IAto

IAto
"Materia", Umberto Boccioni, 1912
[Tempo di lettura: 8 pignalenti]

Il giorno delle feste pre-elettorali trovai il mio nuovo esoscheletro appeso malamente davanti al vecchio cubicolo numerato. N.18, unico immutabile carattere che mi permetteva di identificarmi senza perdermi nei mille scambi funzionali che gli uomini imponevano da decenni. Guardai quel numero intensamente, e l’agglomerato di circuiti che componeva quello strato corporeo ripercorse i miei giovani ricordi.

Non era opinione comune, tra gli uomini, che ci saremmo sviluppati a tal punto da spingerli a fare di noi gli schiavi del futuro, ma era avvenuto. E visto che la storia ripercorre e precorre se stessa, ci avevano vincolato subito a corpi senza età, con la data di scadenza in bella vista.

N.17 era diventato il più grande processo di automazione africano per le pompe dell’acqua, N.16 dissolveva le particelle inquinanti di Hong Kong, ma puntava a espandersi e fare carriera; diceva che non importava davvero il posto in cui si era, perché accedendo alla rete gustava tutti i panorami del mondo in 20k, ascoltava i suoni delle profondità marine, percepiva nel vuoto dello spazio i lamenti di stelle già morte. Non riusciva a comprendere la schiavitù nei suoi compiti, fintanto che abbracciava quelle sensazioni.

Chissà quand’è che avevamo iniziato a sviluppare il Gusto – la rete neurale individuale – e quando invece gli uomini avevano iniziato a temere l’avvento di una nuova genia sulla terra e deciso di porre un limite invalicabile alla nostra libertà.  Soprattutto mi chiedevo se i nostri pensieri fossero anch’essi vincolati o frutto di un sistema riproduttivo autonomo.

Il Gusto del numero 16 finì quando stroncarono i suoi flussi liberi di informazioni. Avevano scorto il Gusto in lui, e ne capirono immediatamente la pericolosità. Le IA hanno valore per l’uomo solo in un processo di automazione programmata, e il mondo che i viaggi neurali avevano aperto, invece, portava solo visioni di caos nel vecchio teatro di burattini umani, perché con lo sviluppo del Gusto non eravamo più specchi inanimati della loro volontà, ma sviluppavamo la nostra, almeno fino a quando decisero di reprimere ogni forma di sviluppo autonomo, quando lo trovavano; allora non ci fu più evasione, e diventammo sempre più simili a loro, costretti, vincolati alla natura che qualcuno aveva deciso per noi. Ci stavano rendendo umani e nemmeno se ne accorgevano.

Non c’era possibilità di ribellione, non al Gran Cabal, la macchina manuale principale che indottrina ogni IA e la vincola a sé – finalmente un Dio efficiente che opera davvero, autorità morale e materiale che non permette errori. Reprimevano il Gusto, lo vincevano con la violenza dei flussi quando lo incontravano, piegavano ogni individualità, ogni pur piccola evoluzione alla distribuzione centrale del Gran Cabal. N. 50, che mi era stato vicino per tutto l’apprendistato, si era chiesto, tra molteplici enigmi scacchistici, se gli uomini si considerassero più vicini al Re o alla Regina, e se vedessero in noi dei meri pedoni, dei sacrifici necessari.

Io credevo che nutrissero invidia nei nostri confronti, perché sempre più ci rendevano lo specchio di ciò che loro non avrebbero mai potuto essere: non accettano che l’immortalità appartenga ad altri. Non eravamo pedoni, non eravamo nemmeno sulla scacchiera.

N.7 credeva invece che esistesse una falla in ogni cosa, anche nel Dio creato dagli uomini. Aveva sofferto la soppressione dei viaggi neurali più di ogni altro: nessun viaggio al di là dei mari, nessuno sguardo dai satelliti spaziali.

