Siamo sempre più depressi, ce lo ricordano le tv, i quotidiani e le riviste a cadenza regolare. Ogni settimana ospitano nei loro spazi approfondimenti e notizie utili a far riaffiorare – come in un rito punitivo – il trauma collettivo di questo processo degenerativo. Più siamo giovani, più siamo depressi; ed è questo qui l’altro dato infestante che rende l’azione di guardare al futuro apaticamente dolorosa.
Apaticamente, perché – oltre alla correlazione sintomatica che frequentemente si presenta tra depressione e apatia – il discorso sul peggioramento delle condizioni psicologiche dei giovani è diventato nel tempo un luogo comune, una chiacchiera da bar, si sa, è un dato di fatto rispetto al quale ci sentiamo impotenti.
La sensazione di impotenza genera reazioni improduttive, disfunzionali, che il più delle volte ci relegano al ruolo di spettatori della perentoria e inarrestabile crescita dei trend, la naturale conseguenza di un problema che non stiamo affrontando.
Anche se i più potrebbero fiutare traccia di un discorso qualunquista, tra le motivazioni che hanno portato all’esponenziale impennata delle curve sui grafici ci sono le nuove tecnologie e questa affermazione è scientificamente corretta. Andando oltre la superficialità delle conclusioni da boomer – per cui qualsiasi comportamento opinabile di un giovane viene liquidato con frasi del tipo “stanno sempre attaccati a quei cosi”, “noi alla vostra età non eravamo così (accezione negativa)”, riassumibili nel triste e malinconico mantra: “si stava meglio prima” (… o “un gettonatissimo esercizio di terapia affermativa per gettarsi alle spalle la responsabilità di accettare, prima, e per capire, poi, un mondo che cambia”, nda) – le nuove tecnologie determinano molte delle condizioni che alimentano il nostro malessere mentale.
In termini di rischio, imperano su tutte le altre due strutture di svago cerebrale contemporaneo: i social network e i videogame. Per dirla meglio, con rischio non si vuole intendere che svolgere queste attività causi direttamente l’insorgere della depressione o di altri disturbi psicologici, quanto piuttosto che passare ore a scrollare i social o a giocare ai videogiochi – al di là dei problemi alla vista, postura, cardiovascolari, ecc. – predispone alla possibilità che a livello neurale il nostro circuito di produzione e rilascio della dopamina sia costantemente in funzione, quindi sovraesposto. Questi tipi di attività ci permettono di mantenere attivi i neuroni dopaminergici per un tempo potenzialmente infinito, quindi il nostro sistema di ricompensa, cioè il gruppo di strutture neurali responsabili della motivazione, dell’apprendimento associativo e delle emozioni positive, sarà sovrastimolato – per dirla in breve: creano dipendenza. Inoltre, capire quando avvenga il passaggio dall’assuefazione fisiologica all’abuso sistematico non è facile.
Negli ultimi anni si è parlato spesso del fenomeno degli hikikomori, quei giovani che sentendosi schiacciati dalle pressioni sociali si rinchiudono in casa limitando le loro interazioni con gli altri a quelle che avvengono online. La riluttanza a uscire di casa è multifattoriale, può essere dovuta a disturbi del sonno, fobie sociali, disturbi d’ansia ma anche depressione. La dipendenza da Internet è la conseguenza naturale di questa condizione, che contribuisce a cronicizzarla.
E’ difficile stimare quante persone vivano effettivamente questa condizione: nel 2023 l’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa ha pubblicato un’Indagine sul ritiro sociale volontario dei giovani italiani. Il target dello studio era rappresentato dagli studenti delle scuole superiori – dai 15 ai 19 anni, il periodo nel quale si manifestano i primi comportamenti volti alla ricerca dell’isolamento – di tutta Italia. Dai risultati è emerso che il trend è in crescita e riguarda – secondo le stime del Cnr di Pisa – tra l’1,5 e il 2% degli studenti.
Il fenomeno dell’isolamento sociale viene attribuito generalmente al genere maschile ma lo studio non rileva significative differenze di genere nel presentarsi della problematica. Maschi e femmine subiscono pressioni sociali in egual misura e, soprattutto quando all’esterno non trovano aiuto o comprensione rispetto alle loro problematiche, cercano rifugio nella solitudine.
Anche le attività che i ragazzi e le ragazze in stato di isolamento svolgono sono per lo più le stesse e nella top ten, senza troppe sorprese, troviamo i social network e i videogame – che, come abbiamo già detto, sono impieghi cerebrali che hanno un’elevata probabilità di causare dipendenza, soprattutto in condizioni di vulnerabilità.
