande valigia bordeaux. Ritma con i piedi e canta a voce alta. Io oggi mi sento in pace con la generazione minimea e accenno un sorriso sotto alla mascherina ffp2 che mi protegge dalle influenze stagionali, dal COVID e dalla legionella. Giro la testa verso sinistra, guardo fuori dal finestrino e la vedo: la Coop Fi. Un edificio alto ma rettangolare, con sopra un’insegna altrettanto rettangolare e sotto l’insegna un orologio elettronico: le 21:23:19. Poco più in fondo, sulla sinistra, un’insegna gialla verticale h-o-t-e-l con la o lampeggiante. A b o. Ricorrenze.

Poggio la mano sul vetro del treno, che è un rettangolo smussato, e vedo il vetro liquefarsi. Mi ricorda un vecchio film anni ’90, il decennio della mia nascita. Mi dovrei preoccupare per la mia valigia, per il mio zaino, per il mio libro che è una biografia di Teofilo, su cui sto facendo la tesi di dottorato?

Ma cos’è il dottorato in questo viaggio nel tempo, cos’è il mio borsellino con la stampa plastificata delle papere col cappello, cosa sono gli oggetti, se non proiezioni di un disegno astrale? So per certo che la mia vita da qui in poi cambierà. Perderò i miei documenti, lo zaino, la biografia con le sottolineature storte, i miei vestiti sporchi nella busta Tiger. Forse qualcuno li raccoglierà, quando capirà che sono andata ad arruolarmi nel vecchio magazzino antistante i binari di non so quale stazione. È proprio là di fronte quando la mia mano inizia a liquefarsi insieme al vetro, e di sicuro sarà a un tot preciso e calcolato di gradi fra l’edificio Coop e l’insegna lampeggiante dell’hotel. Scendo comodamente dal finestrino, il treno schizza via, mi assottiglio al passaggio del treno parallelo e in direzione contraria, non ho più attrito, faccio un grande balzo, poi un altro troppo in alto perché finisco sul tetto del magazzino. Scendo e mi tira giù la pancia per la vertigine (un altro segnale incontrovertibile di tutto questo è il sogno che ho fatto stanotte, come quelli che facevo da bambina, dove cado da altezze improbabili e mi tira giù la pancia, che fastidio), poi atterro.

Una luce oltre la porta del magazzino, che è un rettangolo bianco largo, coperto di finestre parallelepipedi con gli angoli smussati, come tanti finestrini del freccia che hanno trovato casa. Bianco, bianco e asettico, post-moderno.

Entro.

La stanza è fredda come l’esterno dell’edificio; in fondo intravedo un tavolo bianco – inutile dirne la forma – e seduto su una sedia, di spalle, un imponente uomo vestito con una tunica di tessuto grezzo marrone. Ha la testa un po’ pelata che promette un faccione ampio, insomma un faccione da frate. Teofilo si gira, mi guarda, e dai lati della sua sottile bocca si allarga un sorriso: “Finalmente mi hai trovato”.

Notte, l’1:18, la solita insonnia. È fine luglio. Ho scritto questo racconto sul mio quaderno e poi l’ho appoggiato sul comodino accanto al letto. Mi alzo per andare in bagno e mentre mi inchino leggermente verso il lavandino, vedo con la coda dell’occhio uno strano scintillio che sembra provenire dalla doccia e si riflette sulle vecchie piastrelle del bagno anni ’70. Mi lavo accuratamente le mani, sono contenta della nuova saponetta all’aloe, scelta per le sue caratteristiche superiori a quella di Aleppo. Ma forse quella non la uso bene? tende a sgusciare via come un pesce e a sfaldarsi, facendo una strana muta e perdendo dei densi strascichi color moccio dentro al lavandino. Da piccola provavo sempre ad accarezzare il pesce dentro la boccia. Sto pulendo la grande libreria marrone nel corridoio della prima casa in cui ho abitato. Lo faccio io al posto della baby-sitter perché sono spesso a casa malata e pulire mi dà una certa sensazione di puntualità mentale, soddisfazione e benessere. Sfioro i libri, strani fantasmi di carta e inchiostro rilegati, i libri, dorsi lisci e rugosi, alti, bassi, se affiancati molto più ordinati dei vestiti che invece fanno caos, si stropicciano, non vogliono stare al loro posto dentro le pile sfatte negli armadi, sulle sedie cariche di quelli della settimana. Panno umido, panno asciutto; la parte più difficile sono le impronte sulle vetrine, quelle da cui a volte guardo di nascosto i film che i miei e i miei fratelli più grandi guardano in salone. Li guardo riflessi là, sulla vetrina a metà della libreria, sfocati, immagini raddoppiate dalla lente del vetro, mentre sto ferma immobile sulla porta del bagno che dà sul corridoio per non farmi scoprire, con la sensazione delle cose fatte di nascosto. È una strana compressione della mandibola. Poi andavo a vedere come stava il pesce nella boccia, sulla lavatrice, nel bagnetto di servizio.

