« Le sirene sono fanciulle che seducono con la bellezza del corpo e la dolcezza del canto, fino all’ombelico hanno l’aspetto di vergini creature umane, hanno però code squamose di pesce che nascondono sempre sott’acqua ». Così veniva descritta la famosissima figura mitologica nel Liber Monstrorum de Diversis Generibus, un repertorio mitografico risalente al VII secolo nel capitolo a lei dedicato. Similmente in La Pace (v. 113-115), Aristofane racconta di « donne dal volto fascinoso e irresistibile, la carnagione dalla luminosità abbagliante, lo sguardo che suscitava struggimento e desiderio in chiunque le guardasse ». Qui, però, a essere descritte sono le sembianze della Lamia, un’altra creatura mitologica per metà donna e per metà serpente che, in altre raffigurazioni, per esempio in History of Four Footer Beats and Serpents (Edward Topsell, 1658), appare con il corpo da leone, il seno, le squame da rettile e il pene.
Al di là della varietà fantasiosa delle loro sembianze, questo genere di donne mostruose – sirene e lamie – sono accomunate da un corpo ibrido, che mischia le forme tipicamente femminili della donna ad altre animalesche come la coda del pesce o attributi da rettile.
Oltre le fattezze spaventose, anche gli scopi propri di queste mezze donne erano spesso ambigui. La sirena nella cultura greca veniva descritta secondo due tradizioni diverse: una la voleva mortifera e dannosa per gli uomini, quindi una figura che attraverso l’incanto e il successivo inganno si approfittasse dell’uomo per i suoi scopi; l’altra la indica come consolatrice per gli uomini stessi rispetto al proprio destino o alla morte. Successivamente, durante il periodo cristiano, la sirena diventa un simbolo esclusivamente negativo di lussuria, di tentazione, che allontana da Dio e porta alla condanna divina.
Sempre secondo il mito classico, Lamia era una giovane donna che, dopo aver perso i figli – da lei stessa uccisi, secondo alcune versioni o assassinati da Era, secondo altre – perse la ragione per il dolore e la rabbia e si trasformò in un mostro mutaforma dedito alla caccia dei figli delle altre donne al fine di cibarsene. Successivamente, la figura della lamia si fonde con quella della strega medievale, anch’essa capace di attirare a sé le sue prede attraverso un’apparente bellezza di donna.
Come nell’antichità, anche oggi caratteristiche fisiche o comportamentali permettono di relegare alcuni tipi di femminilità “atipica” alla categoria del mostro. Anche se può sembrare difficile collegare alcuni aspetti della nostra cultura alla mitologia, ai giorni nostri esistono vere e proprie figure mitologiche che si muovono spettralmente tra di noi. Si portano dietro particolari ben definiti dagli stereotipi e dal patriarcato e hanno, come nel passato, connotati fisici ambigui, ibridi, capaci di ricollocarle dal ruolo di individuo a quello di mostro.
A questo punto del discorso, l’analogia che approfondiremo si dispiega chiaramente: le persone transgender – in particolare le donne trans – e i loro corpi, attraverso i dettami culturali contemporanei, rappresentano nuove entità ambigue e ingannatrici inseribili nel catalogo dei mostri a quattro zampe del venutnesimo secolo.
Nel suo saggio Il Mostruoso Femminile (Tlon, 2021), Jude Ellison S. Doyle ricerca e analizza proprio gli elementi in grado di trasformare il femminile in mostruoso. Come per le sirene o per le lamie un tempo, oggi i mostri femminili si celano dietro comportamenti anticonformisti, ribelli, incontrollabili o comunque dietro ogni forma divergente dal ruolo di genere imposto dal patriarcato di “donna ideale” nelle sue declinazioni di figlia, di moglie e di madre. Allo stesso modo viene praticato un esame attento di tutte le caratteristiche fisiche, che definiscono nella nostra struttura culturale la femminilità. Queste caratteristiche sono la possibilità di generare figli – quindi possedere un utero funzionante – e la presenza di organi genitali esclusivamente penetrabili.
