Pietruzze di gomma abbondano sul pavimento dello spogliatoio come briciole di torta caprese sulla tovaglia della domenica. Chiazze di umidità e segni di tacchetti macchiano le quattro pareti, un tempo bianche. La luce ballerina racconta di un impianto elettrico che sta in piedi alla bell’e meglio. Gli olezzi combattono tra loro per il titolo di più nauseabondo. Il mix ruggine e urina dei cessi sfida in finale la coppia sudore e deodorante spray. 

Imbevuti nell’effluvio e in penombra, i ragazzi della Red Tower Football Club scrostano via dai loro corpi sporcizia e stanchezza. L’acqua delle tre docce, di cui due mezze rotte, scorre in un flusso avvilente. Le bestemmie dei semi-atleti si stemperano alla scoperta di una temperatura dignitosamente tropicale. Il tutto sarebbe quasi sopportabile se dal finestrone che arieggia lo spogliatoio non facesse capolino una preoccupante nube all’aroma di benzene. Sono i fumi tossici delle fabbriche vicine che invadono gli ambienti sportivi al primo soffio di libeccio.

La Red Tower è un gruppo scalcinato di amatori del pallone. Sono una ventina di uomini, soprattutto trentenni, che si vedono una volta alla settimana per tenersi un poco in forma – o forse avvelenarsi lentamente – e per alleggerirsi l’esistenza. Stasera piove e gran parte della squadra, composta perlopiù dagli addetti alla sicurezza del Red Tower Chinese Megastore, è assente per il turno di notte del lunedì. I sette presenti, sudati e infreddoliti, si godono – senza dirlo ad alta voce – quella piacevole informalità che regna in ogni spogliatoio. Quella che si crea solo tra simili col pisello all’aria. 

«Dicono che i campi in erba sintetica sono tossici» esordisce Enzo stando attento ad evitare il congiuntivo per non spaventare la platea di signori insaponati. «Entro il 2030 devono cambiarli tutti» continua il giovane. «Il problema è il polietilene… ceh le microplastiche dei filamenti», conclude incerto.  

Enzo ha l’età dei figli di alcuni dei suoi compagni di squadra, ma avrebbe così tante cose da insegnargli che talvolta si sente come un maestro elementare. 

«Ho sentito, ho sentito. Ma non è che ci credo assai» risponde Nello, mezz’ala di rottura ventottenne, da pochi mesi guardia giurata. 

«Sossingero me pare ‘na cazzata pure ammè» si accoda Franco, portierone trentaduenne illetterato che conserva speranze mal riposte in una carriera attoriale. 

«Seh seh mo’ lo cambia il campo Zio Nanni» mormora dalla panca il capitano-poliziotto, ancora in pantaloncini. Gionni, questo è il suo nome all’anagrafe, è impegnato a scegliere la GIF da inviare nella chat del corpo di polizia. Optato per l’esilarante Salutame a soreta di Barbara D’Urso, continua:

«C’ha messo quindici anni a capire che la gente non affittava il campo perché schifava la terra battuta, mo’ che ha fatto il sintetico col cazzo che lo leva. Si incatena all’inferriata altro che cazzi».

Enzo sorride per compiacere i compagni, ma mentre osserva il rituale macabro della loro asciugatura si promette di non diventare mai niente di simile. Li trova incapaci di ogni esternazione di grazia, ne compatisce la mediocrità e per qualche motivo sospetta in ognuno un’infelicità cronica. Eppure, da come dicono, non gli manca nulla. Sono dei grandi lavoratori, questo glielo riconosce, e anche – da quanto dicono – dei grandi “casanova”. Certo, Enzo sa che la realtà è filtrata dal racconto di uomini in calzoncini che si imbellettano con le parole per una platea di altri uomini in calzettoni e tacchetti. E però pensa che non hanno più quindici anni. Sono adulti, uomini accasati, il problema della bugia non si pone. 

Ad ogni modo, Enzo raggela ogni volta che realizza che lì fuori, nello stesso mondo che lui frequenta, ci sono donne interessate a questi buffi abbozzi di macho. In effetti, i “rodolfovalentini” qui parlano spesso di donne, quasi sempre. Della propria moglie, della donna che frequentano, delle donne che vorrebbero frequentare. Parlano di donne, sia tutte intere che a pezzi. Ad esempio ora Aldo l’infermiere irrompe nello scenario poetico contemporaneo con una pregevole metonimia: «Quanta gnagna giù da me stamattina, mammamia».