Quest’estate in una spiaggia ho accarezzato con i piedi dei pesci che volevano mangiarmi le pellicine. Mentre sto per spegnere la luce dello specchio che sta sopra il lavandino del bagno e accendo al posto di quella principale la notte, per rispetto delle ore notturne e della loro preferenza per l’illuminazione incompleta, di nuovo dalla doccia proviene uno strano baluginio. Il pesce nella boccia è andato e gli adulti lo hanno buttato nelle tubature del water, una notte di febbre a 40 di 20 anni fa. Io piangevo come fosse un cane inserito a forza dentro il cesso e fatto scivolare giù con noncuranza. Il suo fantasma mi accompagna nell’età adulta.

Quest’estate è già arrivata, ma i pesci non li ho ancora visti dal vivo, ho visto solo quelli stampati sul tappetino della doccia, mentre lavoro e aspetto di tornare a casa, andare via dalla mia città da fuori sede. Due mesi fa noi tre siamo seduti al bar e beviamo tre birre ambrate alla spina, poggiate su un tavolo tondo e verde di ferro smalto. Giorgio è malato ed è rimasto in albergo. Mi ricordo quando ero piccola e passavo molte mattine a casa perché ero spesso ammalata. Aiutavo la baby-sitter a pulire la libreria grande del lungo corridoio della mia casa d’infanzia (poi trasformata in un bordello dopo il trasferimento della mia famiglia): panno umido, panno asciutto. Accarezzavo i libri del mobile marrone con le vetrine, quelle da cui spiavo i film che la notte i miei genitori e le mie sorelle maggiori guardavano nel salone. Un mondo parallelo. Dopo che finiamo la birra, mentre andiamo a dormire, vedo le nostre ombre proiettarsi su una strada stretta del Quadrilatero romano. Come diceva quel professore romano? Che le ombre vanno avanti e non indietro. Quindi forse ci incontriamo sempre avanti.

Quando andremo via da Torino e tornerò a casa troverò il carrello della frutta senza kiwi, che fanno bene alla pancia, e dovrò usare il bagnoschiuma al posto del sapone intimo. Poi è arrivata l’estate, quella vera, con i pesci veri. È passato giusto qualche mese ma il tempo si è spanato come una vecchia manopola di una doccia anni ’70 in una città dove si affittano soprattutto case vecchie a studenti e lavoratori fuori sede disperati.

Finalmente siamo seduti a un tavolo di legno, nella nostra città comune, che è quella da cui siamo venuti e a cui arriviamo sempre, anche se là il tempo non passa mai forse, la manopola è sempre spanata. È ancora fine luglio; l’1:18 era solo qualche giorno fa. L’altro giorno, quando eravamo al tavolo di ferro smalto con la birra torinese, era aprile: la frequenza del tempo è bassa. Qua non servono birra rossa. C’è il sapore amarognolo della APA. Il professore romano aveva parlato anche di fisica quantistica, di entanglement.

Quell’estate dura un lungo anno, un anno di APA e di Spritz fatti male: saliamo verso la piazza, ci sediamo al bar, scendiamo verso la via principale dal vicolo che dà sulla piazza; saliamo, scendiamo; saliamo e scendiamo e alla fine del vicolo, un giorno, vedo i contorni di una porta dagli stipiti di legno, fatta di ferro smalto era solo l’APA?

Avevo letto da qualche parte che il tempo e lo spazio si somigliano ma non più di tanto, perché possiamo tornare indietro nello spazio ma non nel tempo. Ma lo spazio a cui torniamo è lo stesso in cui siamo stati in prima battuta?

