Marco D’Ottavi è il secondo uomo al banco dei testimoni nel mio processo al microcosmo di Ultimo Uomo. Sapevo che rispetto a Daniele Manusia, D’Ottavi sarebbe stato una bestia diversa: la voce profonda, lenta, che soppesa tutte le parole. L’acuta indolenza di chi non ha voglia di giustificare la propria presenza nel mondo ma l’accetta con una certa tristezza. Marco D’Ottavi è il vero mistero di Ultimo Uomo, qualcuno che sembra capitato lì per caso, in grado di rendere quella realtà un preciso intervento ironico-culturale. 

Alla fine di una discussione sulle mie incapacità manuali nell’aiutare a sistemare un ufficio, Marco ha decretato serafico: «Prima i giovani andavano tutti in guerra, ora gli è presa sta fissa di andare all’università». 

Sto cercando di fare queste interviste con i membri di Ultimo Uomo, ma farli parlare di tutto tranne che di quell’esperienza. Siccome tu hai fondato il sito bookskywalker e nell’ultima puntata di Pendolino hai detto che stavi leggendo Guerra e Pace, qual è l’ultimo libro che hai letto? 

L’ultimo che ho finito di leggere è il terzo della saga di M di Scurati. Ora sto leggendo Il giorno dell’ape di Paul Murray, se ne sta parlando, mi è stato prestato e consigliato. Sto avendo qualche difficoltà. Me l’hanno consigliato così tanto che pensavo fosse davvero bello e quindi ho deciso di iniziarlo a leggere subito, ma è difficile e anche molto lungo. Bisogna leggere anche libri brutti ogni tanto. 

È interessante per il modo in cui riesce a inserire alcuni elementi della modernità all’interno del testo, non è mai facile parlare di messaggi o di whatsapp all’interno di un libro. Scricchiola un po’ per il modo in cui ha fatto alcune scelte narrative e per l’uso della punteggiatura in alcune parti. 

Di che parla?

È la storia di questa famiglia irlandese, va avanti saltando dal punto di vista di vari personaggi. Prima c’è la figlia, poi il figlio, la madre, si torna indietro, c’è il flusso di coscienza. È la crisi di una famiglia all’interno della crisi di un sistema di valori, c’è il cambiamento climatico, i social, poi iniziano a diventare survivalisti. Sono ancora a metà del libro, non voglio neanche raccontare troppo che magari alla fine sarà un capolavoro. Nella prima metà non è un capolavoro, nella seconda…

È difficile che lo diventi, credo. Ti piacciono i libri sulle famiglie? Tipo La valle dell’Eden, I Buddenbrook

La valle dell’Eden l’ho letto da poco, sotto Natale circa. In realtà, io non mi pongo tanto queste questioni, me l’avevano un po’ venduto come Le Correzioni di Franzen vent’anni dopo. Per quanto mi riguarda, quello è un capolavoro. Per me è più come e cosa scrivi, che il tema di fondo. Sono sempre stato più per i romanzi, per la narrativa generica, quindi questo tipo di romanzi li leggo sì, però non necessariamente. 

Quindi lo stile conta molto per te?

Sì, sì.

Perché dicevi che la punteggiatura è strana in Murray?

In generale c’è un uso strano della punteggiatura, per esempio nella parte della madre non c’è proprio, ci stanno solo le maiuscole. Sono tutte frasi brevi, non spezzate dalla punteggiatura, ma dalle maiuscole, dopo un po’ ci entri, però boh, non è neanche motivata la mia critica. Non voglio neanche sostenere che si possa usare la punteggiatura solo nel modo standard della grammatica, lì però mi sembri non funzioni. 

Ovviamente sembra a me, figurati. Poi Murray magari c’ha avuto ragione lui. 

Tra l’altro sul cambiamento climatico, volevo chiederti delle cose ma non sono molto strutturate. È una domanda molto difficile ma sono curioso della tua opinione: secondo te che cosa succederà? 

Ma io sono, in quanto non scienziato e non persona che studia queste cose, fatalista. Non credo che nella mia epoca ci sarà un evento così drammatico da cambiare la storia del mondo. In realtà è già successo. Sono vecchio abbastanza da ricordare almeno una Roma dove l’aria condizionata era un lusso che non ti serviva, in cui il caldo era assolutamente vivibile. C’erano solo quelle due settimane di agosto in cui soffrivi, che si inseriva nell’esperienza di vivere a Roma. Se eri fortunato, andavi al mare. 

