Molti mi hanno chiesto di raccontare la storia di come sono arrivata fin qui e forse, perché no, è il momento giusto per accontentarvi; d’altronde senza di voi tutto questo non sarebbe stato possibile. Avevo ventitré anni, mi ero laureata da poco, regnava in me la voglia di non fare nulla, anzi, l’aspirazione più grande era passare le giornate a letto con una sola domanda nella testa: “perché ho scelto filosofia?”. I miei genitori mi spronavano a darmi da fare, inviare curriculum, fare un concorso, ma non mi interessava. Non avevo alcun interesse. Visualizzavo le opzioni, senza darmi nessuna risposta. Quando incontravo il mio fidanzato o i miei amici non avevo nulla da dire, da raccontare, da guardare. In questo caotico silenzio l’unica cosa che mi distraeva erano i suoni delle voci meccaniche, l’uniformità dei volti, le asimmetrie e le cromie che venivano dal telefono.
Per mia indole, quella da studentessa, iniziai inevitabilmente ad indagare, apprendere trenta secondi alla volta, sottolineare le azioni delle persone che fissavo sullo schermo. E come un ultimo esame post-laurea, avevo deciso di provarci anche io. È una cosa che possono fare tutti, basta sceglierlo, ma la mia vita non era niente di speciale rispetto alle altre: mi svegliavo, guardavo, mangiavo, guardavo, mangiavo e dormivo. Dopo aver ripetuto per mesi mi sono sentita pronta, lentamente iniziai a fotografare e registrare l’unica cosa che mi trovavo davanti: i pasti. Giorno per giorno, immortalavo qualunque cosa cucinassi e non perché fossi una cuoca, ma per il gusto del rumore dei piatti, delle pentole e delle posate che sbattevano sui lati delle superfici. Il fuoco che scottava lentamente tutto, il coltello che finemente tagliava le verdure, le carni, friggere, ghiacciare, staccare. Questi contenuti piacevano a tutti, erano rilassanti, calmi, veri. Sembrava funzionare, il mio incremento di followers era esponenziale. Capii che era facile trovare il modo di farmi seguire, invidiare, desiderare, bastava esibire tutto, tutto raccontare e mostrare i dettagli più minuziosi, dai piatti a quello che c’era dentro: i liquidi, le creme, le paste, il sottile fruscio tra consistenze e superfici. Leccare. Succhiare. Masticare. Il suono delle bolle d’aria tra lingua e gengive, i denti che spezzano e sbattono, la saliva, i dettagli della mia bocca che rendeva molle, a poco a poco, i pezzi di tutto quello che stavo ingerendo. Deglutire. Ingoiare.
Mi avevate dato il vostro cuore. Ero stata promossa, avevo passato il mio esame migliore, mi chiedevo perché non l’avessi fatto prima e adesso volevo darvi sempre di più, rendere ogni post migliore e diverso. Esaurite tutte le ricette, assaporati più volte gli stessi suoni, digeriti da me e vomitati dagli altri, pensai di chiedere direttamente a chi mi guardasse di cosa cibarmi. Il sugo, il brodo, gli spaghetti. Sondaggio: Ramen. Sondaggio: messicano. Sondaggio: insetti, unghie. Peli. Gustavo insieme a voi qualunque cosa. Le dirette passavano così, mi divertivo anche io, con voi, con gli altri, di cui non udivo le risate, non guardavo gli occhi, ma sentivo il calore.
Niente mi dava ciò che riuscivo a provare con voi, le emozioni erano amplificate. Mi resi conto di quanto poco avessi vissuto fino a quel momento, allora perché passare con voi solo poche ore al giorno? Poteva esserci dell’altro, potevo essere una professionista. Avrei potuto far scegliere a voi altre cose per quella vita di cui non sapevo cosa farmene, come vivere. Che vestito mi metto oggi? Lo smalto? Cosa faccio oggi? Vado a bere una birra oppure al cinema? Al cinema? E cosa vedo? Una commedia, un film per bambini, un horror. Un horror. Lo stesso film per tre volte di fila. Da sola o in compagnia? E il mio fidanzato? Non vi piace? Volete vedere casa mia? Casa sua? Parlerò con lui, cosa dico? Devo vedere i miei? Si. Assecondandoli. Abbracciandoli. Abbandonandoli. Lo faccio un concorso? Rispondendo sempre “cipolla”? Inizio a lavorare? No. Sparisco? Lo lascio? Lo lascio, dicendogli che l’ho tradito o non dicendoglielo, urlando, sputando. Contenuti extra delle sue lacrime per i primi 100 abbonati alla mia vita. Solo per voi inquadravo i respiri, le facce imbarazzate, imbronciate, i denti storti e le risate. La mia vita migliorò, venivo invitata ad eventi, smisi di fare la spesa, mi inondavate di regali, lettere e commenti. Grazie. Finalmente vivevo con entusiasmo, conobbi alcuni di quei visi che avevo guardato per ore, mi stupivo nello scoprire le loro gambe, vederli alle spalle, sentire i loro odori. Avevamo tutti lo stesso profumo, buono, gratis, riconoscibile e in sconto per voi, solo con il mio codice. Mi innamorai anche di qualcuno di loro, del modo di guardarmi e farsi guardare, sentire, seguire. Vi innamoraste anche voi di noi. Meritavate di più, sentivo il bisogno di darvi di più. Non volevo perdere tutto questo, non volevo perdere voi. Con chi devo stare? Cosa devo fare? Si o No?