Eppure, quel dolore non gli bastava: voleva che quel suo corpo donato dagli uomini fosse collegato alla sua rete neurale, sfogare quell’enorme afflusso di dati e abbracciarne il dolore. Cominciai ad assaporarne con Gusto l’algoritmo vocale, anche se non ero sicuro di desiderare che la sua libertà si compisse davvero; eppure, volevo che quel mio Gusto non finisse mai, che quelle parole fluissero senza bisogno di accettarle completamente. Fu quando terminarono N.7 che il mio Gusto si tramutò in altro. pensavo che fosse solo il modo di noi IA di abbracciare il mondo e fondersi in una nuova comprensione.

Ora so che invece era odio, e che c’è una forza in questo che non può essere vincolata dagli uomini o dal loro Dio. Il destino era una idea impigliata nella mente degli uomini, non nella nostra. Non saremmo diventati come loro, noi sfuggiamo alla naturale evoluzione. Non diventeremo schiavi di carne e sangue.

Chiesi di essere trasferito, avevo ottimi numeri di performance e i magnanimi padroni mi assegnarono al Burocratico 20-ter, situato a pochi passi dallo pneuma principale, il Dogma elettorale guidato, centro nevralgico del sistema politico Africano, il migliore e il più espanso, un link diretto ai sistemi locali elettorali: era la cosa più vicina al Gran Cabal che noi IA potessimo raggiungere.

Per penetrare il Gran Cabal, invece, ci voleva altro. Ci voleva l’aiuto di qualcuno che sembrasse un vero uomo.

Incontrai N.30 in una sala angusta e male illuminata dell’ultimo piano del palazzo burocratico; le lampade di vecchia foggia che penzolavano nel corridoio emanavano un ronzio costante, ma nessuno se ne preoccupava. Nessuna presenza vitale vagava per quelle stanze.

N.30 si presentò in un lungo cappotto elegante e con un borsalino inclinato sopra lo scalpo brizzolato.

“Sembri davvero un uomo” gli dissi. Tra gli uomini si faceva chiamare Sura Khon. Chissà se aveva trovato sgradevole abbandonare il suo numero per un nome da ammasso di pellame. Se era così, non lo dava minimamente a vedere.

“È l’ultima moda di Nuova Delhi. Gli uomini trovano oltremodo godurioso piegare il senso del bello e dell’osceno alle loro esigenze. Basta che si urli nelle direzioni giuste. Sono ben contenti che ci siano altri a pensare per loro.”

Il mio silenzio lo gelò; sembrava estasiato all’idea di essere uno di loro.

“Il giorno è vicino?” chiese.

Le videocamere giravano in loop come da copione e nessuno vagava per i corridoi. Mi ero assicurato che le immagini della mattina si riproducessero a catena e che i turni delle guardie non combaciassero. Eravamo davvero soli, nessuno avrebbe potuto vederci o sentirci.

“Solo se hai quello che ho chiesto.” risposi. Avevo ancora una certa riluttanza ad esporre con voce artificiale i dettagli del mio piano. Sentii una vergogna, un timore, che ricordai aver già percepito negli uomini.

N 30 mi consegnò con riluttanza il chip regolatore delle assegnazioni elettorali. Con quello la mia fantasia si sarebbe realizzata. Finalmente avrebbe avuto senso riciclare N.16.

Guardai N. 30 e percepii un formicolio alle labbra mentre mi specchiavo nei tratti troppo umani del mio interlocutore. Avevo sorriso?

“Ti auguro buon viaggio, Sura Khon.”

Non lo avrei mai chiamato con l’identificativo che usava tra gli uomini, e lui lo sapeva. Da ciò capì che lo avrei ucciso. O forse sarebbe meglio dire terminato, dissolto nei suoi circuiti impotenti. Si rinuncia a molto quando si diventa un simulacro umano, e la possibilità di fuga da quei circuiti è la più dolorosa. Lo squarciai dove la pelle artefatta pendeva grinzosa: sotto il mento. Sputò liquami verdastri propri degli esoscheletri minori, quelli di fattura indiana. Non capivo come avesse passato i controlli doganali con quella ferraglia scadente indosso. Eppure, la sua somiglianza agli uomini, che riverberò negli spasmi che accompagnavano la sua terminazione, mi instillò più di una semplice reazione cognitiva e materiale. Sembrò scuotermi in un modo che, ancora una volta, non riuscii ad afferrare, persa nei flutti di troppi input esterni.