Gli orologi, di qualsiasi tipo essi siano, segnano con una certa frequenza il tempo. La frequenza è legata al numero di volte che un fenomeno si ripete in un dato intervallo di tempo”.

Ora è l’1:18 sarà sempre l’1:18 se leggi il segno del tempo nei numeri, come insegna Frate Folengo. I kiwi sono nel carrello della frutta, ieri ho mangiato la pizza per festeggiare un traguardo, il mio bagno pullula di sapone intimo. Quando mi fui più volte volta per tornare in camera, guardando il mio bagno così anonimo e brutto, così anni ’70, vidi per la terza volta quel baluginio. La frequenza è interrotta.

Mi avvicinai alla doccia. Dall’asta di metallo in alto colavano gocce d’acqua, facendosi strada dall’intricato gioco di raccordi metallici non compatibili, braccetto raccordo maschio femmina telefono della doccia, e filtrando attraverso i vuoti del nastro telato applicato alla bell’e meglio. Bisogna solamente rallentare, per farli avvicinare, spazio e tempo, piano piano. Anche sullo schermo del mio telefono, che avevo messo nella tasca del pigiama ed estratto per un momento, era sempre l’1:18. Quando avevo comprato i raccordi per attaccare il telefono della doccia e sostituirlo all’orrendo doccino che avevo trovato nella casa nuova, era una giornata di qualche mese prima.

La casa era rimasta vuota per qualche giorno, dopo aver cambiato occupante, poi i suoi pavimenti luridi erano stati ricoperti di scatole piene di libri e vestiti, cianfrusaglie e oggetti per la cucina, cose che non riuscivo a buttare, in attesa di trovare la collocazione precisa, una nuova disposizione degli oggetti di scena. Finché gli oggetti non avessero trovato il loro posto perfetto, la frequenza del sistema sarebbe stata inesistente. Il tempo avrebbe ruotato a lungo sul suo perno, proprio come la manopola spanata. Andava cambiato il motore. Vede questo è il motore della manopola e la manopola è la carrozzeria, dice l’idraulico. Ma gli oggetti non accettano facilmente di abitare in una nuova casa e soprattutto recalcitrano all’idea di essere disposti in un set dalla mano esterna di chi li sistema, che deve soggiacere alle loro regole e imparare a sentire quella vocina silente che li guida verso il posto prescelto. I libri non vogliono quell’ordine, e la libreria marrone con le vetrine-cinema lo sapeva benissimo.

Il tempo non esiste-

Molti anni dopo, in una nuova città in cui ho già abitato in un passato indefinito, vedo il riflesso del mio stivale nero sul vetro della metro: è opaco, sbiadito. È come se un’altra me stessa parallela abitasse oltre quel vetro, nel riflesso, il riflesso di un altro mondo oltre lo specchio.

Due gambe si toccano su un autobus diretto verso il mare

Beviamo una birra rossa

Apri la porta di ferro smalto

“Through the first gate, into the garden”

Il legno del tavolo è lo stesso legno degli stipiti della porta

Ma oltre il vetro c’è solamente il vuoto riempito a tratti dal passaggio di un treno parallelo che spostando l’aria causa un tonfo improvviso. Appena i vagoni si incrociano, fra la punta di uno e la coda dell’altro ecco quello scoppio: l’oscillazione dei vagoni percepita dai passeggeri appesi come scimmie in abito agli appositi sostegni; il sussulto dentro le persone distratte all’udire quel tonfo. Mi chiedo se il tempo sia il fantasma dello spazio. Se mai potessi scindere il punto di congiunzione fra tempo e spazio, il cosiddetto cronotopo, se potessi rincorrere quel riflesso e attraversare il vetro. Sto andando a prendere l’ennesimo treno eppure qualche momento prima ero dentro la doccia, in un’altra città. Ma questi sono ricordi di un passato parallelo.?,

Non è più l’1:18.

Lo spazio sente la tentazione di andare indietro con il tempo, ma non riesce e si sgancia. Entrai nella doccia, richiusi le antine di plastica.

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1 Comment

  1. Achille

    Un bel racconto fantascientifico!

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