Il giovane Enzo punta le orecchie. Eccolo lì il tepore del clima da caserma. Vuole godersi lo spettacolo. Ne immagina il titolo alla Wertmüller: Uomini adulti, poco scolarizzati, funambolici sul filo dell’indicibile, disquisiscono del genere femminile. Un grande classico. Il Citizen Kane dei discorsi da spogliatoio.

«Veramente? Devo venirci più spesso giù da te allora» ribatte Dennis, l’ala destra-macellaio, compaesano dell’infermiere. 

«Sembra essere un gran posto» aggiunge Enzo per buttare benzina sul fuoco.

Prima che possa ricevere risposta la discussione si perde nel rumore dei fon e sfuma negli abbracci (mascolini!) di congedo dei più lesti a rivestirsi. Dopo i saluti, Nello e Franco escono facendo schiamazzare la porta difettosa. Aldo e Dennis li seguono a ruota borbottando tra loro in una lingua di onomatopee sguaiate. Lo spettacolo sembra essere rimandato. 

Enzo aveva storto il naso in qualche occasione, ma a dirla tutta, erano molte di più le volte in cui aveva accolto con grandi risa le bestialità dei compagni. Spesso, senza farsi vedere, si segnava sulle note del telefono le stronzate più riuscite. Quasi sempre, il colore di quelle parole sbiadiva appena oltre la soglia dello spogliatoio. A rileggerle erano poca cosa, ma Enzo le riportava comunque a Paolo tentando di conservare lo spirito originario. Capitava che telefonasse in piena notte all’amico per leggergliele. 

«Senti questa: Ma su ‘sto 48 de piede ce paghi l’imposta aggiuntiva?». Enzo rideva da solo nel buio della sua camera: «Come cazzo ti viene in mente ahahah»

«Zì ma non c’ha manco senso, cazzo me lo dici a fare» stemperava Paolo.

Enzo non lo calcolava e continuava per tutta la notte.

«Che idioti, gli voglio troppo bene».

Le volte in cui il machismo era venuto a galla con più vigore erano state un paio. Enzo ricordava queste:

  1. quando Mimmo il rigorista, detto il lord, aveva calzato delle ciabatte chiuse per evitare complicazioni micotiche, la preoccupazione «frocio?» era parsa ai più condivisibile, oltre che genuina. Enzo pensò che se fosse stato omosessuale, in quel momento, non lo avrebbe detto. Allontanò il disagio in un «menomale».
  1. quando Amelia, la figlia del custode del campo, aveva erroneamente aperto la porta dello spogliatoio numero 5, invece che del numero 4. Ci fu prima silenzio imbarazzato. Poi una voce: «Mi dispiace solo che m’ero già rivestito. Sennò mica usciva così presto». Era il lord che forse voleva allontanare i sospetti di cui sopra. Enzo pensò che fosse sì una battuta, ma che comunque a lui non sarebbe venuta in mente. 

Stasera però la questione è diversa. Stasera c’è aria di violenza. Tutta insieme, improvvisamente. Nello spogliatoio ci sono tre uomini. E c’è la violenza. I tre uomini sono Enzo, il capitano Gionni e Antimo. E la violenza è con Antimo. 

«Ringrazio solo che tengo il cric nel cofano».

«Che?» reagisce brusco il capitano.

«Quella cessa. Angela», dice Antimo digrignando i denti.

«Bel rapporto vedo».

«Appena la vedo je spacco la capoccia».

«Eh figurati, vent’anni di galera chi te li leva. Ti conviene», ironizza Gionni.

«Eh ma vuoi mettere come me li faccio contento. Almeno i primi dieci proprio a soddisfazione».

«Ma stai bene?», chiede ora serio il capitano.

«Come no, sto benissimo. Je faccio vede’ come sto bene stasera», risponde Antimo tamburellandosi nervosamente il ginocchio con le dita.

«Non ti piace proprio sta’ tranquillo a te».

«Frate’ ma ti voglio vede’ a te se ti succede come m’è successo a me poi che fai. Voglio vedere chi non torna a casa col cric».

Il capitano scuote la testa e sbatte i tacchetti sulla panca di legno. Canticchia un ritornello scialbo e prova a distogliere l’attenzione dalla furia che sta mangiando Antimo dall’interno.  

«P-posso chiedere che è successo?», azzarda Enzino rimasticando le parole appena pronunciate.

Il capitano gli lancia un’occhiata infuocata, ma Antimo procede «Come no, bimbo».

«Devi sapere che le femmine…»

  • Il discorso di Antimo raggiunge picchi di scelleraggine che la finzione letteraria potrebbe non riprodurre con la stessa glacialità della vita vera. Lo lasciamo dunque immaginare al lettore.  