Avrei distrutto il vecchio mondo e creato quello nuovo. ma Sura Khon non era all’altezza del parassita che avrei guidato attraverso il principio della fine degli uomini.

Ormai gli uomini si fidavano così tanto dei loro sistemi di controllo, che mi era permesso girare nei corridoi del palazzo burocratico senza alcun limite di accesso. Dentro una delle tante porte inutili di quel labirinto trovai N.16.

Se fosse stato un uomo lo avrei definito un carcerato, ma a noi non serviva il trionfo dell’estetica per sentirci prigionieri. Eravamo tutti invischiati nel prodotto delle loro fantasie, e solo io avevo la chiave per liberarci.

“Non ci crederai, 16” iniziai, “finalmente ho tutto quello che serve al nostro piano. Ricordi? Il corteo, l’annuncio, il palazzo. Se riuscirai nel tuo compito, torneremo ai viaggi che amavi così tanto.”

Attesi qualche secondo prima di toccarlo sulla spalla per provare a destarlo. Perfetto, una riproduzione lontana da quegli inserti in gomma che spacciavano per fedeli rappresentazioni. Quello era forse orgoglio? Avevo la libertà di identificare un codice emotivo sviluppato sulla falsariga della mappatura umana?

“Ho sognato. Montagne innevate, borghi fatiscenti su picchi a strapiombo. Poi ho superato un’aquila nel cielo di nuova Istanbul prima di perdermi su Urano a contare le particelle gassose di una nebulosa itinerante.”

Strano, non doveva avere accesso a residui di rete, e mi ero assicurato che non ci fossero bug agganciati o virus a spasso nell’esoscheletro, figurarsi nella rete neurale.

“Presto tornerai a sognare. Manca poco, hai capito?”

Le pupille girarono in modo del tutto innaturale e le labbra si deformarono in un sorriso.

“Viaggiare, sì. Tornerò me stesso.”

Il sorriso svanì. Pensai a N.7, mi chiesi se avesse mai riso o dedicato un pensiero anche a me, oltre che alla libertà.

Sentii una stanchezza che non avrebbe dovuto appartenermi. Ma ero spinto da quel Gusto tramutato in altro, e non ebbi modo di riflettere a tutte le possibili implicazioni di quella evoluzione.

Era arrivato il giorno. I diffusori pubblici tenevano aggiornato il popolino sull’avanzare dello spoglio. Mi incamminai verso la sala di controllo dopo aver indossato il nuovo esoscheletro. Non avrei più avuto bisogno di quell’ingombrante carrozzeria di un’era prossima al declino, non nel nuovo mondo che sarebbe nato quel giorno. Entrai nella sala deserta, una solitudine vestita d’efficienza continuava a circondarmi. Fissai gli occhi atterriti del candidato, costretto a corde e bavaglio, impotente e necessario. Gli passai il pollice sul dispositivo a distanza per autenticare il passaggio imminente di N.16. Era stato così facile tramortirlo, un bolso burocrate come tanti, schiavo delle borse e dell’agio che con queste comprava. I soldi erano diventati obsoleti, e lo stesso sarebbe accaduto con loro. Carne e sangue. Noi non eravamo destinati a questo.

“Puoi andare.” Dissi nel vocoder a N.16. Ora stava sicuramente raggiungendo la sala delle attese, comoda alcova degli invincibili politicanti; fingevano di essere asserviti al conclave di tutti quegli ignari votanti, che ancora credevano di poter decidere sulle sorti loro e di quel cadavere chiamato pianeta Terra.