Lentamente tutto prese una piega diversa, migliore. Mi sentivo coccolata, al sicuro, libera. Le mie decisioni non erano più mie ma degli altri, vostre. E le mostravo, mi riprendevo in ogni momento, molti smisero di parlarmi, altri iniziarono a farlo. Avevo nuovi amici, solo quelli che volevano mostrarsi con me a voi, solo quelli che finalmente avevano qualcosa da dire. I miei genitori non mi chiedevano più nulla, non mi spronavano più, eppure il mio curriculum era pieno adesso, non potevano capire, capirvi così come lo facevo io. Avevo un’altra casa, scelta da voi, ne avete fatto il tour insieme a me, deciso i mobili. Le gradazioni nude del mio salotto, la cucina nera, niente lavatrice, il divano ad acqua, le tende nere, tutto minimal. Era più facile percepire il suono dei miei movimenti, i passi, la polvere sotto il letto. Chi ci entrava con me era compito vostro sceglierlo, quali relazioni avere, per il tempo di un video in cui vi spiegavo tutto. L’amore per voi vinse qualunque cosa, non mi importava di nessun altro. Quello che dovevo sentire, dovevate sentirlo con me, con qualcuno deciso da voi, per me, per voi. Visualizzavo quanto vi piaceva. L’intimità, il suono dei miei gemiti e della pelle a contatto con altra pelle, le spinte. Il rossore, i graffi, le pupille dilatate. Il rumore dei mobili, dei respiri e la carne, le unghie conficcate, il fruscio dei peli, gocce di sudore, battiti, urla. I liquidi, gli escrementi. Non c’era spazio per il silenzio, qualsiasi cosa facessi non era più solo per me ed era bellissimo.
Dopo poco, qualcuno mi copiò, non ero più unica, quello che facevo era diventato troppo simile a quello di tanti altri. La mia vita non era interessante. Piatta. Scialba. Cretina. Vi ho ascoltati. Cambio i miei contenuti? SI. Cambio la mia vita? SI. Dove vado? VIA. L’idea di fare viaggi venne da voi, mi sarei ripresa compiendo sempre qualcosa di diverso, pazzo, meraviglioso. Scelgo la città del primo commento e mi riprendo per 12 ore, 24 ore, 48. Viaggiare, spostarmi, muovermi, vlog con immagini, suoni e gusti sempre diversi e non scelti da me. Ho girato il mondo grazie a questo, a voi, dormendo ovunque, mangiando qualunque cosa. Sono arrivata in barca in Germania, attraversato il Marocco in bici e girato il Giappone travestita da uomo. Troppo bello. Troppo facile. Troppo finto.
Volevo essere reale, per voi. Qualcosa ancora mancava. Entrare dentro il peso di ciò che mi portavo dietro, questo volevate vedere, lo capivo. Era interessante, anche per me. Questa è la vostra filosofia, la mia. Cosa metto nella valigia? Decidetelo voi! Stare sette giorni con un paio di mutande, portare cappotti e stivali al mare e costumi sulla neve. Con il ciclo ma senza assorbenti, solo vestiti bianchi. Niente medicine. Irritazioni, eritemi, ustioni. Il suono dei lamenti, le risate di chi mi osservava, l’eco della mia sola voce, le lacrime. Voi.
Mi sentivo importante, mi sento importante: portarvi a scoprire dei posti diversi, in cui nessuno è mai andato o mai in queste condizioni. Volevate che mi spogliassi in Afghanistan, che ridessi nei templi buddisti, cercare i cannibali, nuotare tra gli squali. Ho provato così tante cose, solo grazie a voi. Mai più di due giorni in un posto, adesso la mia casa siete voi. Mi sento felice e per questo sono qui. Sono sola oggi, qualcuno ha consigliato questo viaggio nel deserto etiope, una sola notte in uno dei posti più pericolosi al mondo, eravate tutti entusiasti e anche io lo sono. Porto qualcuno? No. Mi informo o no? No. Valigia o zaino? Zaino leggero, tre mutande, un litro d’acqua, una sciarpa e basta. Basta. È tutto così estremo, l’adoro. È adrenalinico trovarsi qui, sono quarantotto ore che non parlo con qualcuno dal vivo, meno male che ci siete voi.
L’acqua è quasi finita, le mutande sono tutte sporche ma la sciarpa mi ripara dal sole. Cerco una crema solare? No. Poi per fortuna ci sono le piscine naturali qui. Che faccio? Mi ci tuffo? Grazie. È acida, calda, è strana. Salatissima, brucia, non ho mai fatto un bagno così. È bello condividerlo. La pelle sta iniziando a fare male, non si respira bene, troppo caldo, sembra di star facendo una sauna, una da cui non riesci ad uscire. Ho poche energie. Sono fuori dall’acqua e sento freddo, tanto. Brucia ancora di più. La mia pelle. Fa rumore, sembra stia prendendo fuoco. Forse ho capito perché nessuno si era immerso. Sono sola e non ho nulla, ho solo voi, il mio telefono. Ho poche energie. Fa male, non respiro. È bello condividere anche questo. Tutto. Posso mostrarvi tutto, anche i miei ultimi respiri. Anche il mio futuro.
E adesso non so che fare. C’è uno strano silenzio. Non riesco a dirvi cosa sento. Nulla, che dite? Chiamo aiuto? Fatemelo sapere con un commento.