«Frate te lo dico col cuore. Te devi fa’ cura’» commenta il capitano ponendo fine allo sproloquio. 

«Beh, è facile pensare così se le donne stanno al loro posto», rincara Antimo dopo una tregua di qualche minuto.

«No! Non ricominciare che non ce la posso fare. Fammi una cortesia, vieniti a mangiare una pizza con me».

Antimo scuote la testa e dice: «Non è per te, è che la pizza mi rimane sul cazzo dopo l’allenamento».

«Sei stronzo proprio, che me ne fotte. Andiamoci a mangiare una cosa» ripete Gionni, «però parliamo di altro».

«Viene pure Enzino però», ribatte Antimo.

«No, ragazzi scusate io devo scappare». 

«Certo, Enzino non c’ha nulla da fare», fa il capitano minacciando il giovane con uno sguardo truce. 

«V-va be’. E dove andiamo?».

Tempo venti minuti e i tre sono da Jerry, al Jolly Truck. La nube tossica che avvolge le loro auto annuncia un menù a base di animali abbrustoliti. Jerry è un’istituzione per chiunque abiti quella zona desolata di mondo. È un ex pugile con i pugni tozzi e il corpo come i pugni. Nel 1986 ha iniziato a vendere panini dal suo camioncino e da allora è aperto sei notti a settimana. I maligni vogliono che il Jolly sia una copertura per giustificare i suoi guadagni da allibratore. La verità è che l’attività va molto bene, perché i panini sono buoni. 

Visto da fuori, l’ex stadio in mezzo al quale si staglia il camioncino di Jerry ha l’aria di una rovina. Un’arena di epoca romana, abbandonata più o meno dal tempo dei goti. I gradoni in acciaio sono ormai nascosti da una giungla di sterpaglie, dalla quale si indovinano giusto qualche coccio di ceramica bianca, qualche squarcio di pneumatico e parecchie lattine di birra.

Antimo è di casa da Jerry. Lo fa notare salutando con due baci sulle guance tre quarti dei clienti. Gionni ci andava qualche anno fa con il suo vecchio gruppo a farsi le canne. Chiaramente non ci mette più piede da quando è entrato in polizia. Quanto a Enzo, nemmeno a dirlo, non ci è mai venuto da Jerry. Tutti e tre continuano a guardarsi intorno mentre addentano le loro prede: Antimo per vedere se c’è qualcun altro da abbracciare; Gionni per evitare di sbattere contro qualcuno dei suoi vecchi amici; Enzo per capire dove si trova. 

Quando i loro stomaci sono abbastanza colmi da pretendere una pausa dalla masticazione i tre concludono con degli sguardi complici che da Jerry non si sta affatto male.

 «Ne avevo proprio bisogno. Dopo il campo serve sempre una pausa prima di tornare a casa». Lo dice Gionni ma lo pensano anche i due commensali. Antimo si apre in un sorriso ampio e sincero. Sembra un parente lontano di quel figuro inquietante che evidentemente si porta dentro e che è pronto a sfoderare in caso di necessità.

 «Ci serviva davvero sta serata. Grazie bello. Sei un capitano vero».

«Grazie di che? Tu sei un pezzo di cuore per me, lo sai» replica Gionni con voce più sottile del solito.

«Fratello mio…» dice Antimo distendendo il viso in un nuovo sorriso, ancor più ampio e ancor più sincero.  

Enzino arriccia la bocca intorno alla cannuccia della cocacola per evitare di imbarazzarsi del suo stesso silenzio. Li studia, come fa sempre, ma stavolta gli si legge sul viso un’ammirazione tanto palese quanto misteriosa. Sa bene che i suoi occhi stanno brillando alla vista di questi due energumeni innamorati dell’amicizia. Si sforza di non fissare per troppo tempo l’uno o l’altro, e ogni due e tre distoglie l’attenzione dal quadretto commovente e finge di dare una scorsa alle notifiche di Whatsapp.

Di notifiche non ce ne sono, e c’è un motivo. Per compiacere il capitano, Enzino aveva rinunciato a un appuntamento con Marisa, una studentessa al primo anno di lettere. La delusione della ragazza era così evidente che al messaggio di scuse di Enzo aveva risposto con un gelido “ok”. Nel tragitto verso Jerry, Enzo aveva consumato quel poco che rimaneva delle sue unghie maledicendo la sua assenza di spina dorsale. Eppure, ora si scopriva fiero della sua pseudo-scelta. C’è qualcosa in questi uomini che nessuna conversazione su Dostoevskij gli potrebbe mai dare.