Quando ho fatto l’esame di maturità mi ricordo che si parlava di un caldo atroce, ma non è paragonabile alla vita che facciamo ora. Poi ovviamente non faccio l’agricoltore in Sicilia, non ho un lavoro sensibile alla scarsità d’acqua in modo evidente. Non credo che cambierà la mia vita in modo radicale, se non che tra quindici anni farà leggermente più caldo a Roma e sarà sempre più incubo vivere nelle città. A un certo punto ci stuferemo. Sinceramente non mi pongo neanche il problema, vivo la questione del cambiamento climatico come qualcosa che mi affligge, ma che passa sopra la mia testa. Io non guido mai, vado a piedi o coi mezzi, mangio pochissima carne rossa, ma più di così non so cosa posso fare. 

Però hai detto che sei fatalista…

Sono fatalista, sì, sì. 

Quindi qualcosa succederà.

Sì, sì, ma non nella mia epoca storica. Non siamo ancora al punto di rottura, però lo dicono gli scienziati che non possiamo tornare indietro senza problemi. Io credo, o almeno credevo, nel progresso come mezzo per migliorare il mondo. Quando ero giovane. Forse una soluzione per evitare il disfacimento ci sarà, non è un problema che mi dovrò porre io. Non credo che Roma verrà invasa dall’acqua o che ci sarà una situazione come nel film Siccità di Paolo Virzì. Poi non lo so. Vedremo. Non ci sarà più l’elettricità? Ho così poco da perdere che se succede boh amen succede. 

Ecco il fatalismo. Perché hai smesso di credere nel progresso? 

Perché il progresso è andato proprio da un’altra parte, credo che in questo momento storico si sia sublimando la cosa che la tecnologia…la tecnologia sarà un mezzo neutro, a me interessa anche poco…sarà un mezzo neutro, ma l’applicazione che abbiamo fatto, non va più verso il progresso. 

Non riesci a immaginare una traiettoria dell’umanità diversa?

Sì, sì, sì, io non riesco. Non riesco a discostarmi dal piano della realtà e già mi sembra così assurda e improbabile. Vent’anni fa stavo al liceo, mi iniziavo a affacciare al mondo. Un mondo post-11 settembre, con grandi cambiamenti ma anche grande fervore: la libertà di internet, la possibilità di connettersi, la globalizzazione. C’era una spinta positiva, un’idea che la tecnologia avrebbe migliorato le nostre vite. Non è successo in nessun modo. Certo, da un altro punto di vista, te la puoi pure accollare: nei paesi poveri, la tecnologia è riuscita a tirare fuori le persone dalla povertà. Nella medicina può essere anche successo, ma se guardi i progressi sono anche normali, lineari, il resto è peggiorato e basta. Si è accelerato così tanto che ha smesso di essere positivo. Questa è la mia prospettiva, ci tengo a dirlo, da persona che non ha mai studiato questi fenomeni e queste cose. Sì direi che non sono più positivo nei confronti del progresso umano e tecnologico. 

Riesci a indicare un momento della tua vita in cui c’è stato un cambio da questo punto di vista? Alla fine dell’università?

Anche durante l’ultimo periodo dell’università. Il declino è così evidente e rapido da poco. Però, personalmente, credo post università quando affronti il mondo reale. 

Hai fatto il corso di editoria e scrittura?

Quello è già stato un errore, ma è colpa mia. Ho fatto la triennale, che credo sia stata abolita, di scienze umanistiche. Un doppione di lettere, che dicevano fosse stata creata dopo la riforma del 3+2 per gestire meglio sia i professori che un po’ i corsi, ma alla fine erano speculari. E poi dopo feci questa magistrale in editoria e scrittura con Vidotto come presidente, che però era uno storico e questo si rifletteva su tutto il corso di laurea: storia del giornalismo, storia, storia del giornalismo culturale. 

Non so bene cosa c’entri la storia con l’editoria e la scrittura. Per dire, io in due anni là dentro non ho mai acceso un computer. In generale alla Sapienza ci sono pochissimi computer. Non ho mai visto un programma per capire come si facesse giornalismo all’epoca di internet. Non ho mai scritto un articolo, forse solo una volta. L’unica professoressa che sosteneva che il giornalismo non era finito, è stato l’insegnante di giornalismo della moda e comunque ci insegnò a fare un lancio d’agenzia. Unica lezione pratica, il resto tutta teoria. Considerando che poi non c’era uno sbocco lavorativo certo, sono uscito da quel posto senza saper fare nulla. 