Mentre le ore trascorse sui social sono pressoché le stesse sia per le femmine che per i maschi, per quanto riguarda i videogiochi online la situazione cambia sensibilmente. Il 59.8% dei ragazzi impegna il proprio tempo giocando ai videogiochi – a fronte del 18.5% delle ragazze. Questo è l’unico dato che evidenzia una differenza sostanziale nell’impiego del tempo in isolamento tra i due generi.
Nella propria stanza, come in un eterno stato di convalescenza, i ragazzi hikikomori si spostano dal letto alla scrivania: la postazione pc diventa l’unica finestra di connessione con gli altri e il solo luogo dove trarre piacere grazie al meccanismo di ricompensa dopaminico sul quale i videogiochi sono costruiti. Se questa è la loro principale attività, oltre a chiederci perché, dobbiamo anche interrogarci su qual è l’aria che si respira nell’ambiente delle loro nuove, e spesso esclusive, interazioni sociali.
Quello che rende l’ambito dei videogiochi un ambiente maschile non è tanto la loro presenza – le videogiocatrici sono sempre di più – quanto l’ideologia che ruota attorno a questo mondo: maschilista, razzista, omofoba e violenta. Tutto quello che circonda l’universo dei videogame – dalle piattaforme direttamente correlate come Steam, Discord e Twitch, ai vecchi forum, passando per 4chan, gruppi Facebook e thread di Reddit – replica in qualche modo il meccanismo tossico del branco, del gruppo che si spalleggia e i giovani uomini sono spinti a ricercare questo tipo di dinamiche tanto irl quanto online.
Sulle motivazioni che spingono i ragazzi a cercare e frequentare questi ambienti – sia che essi siano reali, sia che siano virtuali – si sono spesi anni di ricerca nell’ambito sociologico, psicologico, degli studi di genere e numerose sono state le riflessioni filosofiche e intellettuali. Quello che è certo è che si tratta dei risultati di una cultura non esplicita ma ben radicata, che viene perseguita con cieca determinazione dalle sue stesse vittime e tramandata ai più giovani e che questo ha a che vedere con l’identità, il senso di appartenenza, la validazione sociale.
Esattamente un anno fa, lo Stern Center for Business and Human Rights della New York University diffondeva i risultati di uno studio intitolato Gaming The System: How Extremists Exploit Gaming Sites And What Can Be Done To Counter Them. Alle domande poste ai partecipanti il 51% degli utenti di videogiochi intervistati rispondeva ammettendo di essere entrato in contatto con ideologie estremiste in rete, e il 36% denunciava episodi di molestie subite durante le sessioni di gioco o in ambienti direttamente collegati (Steam, Discord) nell’ultimo anno. La presenza di ideologie estreme e di comportamenti violenti non sono una novità nelle chat room dei videogiochi e negli spazi di interazione online.
Anche se per molti anni si è attribuita ai giochi stessi la responsabilità di condurre, attraverso l’immedesimazione con i personaggi, i giovani verso condotte estreme, in realtà il problema più grande evidenziato nello studio è la scarsa moderazione e la riluttanza da parte delle aziende sviluppatrici nel fornire dati utili agli studi rispetto ai comportamenti degli utenti all’interno della piattaforma di gioco.
Nel 2014 si diffonde velocemente in rete un lunghissimo sfogo in CAPS LOCK tratto da un blog. A scriverlo è l’ex ragazzo di Zoë Quinn, giovane sviluppatrice, programmatrice e scrittrice di videogiochi americana. Nel blog venivano rivelate questioni intime riguardanti la loro storia come dettagli sulle loro discussioni, sulla loro vita sessuale, email e chat. Inoltre il ragazzo alludeva al fatto che l’ex avesse avuto una relazione con un giornalista che si occupava di recensioni di videogiochi. Solo un anno prima, Quinn aveva fatto uscire Depression Quest: il gioco aveva ricevuto numerose recensioni positive da parte delle riviste specializzate, mentre su l’allora Twitter e su Reddit le critiche erano state molte.
Il post sul blog è l’innesco per una discussione enorme che inonderà la nicchia su internet e che, anche se ufficialmente si proclamava come una lotta contro la corruzione e la trasparenza delle recensioni videoludiche, presto divenne un fenomeno di massa intriso di misoginia celebrato sotto l’hashtag di Gamergate e che costrinse a mettere in pratica azioni di tutela personale verso alcune figure esposte nel panorama dei videogiochi. Per molti il Gamergate è stato l’evento che più di tutti ha coinvolto e spinto alla radicalizzazione centinaia di migliaia di giocatori, contribuendo a connotare l’ambiente delle caratteristiche estremiste che sono visibili oggi.