Il tabù della nostra società per gli organi sessuali si è lentamente decostruito, ma ancora oggi parlare di peni o di vulve risulta imbarazzante e quando ci si sforza di farlo ci si addentra spesso in conversazioni impacciate. Gli organi genitali dividono superficialmente il genere umano a metà, semplificano dalla nascita la questione identitaria e attribuiscono la certezza di un futuro da uomo o da donna a un individuo che, al momento dell’assegnazione, a malapena sa di esistere. La questione del conferimento del genere alla nascita è stata già ampiamente discussa e problematizzata circa la sua approssimazione – delle volte fatale – in ogni campo delle discipline psicologiche, sociologiche e filosofiche. A rendere la pratica incredibilmente spinosa ci si aggiunge il fatto che conferire il genere “femminile” porta con sé l’attribuzione di un ruolo socialmente discriminato, discriminazioni con le quali l’individuo dovrà fare i conti per tutta la vita. Questa assegnazione avviene attraverso una modalità tutt’altro che oggettiva, ma basata sulla soggettività dell’osservatore e su una cieca fede nella probabilità.
Non è solo il genere femminile a connotare l’esistenza in una condizione di marginalità, ma tutto ciò che lo riguarda e culturalmente lo descrive. La stessa vulva ha di per sé un’accezione negativa se paragonata alla funzionalità maestosa del pene. Aristotele descriveva gli organi genitali femminili come menomazioni del pene, Tommaso D’Aquino secoli dopo aggiunse che « nella prima costituzione del mondo non doveva esserci niente di mancato e di difettoso ». Quella dell’incompletezza storpia del corpo femminile è stata – ed è ancora – una teoria lungamente descritta e argomentata, a suo tempo perfino Sigmund Freud decise di metterci del suo. Le donne erano secondo la sua teoria dei castrati, maschi mutilati, e la vita dei loro figli e delle loro figlie era segnata dal trauma di aver visto come prima cosa il corpo della madre senza pene: una ferita aperta e oscena. E non solo, anche le funzioni di questi organi genitali mutilati acquistano da subito nella storia tratti negativi e spaventosi per la nostra cultura: una donna con il ciclo è portatrice sana di morte.
E anche quando le donne non hanno ferite, ma magari un pene, nel caso delle donne transgender, il trauma non si cancella, raddoppia: la donna non può che portarsi dietro un fardello sanguinoso e penetrabile, altrimenti non è una donna, non ha scampo dall’essere un mostro. Come le figure mitologiche, queste donne sfuggono alle logiche essenzialiste che condannano le femmine al ruolo di donne tramite la mera osservazione « non potranno mai essere comprese fino in fondo, mai incastrate, mai amate » e allora diventano « inafferrabili, impenetrabili, esperte ingannatrici » come le sirene o le lamie.
« Un mostro è un corpo che avrebbe dovuto essere sottomesso, ma che è diventato una smisurata minaccia: un mostro è una donna che si è sottratta al controllo (dell’uomo) »
Il Mostruoso Femminile, Jude Ellison S. Doyle
Tutta la storia femminile appare incredibilmente semplificata, le donne devono essere controllabili in base alla possibilità di penetrarle e questa possibilità deve essere esclusivamente maschile. Se questo non è rispettato, non sono controllabili, quindi non possono essere donne e sono mostri. La sessualità femminile deve esistere solo con il permesso maschile e tutto ciò che diverge da questo sarà delegittimato, schifato o soppresso.