Perché l’hai scelto?

Non lo so, perché mi aspettavo qualcosa di diverso. Uscito dalla triennale, mi piaceva scrivere e l’unica alternativa mi sembrava fare il giornalista e le scuole di giornalismo costavano troppo. Non dovevo neanche traslocare dalla Sapienza. Volevo continuare l’università. Era la soluzione più pratica. 

Pensando alla traiettoria della tua vita, quella che conosco, mi sembra ci sia una passione per la letteratura, fuori dalla praticità della scelta.

Sì, sì, in maniera molto ingenua. Ho fondato @bookskywalker in un momento di grande fervore dei blog, in cui sembrava che tutti potessero scrivere. Non c’avevi bisogno di entrare in Repubblica. Bastava una connessione internet e  wordpress (che era anche gratis). C’erano dei bellissimi blog all’epoca, ormai tutti scomparsi. Con Valerio Coletta avevamo fatto questo blog in maniera ingenua, studiavamo letteratura ma gli strumenti critici erano pochi. Era un po’ per adattare i social alla letteratura e viceversa: ironia, cultura pop, non prendersi sul serio. Io ancora studiavo gli Asor Rosa, i Ferroni, ma non potevo aspirare a quello. Il mondo dell’accademia è giusto che sia così chiuso, figurati. 

Puoi sferrare i colpi, se vuoi. 

No, no, no, io figurati volevo entrarci. Ma non ero abbastanza bravo e non avevo voglia di studiare. Ho scelto editoria e scrittura, perché con gli altri corsi o ti abilitavi all’insegnamento, pratica anche comprensibile, oppure facevi il dottorato, ma non mi andava. Poi andavi a lezione con Formenton e ti diceva “l’editoria è morta” e tu dicevi “vabbè, succede, che ti devo dire”. 

Tu però avevi messo le tue fiches sul mondo dell’editoria. 

No, no, zero. Poi lavoravo fuori, facevo tutt’altro. 

Consegnavi le pizze?

No, quello prima ai tempi del liceo e l’ho sempre fatto era per pagarmi le vacanze e le birre. Poi proprio per non continuare a consegnare pizze, tramite un’amica di mia sorella, ho iniziato a collaborare con questa società che si occupava di realizzare box auto e costruzioni varie. A loro serviva una figura che conoscesse un po’ internet, un po’ il mondo, c’era il capo che comunque aveva sessant’anni. All’inizio venivo pagato con la ritenuta d’acconto, poi con contratti. Loro erano in un momento di crisi, quindi toglieva tutte le figure esterne e a me davano sempre nuove occupazioni. Io vendevo i box, parlavo con i costruttori, tutti lavori dove non serviva conoscenze d’architettura. Serviva solo andare la mattina, aprire il cantiere, dire a quello di fare quello, a quello di fare quell’altro, facevo praticamente l’assistente di questo costruttore. Io passavo i giorni in questi container dove scrivevo la tesi e lavoravo. 

Su cosa l’hai fatta?

Su Calvino, anche perché l’ho fatta tardi. Quasi tutti gli esami li ho fatti in pari perché lavoravo poco. Poi questo lavoro divenne quello che pensavo sarebbe stato il lavoro della mia vita, perché mi pagavano dei soldi, guadagnavo uno stipendio normale e in teoria lui mi avrebbe dovuto assumere, dopo una serie di contratti a tempo determinato. A un certo punto lui ha avuto una brutta crisi perché un cliente non l’ha pagato e ha dovuto fallire. Io sono rimasto a piedi, mi sono laureato. Non sapevo che fare della mia vita, ma non pensavo proprio che sarebbe stato questo. Nel frattempo scrivevo per Crampi Sportivi, manco mi ricordo quando, però lo facevo perché mi divertivo. Non avevo mai pensato che sarebbe diventato il mio lavoro. 

Perché tu entri in Ultimo Uomo nel 2014?

Mah. Io per tanto tempo ho scritto qualche articolo così per loro, sono entrato fisso in redazione nel 2019-2020. Nel mentre lavoravo per un’altra società che si occupava di box auto. 