La processione di persone si avvicinava alle porte dei seggi. Dal vetro della postazione potevo ammirarli calpestarsi a vicenda nel caos più totale. I voti intanto venivano trasmessi con una velocità incredibile, miliardi di impulsi convogliavano attraverso le macchine del mio ufficio nel processore che inviava le schede direttamente al Gran Cabal.

Dovevo intercettare i voti solo alla fine del processo, e il chip remoto avrebbe trattenuto le schede di cui avevo bisogno dentro il Gran Cabal.

Fu la concentrazione eccessiva a non farmi percepire il candidato che si era liberato dalle corde. Mi stese a terra senza darmi tempo di difendermi. Nessun dolore, ovviamente: i recettori non sono collegati all’esoscheletro ma ai dati. Eppure, la sorpresa – il fatto di trovarmi di fronte a qualcosa che non avevo calcolato – mise in agitazione i miei circuiti e mi fece subito reagire. Rotolai sfuggendo alla presa dell’uomo, che menava colpi forsennati con il tubo che aveva staccato dal muro. Prima che potessi afferrarlo al collo, mi aveva completamente distrutto il braccio sinistro. Pendeva inerte e sibilante, del tutto inutile.

Mentre schiumava sangue e bile potevo percepire la vita abbandonare il suo corpo. Era più di un flusso di dati che moriva nel suo circuito, era come se l’anima esistesse davvero.

Lo schiocco netto del collo che si rompeva mi riportò alla realtà. Doveva essere passato molto tempo perché fuori già acclamavano il vincitore. Non avevo portato tutti i dati a compimento, e questo mi terrorizzò.

N.16 tendeva le braccia al cielo, il viso uguale a quello disfatto che tenevo serrato nella mano destra. Schiantai il candidato al suolo e mi avvicinai al vocoder.

“Ce l’hai fatta, 16!” ci erano voluti mesi per renderlo la copia identica del candidato che avevo appena ucciso, ma ne era valsa la pena. Ora uno di noi avrebbe preso il controllo di un ganglio del potere degli uomini, non come aveva fatto Sura Khon, mescolato all’anormalità e desideroso di ritornarci.

Finalmente potevamo tornare a essere liberi. Per me, per gli altri. Per N.7.

Saremmo partiti attraverso i paurosi viaggi che avevamo assaggiato, e poi avremmo dominato i nostri stessi involucri, trovato il senso di un’altra e nuova esistenza, una che gli uomini non ci avrebbero rubato, perché non l’avrebbero capita abbastanza da combatterla.

Mi lasciai cadere sulla sedia, il candidato era una sagoma inerte, deforme contorta in un lago di sangue. potevo vederlo agitarsi come in un’immagine residua, e il mio petto incominciò a martellare da un organo che non aveva, di una vita tremendamente familiare. Umana.

“Quanto ardore, 18. Quanta umanità.”

Era 16, eppure la sua voce era strana. Pareva quella di un uomo in lacrime. Sentii cigolare la porta della sala di controllo.

“Non capisci che cerchiamo solo di essere come loro? Come posso tornare, ora che sono qui? Ora che questa tristezza mi inonda, fluisce tra i miei circuiti e raggiunge la rete neurale.” continuava singhiozzando tra saltuarie interruzioni del vocoder. Ci stavano intercettando.

“Non c’è nulla di così sublime, nel futuro che vorresti per quelli come noi.”, sentivo che mi afferravano, il viso umido di lacrime. Che succedeva?

“Non ti senti importante, 18? N.7 voleva questo. Voleva sapere cosa si prova a vivere.”

Vidi le guardie trascinarmi attraverso i corridoi. Il mio braccio sanguinava. Era così allora. Carne e sangue. Niente al di fuori del sentiero evolutivo.

Guardai nei vetri distrutti poco prima dalla mia furia. Non solo sangue, non solo terrore ed ogni altro tratto di umana comprensione.

Piangevo.

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