La transgenericità, a tal proposito, incarna la paura di perdere il controllo più profonda e pura. Il corpo di una donna trans per l’uomo cresciuto in un sistema patriarcale genera confusione, quel genere di attrazione e repulsione tipico delle figure demoniache femminili descritte nelle storie antiche. La presenza di caratteristiche ibride tra i due generi – specialmente gli organi genitali – rappresenta un cortocircuito alla semplificazione essenzialista dell’assegnazione del genere attraverso il sesso: non esistono categorie binarie naturali, sono create dal patriarcato per la sua stessa esistenza e le persone trans ne sono la prova, sono la trasgressione vivente alle categorie naturali essenzialiste.
Inoltre, genitali maschili tra le gambe di donne rappresentano possibili atti penetrativi durante i quali gli uomini non sono inclusi. Infatti, una battuta frequente che si fa nei confronti delle donne omosessuali è quella che le vedrebbe “incomplete” nell’atto sessuale data l’assenza del pene. Le donne trans creano un cortocircuito anche in questo caso, non possono essere nient’altro che mostri per il patriarcato.
« La definizione di “mostruosità” può essere fluida: in una conversazione si può dire che “è un mostro” sia l’enorme lucertolone Godzilla che il serial killer Norman Bates. Ma che il mostro violi le norme sociali, biologiche o entrambe, queste storie sono sempre estremamente chiare riguardo alla posta in gioco. La creatura mostruosa, la cosa che esiste al di là dei ruoli e dei confini che reputiamo accettabili, deve essere uccisa, altrimenti il sistema collasserà. »
Il Mostruoso Femminile, Jude Ellison S. Doyle
Come già detto, alla base di questa discriminazione di ruolo e dei connotati che caratterizzano il ruolo di donna c’è il patriarcato. Doyle la sintetizza molto bene in questo passaggio:
« La premessa alla base di ogni sessismo è che – parafrasando i Radiohead, noti teologi medievali – gli uomini hanno un corpo e un’anima perfetti. Be’, s’intende gli uomini bianchi cisgender senza disabilità, e che non hanno mai fatto sesso con altri uomini (una volta suggerita l’idea di un’élite biologica, i criteri che la determinano tendono a farsi sempre più stringenti). L’umanità è definita dagli uomini, perciò le donne, che non sono uomini, non sono umane. Da qui la necessità che vengano dominate dagli uomini – e se le donne si ribellano a questo dominio, diventano mostruose. »
Il Mostruoso Femminile, Jude Ellison S. Doyle
Ogni uomo nasce sapendo che, in quanto uomo, eserciterà potere e controllo sugli altri, o almeno su una donna, la loro. Ma questa promessa è molto debole, proprio perché artefatta e costruita dalla cultura del dominio: ogni donna che aspira alla libertà è problematica, ogni donna che esercita controllo sul proprio corpo è problematica, ogni donna che può sostituire l’essenza del maschio, ovvero la sua capacità penetrativa, rappresenta la fine del suo dominio ideale. Per questo, quella patriarcale, è una struttura estremamente faticosa da tenere in piedi e per farlo gli uomini sono costretti a controllarne ogni aspetto. Essendo un assetto di tipo essenzialista, gli ambiti del controllo riguardano soprattutto il sesso e tutto ciò che gravita attorno a esso.
Un controllo così fragile non può che affermarsi attraverso forme di violenza e sottomissione. Per permettere questo, fin da giovani alle bambine viene insegnato a fare le donne, a sottostare a questo potere così da assicurarlo.
« La più grande violenza di cui si macchia il patriarcato è far credere alle donne che meritino quello che viene inflitto loro – come in un ciclo infinito, spezzarci in modo tale che le nostre figlie siano spezzate. »
Il Mostruoso Femminile, Jude Ellison S. Doyle
« Se questo significa insegnare alle ragazze a odiarsi o a considerare la propria sessualità come il peggior abominio immaginabile, così sia. Cosa potrebbe mai andare storto? » Ancora una volta, le donne trans rappresentano un’eccezione alla regola d’oro del patriarcato: sono donne cresciute dalla società come uomini, quindi donne che non hanno imparato lentamente a sottomettersi. Se le donne rappresentano in tutto e per tutto l’opposto dell’uomo – quindi in una cultura patriarcale disegnata su misura d’uomo, l’opposto dell’umanità – la donna transgender è inclassificabile, abominevole e spaventosa.