«Oh trattala bene, che me devo preoccupa’ pure de te ora?» 

Enzino stacca gli occhi dallo schermo con un sussulto. 

Gionni gli posa la mano sul braccio per rivelare l’intento complice.  «Si vede che stai a pensà a la pischella tua. Guardi il telefono e c’hai gli occhi innamorati». 

Enzo lascia intendere con un mezzo sorriso che è proprio così. È certamente la passione per il gentil sesso che gli illumina il volto, cos’altro sennò? L’imbroglio pare riuscire e infatti l’attenzione dei compagni di squadra è già rivolta ad altro. La figlia di Jerry sfila vicino ai tre sollevando un numero eccessivo di tavolini di plastica, impilati uno sull’altro. I maschi la seguono con lo sguardo e fingono di offrirle una mano. Enzo segue lo sguardo dei maschi e finge di fingere di darle una mano. Nel frattempo si dice che forse gli fa gioco omettere di essersi impiccato un sicuro accoppiamento per un’uscita a tre con uno sbirro e un futuro galeotto. Questa consapevolezza è più amara che dolce.

Per quanto tempo dovrà accontentarsi di essere impalpabile? Arriverà il momento in cui smetterà di temere il giudizio di questi uomini che lui giudica di continuo? Sa bene che è la sua incapacità di imporsi, ancor più che la sua giovane età, a costringerlo ai posti più scomodi nello spogliatoio e ai saluti non ricambiati all’uscita dal campo. Sa bene che è la sua timidezza a portare il mister a concedergli sparuti ritagli di partita (rigorosamente contro le squadre cuscinetto). 

In effetti, Enzo sarebbe pure un gran bel giocatore, ma a questi livelli la legge del più forte, ovvero del più cattivo, non prevede deroghe di sorta. Difensore centrale mancino, abile nel fraseggio ed elegante nella prima costruzione, Enzo ha più talento, più fiato e più cervello del suo diretto concorrente, Max l’elettrauto, detto “il cric”. Tuttavia, manca di ruvidezza in maniera clamorosa. Lo dimostra il suo rapporto calcioni sferrati alla punta avversaria per minuto, uno tra i più bassi mai registrati in terza categoria. 

Più di una volta Enzo era stato sul punto di chiedere al mister di essere spostato più avanti, in una zona del campo dove essere un “bravo ragazzo” fosse un handicap minore. Aveva però immaginato lo sguardo perplesso del vecchio stratega, le sue uscite paternalistiche, e aveva desistito. Desistere, questo è il suo ruolo. Forse lo sarà per sempre. E se smettesse? Come cambierebbe la sua vita? E la sua serata? Come reagirebbero Gionni e Antimo se tutto a un tratto sciogliesse le inibizioni e rivelasse ciò che pensa di loro? Chi lo può sapere. 

Non succederà mai. Enzo rimane in silenzio e il resto della serata si consuma in un clima generale da commedia all’italiana poco ispirata. Qualche osservazione piccante del poliziotto, qualche occhiata maliziosa di Antimo alle (poche) donne presenti, qualche risata colpevole del giovane. Grande rilassatezza, grande complicità, il peggio è decisamente passato. O meglio, la cosa strana è che sembra essere passato proprio tutto. La violenza che poche ore prima aveva imbottito le pareti dello spogliatoio ora è un ricordo così lontano da far sorgere il dubbio di non esserci mai stata. A Enzo, Antimo era sembrato un mostro, poco ma sicuro, ma tra il sembrarlo e l’esserlo forse la distanza è maggiore di quanto si pensi. Ritornando a quei momenti, il giovane oscilla tra due giudizi contraddittori: 

  1. Antimo è un fessacchiotto come ce ne sono tanti, uno pseudo-bulletto da quartiere con un passato difficile. Ma guardalo. Si capisce che ha il cuore tenero in fondo. Non farebbe male a una mosca.
  2. Antimo è un perfetto profilo di uomo possessivo e ignorante. Se la frustrazione di cui si nutre la vomitasse tutta insieme nessuno potrebbe stupirsi di vederlo sulla cronaca nera. 

Fessacchiotto o killer che sia, Antimo scende dallo sgabello e fa intendere con uno sbadiglio che gli espone l’ugola di essere in procinto di accomiatarsi. Gionni risponde abbandonando anch’egli la seduta e aprendo a sua volta le fauci come un leone appena destatosi da un lungo sonno. Enzo pensa alla diceria per cui si viene influenzati dallo sbadiglio della persona che si ama. Una risata furtiva accompagna l’immagine dei due maschioni accoccolati sotto le coperte a scambiarsi effusioni. Si chiede per un attimo da dove arrivi questa punta di omofobia che ogni tanto gli si mostra. Smette presto di indagare e scende pure lui dallo sgabello. 