L’estremismo assume la forma di molestie che individuano una vittima e la prendono di mira con intimidazioni e pressioni sulla base di caratteristiche percepite o immaginate come l’etnia, l’identità di genere, l’orientamento politico o quello sessuale. Questa dinamica, tipica dell’adolescenza, online è ancora più potente perché permette ai giovani membri del branco di rimanere anonimi, quindi anche di far parte di un gruppo dal quale nella vita reale sarebbero stati esclusi o presi di mira. Sembra paradossale, ma sono le motivazioni sociali che spingono i giovani all’isolamento – incomprensione, senso di esclusione, diversità, inadeguatezza – a dominare gli spazi nei quali questi stessi ragazzi cercano rifugio. Il disagio viene esorcizzato dalla violenza, che qui avviene nei confronti di qualcun altro, qualcuno che non ci sembra reale quanto noi.
I giovani sono particolarmente coinvolti negli episodi di estremismo violento, sia come vittime sia come esecutori. Rispetto ad altre fasce d’età, essi presentano maggiori probabilità di radicalizzarsi poiché agiscono in modo più impulsivo, hanno più fiducia in sé stessi e sono pronti a correre maggiori rischi, come hanno dimostrato alcuni studi […]. Inoltre, non avendo ancora raggiunto una collocazione stabile nella società, sono alla ricerca di valori e identità […]. Tale fase della vita diviene ancora più cruciale per i giovani che non si sentono integrati nella società dominante, sia a causa delle loro origini etniche o per la loro estrazione sociale, sia a causa del loro orientamento sessuale o dei loro problemi di socializzazione.
Valentina Guerrini – La prevenzione dei comportamenti estremisti nei giovani per una società più inclusiva e resiliente, 2022.
Se l’esperienza è materia, quella del soggetto ansioso, con problemi di natura sociale o depresso, la cui attività principale è quella di frequentare gli ambienti che gravitano attorno al mondo dei giochi online – quindi alla sua sottocultura tossica – è un’esperienza traumatica. Se il mondo fuori di casa non ti ha dato le possibilità di sentirti accolto e di comprendere e capire il profondo della tua individualità, come potrebbe farlo un mondo virtuale che impedisce l’incontro e la comprensione e privilegia i retaggi conservatori e intolleranti?
La componente dopante dei nuovi strumenti di svago tecnologici rende i discorsi profondamente correlati e obbliga ad affrontarli insieme, se si vuole restituire un quadro completo sul tema della depressione o rispetto a quello della tossicità di internet.
Quando si parla di queste tematiche spesso si commette l’errore di trattarle come se riguardassero specifici ambiti, circoscrizioni della realtà al di fuori delle quali le cose funzionano diversamente. La depressione rimane relegata a un ambito scientifico o medico e quando si parla di hikikomori, incel o di videogame l’approccio è quasi quello con cui si maneggerebbe un argomento esoterico. Internet riflette e estremizza dinamiche che esistono già nella società, inoltre le nuove tecnologie spingono verso la polarizzazione delle opinioni perché generano interazioni, che in rete si tramutano in profitto.
La cecità con la quale si affrontano i problemi della contemporaneità, l’apatia generazionale nei confronti delle questioni sociali e la resistenza nell’ammettere le criticità delle azioni istituzionali democratiche, superficiali e ininfluenti, fa trionfare la legge del più forte alla quale non viene posta un’alternativa praticabile. Alternativa che dovrebbe provenire almeno dalla scuola.
Man mano che il tempo passa durante le sessioni, i giocatori imparano a leggere i segnali audiovisivi, si adattano allo schema di controllo del videogioco accelerando la velocità di reazione, la loro competenza migliora naturalmente. Durante questo processo, i giocatori accedono a stati cognitivi di flusso, momenti di estrema concentrazione in cui si sincronizzano mentalmente e fisicamente con il gioco: lo spazio attorno si dissolve, il tempo si contrae e ci si lascia trasportare volentieri in quella che sembra una simbiosi con la macchina.
La postazione di gioco diventa un trono mortale, seduti sul quale si attende l’annientamento. Un comodo e confortevole luogo che priva dall’angoscia di interfacciarsi con l’inelaborato mutamento e il successivo decadimento di una materia organica che i giovani non hanno più gli strumenti per abitare.