Ogni regime ha bisogno di giustificazioni, e anche questo sistema di dominio ha le sue motivazioni per rendere il femminile una colpa, i corpi che lo rappresentano sbagliati e quella di viverli libere dai canoni imposti una scelta esecrante. Quella principale, abbiamo visto, è la sessualità incontrollata e il potere cerca di guidare le fasi cruciali di questo processo: le mestruazioni, la gravidanza e la maternità. Questo avviene « non perché tutte le donne abbiano il ciclo, rimangano incinte o crescano bambini, ma perché quei processi hanno finito per identificare la totalità dell’essere donna ». Se lo fai, devi, se non vuoi o non puoi allora non sei una donna ma un mostro.
È così che si delinea l’errore in questa formula matematica essenzialista: tutto ciò che rema contro l’affermazione del potere maschile è sbagliato. Quindi chi per la stessa teoria ha un corpo funzionante ma non vuole metterlo al servizio del potere è un mostro e chi non ha quelle funzioni lo è in egual misura e deve essere fermato.
Il potere sui corpi non conformi alla struttura del dominio maschile viene manifestato come odio, abuso o delegittimazione dell’autodeterminazione. In Trilogia Esplicita (Feltrinelli, 2019), graphic novel autobiografica di Fumettibrutti, la colpa che la protagonista sperimenta non è personale, ma riflessa e anche tutti i personaggi che la circondano soffrono la stessa sorte e la definiscono attraverso il marchio posto sulla sua condizione.
Già dal primo volume, quindi all’inizio del percorso di transizione, P., la protagonista, è consapevole di quello che l’aspetta. La strada è lunga e la sofferenza è assicurata. Innanzi tutto, P. sa che uno dei motivi per il quale subirà discriminazione è perché ha tradito i maschi: « chi vorrebbe essere una donna se per diritto di nascita puoi avere tutto? » Se al gioco dell’assegnazione del sesso hai vinto il maschile, perché scegliere la discriminazione?
Un altro fattore forgiato dalle figure mitologiche che arriva fin dentro le pagine di Fumettibrutti è quello dell’inganno. I mostri, per essere tali, devono avere un obiettivo malvagio. In una vignetta il padre della protagonista ha un momento di profondo sconforto ricordando come una volta un tassista avesse fatto salire lui e altri ragazzi in macchina per salvarli da un gruppo di ragazze transgender con cui stavano parlando. L’obiettivo del mostro è l’inganno, il fingersi donna per attirare a sé uomini ignari e fargli provare desiderio per qualcosa che ripudiano e rigettano. Il fatto che le persone trans abbiano o meno questo intento non fa differenza, è la loro esistenza, il loro corpo non conforme a renderle colpevoli.
All’inizio del suo percorso P. ha una conversazione con una psicoterapeuta del centro in cui si reca per la diagnosi di disforia di genere. La dottoressa, in un momento di confidenza le dice:
« Fa davvero così paura la diversità? Il percorso di medicalizzazione tende a normalizzare i corpi. Ma se la smettessimo e accettassimo le differenze? Non importa se all’asilo ti mettevi una gonna, o se qualche mese fa hai tagliato i capelli a riprova del tuo essere donna. Se tu sei donna lo sai già. Io dovrei solo indirizzarti nella maniera più giusta verso quel che senti, al tuo modo di prenderti cura del tuo corpo. Qualsiasi sia il tuo modo di vedere, con o senza interventi. E’ come se, secondo il percorso, voi corpi aveste sempre bisogno di un invisibile consenso da parte di coloro che vivono nel sistema binario maschio-femmina. Perfino per decidere se fare pipì in piedi o seduti, come se voi non foste vostri, come se qualsiasi vostra azione o scelta vada ponderata per non sconvolgere la maggioranza. »
Trilogia Esplicita, Fumettibrutti
Nonostante la fiducia della protagonista nelle parole della dottoressa, P. affronterà il suo percorso come il binarismo di genere comanda. L’ultimo capitolo della storia inizia nei corridoi di un tribunale, Yole è con la sua legale che le dà dei consigli per risultare il più credibile possibile per ottenere la sentenza di cambio dei documenti circa il nome e il sesso.