Sono le ventitré e qualcosa. Dopo quattro baci dati e quattro baci ricevuti a testa, ognuno si dirige verso il proprio mezzo di trasporto. Il capitano ha già in mente la programmazione del suo post-serata. Guarderà le repliche di Uomini e Donne, manderà un messaggio di buonanotte a una vecchia amica con cui intende passare al livello successivo, si accenderà uno spinello. Infine sprofonderà in un sonno profondo, come sempre gli accade dopo l’allenamento.

Antimo invece tamburella sul volante mentre si chiede come andrà a finire con Angela. Scoprirà al click della serratura se, come pensa, la donna lo sta aspettando in cucina per discutere o se, in via precauzionale, si è già rintanata nel letto, dove finge di dormire e di non volerne sapere più niente, almeno per stasera. I due scenari gli si proiettano in contemporanea davanti al parabrezza. In uno le urla, i piatti divelti sul pianerottolo, i vicini, forse l’ambulanza. Nell’altro il silenzio, i passi ovattati sul pavimento, due corpi vicini, forse l’amore.

 Quando Enzo gira le chiavi nel quadro della macchina, Antimo e Gionni sono già sul vialone che si sfidano a chi arriva prima al semaforo successivo. «La solita cazzo di lentezza» si dice il ragazzo mentre sfiora in retromarcia un ceppo risalente al tempo di Caracalla. Finalmente varca il cancello di Jerry e si immette sul vialone procedendo d’istinto in direzione opposta rispetto a quella dei compagni di squadra. Neanche il tempo di alzare i giri del motore fino a inserire la terza marcia che deve accostare per consultare il navigatore. Non ha idea di dove si trova. Sa solo che in quelle zone si è optato per la totale assenza di indicazioni stradali. Forse una strategia per complicare le discese dei barbari invasori. Trentacinque minuti dice Google Maps, quarantadue evitando i pedaggi autostradali. Enzo sceglie la soluzione al risparmio. Completa un’inversione a U e segue la scia dei compagni, ormai invisibili. Al terzo semaforo rosso di fila l’alienazione prende il sopravvento. Prosegue in direzione retta senza sbattere le palpebre. È poco più che un’appendice dell’automobile. Mentre modula incosciente frizione e acceleratore una vibrazione lo ridesta. Enzo agguanta il cellulare con la vigoria che servirebbe per sottrarlo a un titano e fa per replicare immediatamente. È Marisa. L’imprevista scarica di adrenalina gli lava via la stanchezza di dosso. «Parliamo un po’?» recita il messaggio. Sa di dover riacquistare punti e gli sembra che il mondo gli stia offrendo una seconda chance. Prova a rispondere con una nota vocale ma si sorprende nel sentire una sottigliezza degna di un corista di voci bianche. Tossisce forzatamente per recuperare il timbro originale, ma ormai è impossessato dallo spirito di una quindicenne. Registra e cancella cinque volte. Perde tempo prezioso e per poco non termina la sua corsa nel paraurti della Smart che lo precede.

«Se non ti va non c’è problema» rincara Marisa. Enzo percepisce un nitido desiderio di morire. Stacca lo sguardo dal parabrezza per una quantità di secondi preoccupante e corre ai ripari scrivendo che va benissimo sentirsi, ma che ora è alla guida. Refusi a parte gli sembra una risposta corretta. La ragazza replica fredda. Enzo rilegge la risposta appena inviata e di colpo non gli sembra più tanto corretta. «Che cazzo però!» sbotta il giovane riempiendo di aria l’abitacolo. La voce gli si è fatta più mascolina. Ingrana l’ultima marcia e accelera per raggiungere in fretta la zona industriale. Rallenta alla vista di una colonna di fumo nero. Abbassa il finestrino e si lascia invadere dalla nube pestilenziale. Inspira a pieni polmoni e la bocca gli si fa amara. Sbraita volgarità gratuite. «Mi sono rotto i coglioni». Va meglio. Bestemmia. Meglio ancora. Percepisce il livello di testosterone che gli si alza di una tacca, poi di un’altra, di un’altra ancora. Ora che il serbatoio è pieno ha finalmente il volto di un uomo. Le dita digitano in autonomia. 

 «Scendi tra dieci minuti. Non accetto un no».

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