Dopo l’udienza l’avvocata le farà i complimenti per il comportamento di Yole in aula: per ottenere qualcosa da questo sistema bisogna sottomettersi, sembrare quanto più tradizionali possibile: solo così qualcosa di così essenziale come il tuo nome potrà esserti concesso e sarà così difficile perché ancora una volta tu devi sentirti sbagliata, un mostro che vuole somigliare a una donna.
Il potere maschile si scaglia con tutta la sua brutalità sui corpi trans, le sue forme sono la frammentazione, l’oggettificazione, la spersonalizzazione, la delegittimazione e la cancellazione delle identità contro cui inveiscono e, quando questo non basta, la violenza diventa fisica.
Nel 2017 – l’anno in cui si registrarono più omicidi di persone trans da quando vengono contati – il New York Times riscontrò che in media negli Stati Uniti una persona transgender su due veniva uccisa. Nell’ultimo rapporto del TGEU, Trans Europe and Central Asia, 350 è il numero di casi di omicidio di persone trans riportati come tali a livello globale, tra il 1º ottobre 2023 e il 30 settembre 2024. Ovviamente si tratta di cifre al ribasso, poiché questo sistema può tracciare solo quei casi in cui, all’interno della denuncia, la persona trans è riconosciuta come tale giuridicamente, mentre la maggioranza di questi omicidi sono femminicidi (94%) ai danni di donne transgender.
« Nella celebre scena del serial killer Buffalo Bill, pensata per essere uno dei momenti più scioccanti e disturbanti del film, guardiamo qualcuno, che ci viene presentato come un uomo, nascondere il pene tra le gambe, indossare una parrucca fatta da uno scalpo di donna, ondeggiare e ballare al ritmo di musica. Crescendo, mi ricordo quante volte ho sentito dire che questa era una delle immagini più strane e inquietanti del cinema moderno. L’atto di mettersi del trucco e una parrucca, nascondere e cercare di apparire quanto più belle e femminili possibili è qualcosa in cui molte di noi donne trans possono immedesimarsi. È qualcosa che molte di noi donne trans hanno fatto. E qui è, invece, il paradigma dell’horror. »
“Who’s Afraid of the Big Bad Trans Woman? On Horror and Transfemininity”, Mey Rude
Nell’immaginario della cultura patriarcale la donna trans appare, con il suo pene e le sue forme di donna, fiera e spaventosa perché capace dell’atto penetrativo. Questa è a tutti gli effetti la figura mitologica dei giorni nostri. Come facevano i potenti nel medioevo con le streghe, i potenti di oggi dedicano discussioni parlamentari e propaganda vorace all’argomento. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla politicizzazione massiccia di questi corpi e di queste vite, sulla base di vere e proprie credenze mitiche: l’ideologia gender vuole rendere tutti fluidi, distruggere il binarismo e con esso mettere in discussione le fragili fondamenta del patriarcato.
I corpi delle donne e quelli non conformi alle regole culturali vigenti sono condannati alla sottomissione e alla marginalizzazione e, quando scelgono di non piegarsi, la loro condanna diventa quella di sopportare una violenza aggiuntiva che, quando non propriamente fisica, diventa quella del giudizio morale basato su mitologie antiche ricondizionate per servire le vecchie paure di oggi.
Lascia un commento