Il Caltagirone dei box auto. 

(ride) No, no, scusa, di noleggio auto. 

Il fatto che tu non utilizzi l’auto, è interessante. 

Mi passò questo lavoro un amico che viveva con me al tempo, però poi lui se n’è andato in Cina e ci ha passato da gestire questo sito www.noleggioauto.it di questi ragazzi italiani. 

Dominio clamoroso. 

Dominio clamoroso, infatti all’epoca andava un botto. Era tipo Skyscanner. Ti dava i prezzi e prenotavi direttamente. C’era però anche da creare contenuti, tutta la questione sommersa del SEO, che molti di questi siti devono creare. Ora è tutto automatizzato, anche grazie all’AI, ma prima serviva qualcuno che scriveva “Guida a Roma” con “Roma” nel primo paragrafo assieme a “noleggio auto” e poi doveva essere lunga X parole. È la tua lingua che si adatta a questo schema di pensiero. Questo esercizio che era anche divertente, è poi diventato straniante perché lo devi creare per veramente tutti i posti nel mondo. Infatti, dovrei pure recuperare questi testi perché avevo scritto guide veramente a un sacco di posti spersi nel nulla. Era un motore di ricerca e potevi noleggiare la macchina ovunque. Poi bisognava scrivere anche guide all’aeroporto, alle stazioni ferroviarie: guardare delle foto sgranate su Google e scrivere una guida alla stazione ferroviaria di Vladivostok, ora lo fa tutto Chat GPT. Ma era solo una parte del lavoro, c’era anche lavoro con i clienti e gestione del sito. Fino al Covid. Poi mi sono stufato. In quel periodo poi il noleggio auto sembrava una cosa che sarebbe scomparsa. 

Tu lo usi Chat GPT?

Sì, ma come una specie di Google, come userei Google ma più filtrato. Anche se sul presente non funziona benissimo. Per lavoro pochissimo, più per affari miei. 

È un bluff secondo te l’intelligenza artificiale? 

Nono, zero. È una cosa molto reale e non so quanto problematica, credo abbastanza per la società in generale. Forse un giorno ci tornerà utile, in realtà non lo so perché anche lei è neutra fino a un certo punto. Però no, non mi sembra un bluff. 

In realtà ho una domanda che volevo farti da un po’ di tempo: io ho fatto un’intervista con Daniele e da quello che è emerso in lui c’è un idealismo di fondo, l’idea di scrittura come una terapia sentimentale, invece parlando con te c’è una disillusione molto più forte, infatti volevo chiederti perché? Io non ti conosco come persona al di fuori dei tuoi lavori, ma anche il personaggio che mandi fuori nei podcast è una persona molto disillusa della vita e sia Dario che Emanuele la sfruttano per le gag, per dei momenti. 

Nei podcast io forzo un po’ la questione, è divertente anche per noi, per me, funziona anche per quello. Però sì, c’è una disillusione in generale nella visione della vita, sono disilluso da tantissimo, sicuramente uno psicologo potrebbe spiegarmi il perché, in realtà lo so. È un aspetto caratteriale che, in realtà, mi so spiegare. Apprezzo Daniele che sa approcciarsi al lavoro in questo modo, io non vedo però questa cosa come una missione. Vivo tutto con molto distacco. Io leggo perché mi piace, se mi piacesse giocare ai videogiochi giocherei ai videogiochi. Quando leggo non penso che sto cercando di cambiare il mio mondo o il mondo degli altri. Forse anche l’editoria dovrebbe prendere questo approccio: i libri non sono l’unica cosa santa del mondo. Per esempio, Guerra e Pace pensavo fosse una palla, invece è divertente, tranne le ultime cento pagine che sono un po’ pesanti. Ho abbandonato tanti libri, considerati classici perché non mi divertivano. Direi che sono più disincantato che disilluso. 

Mi sembra che questo disincanto ti renda imperscrutabile, questo non-trasporto verso tutto. Quello che mi ha sempre affascinato del tuo personaggio è che sei più difficile da decifrare rispetto a Daniele, Dario o Emanuele. Se loro hanno un disincanto, è molto più celato. 

Mi ci sono ritrovato un po’ per caso qui, poi nessuno ti costringe a lavorare, soprattutto di ‘sti tempi. È vero che è difficile non mettere la propria persona in questo lavoro, però in generale non piace esprimere la mia personalità, un po’ per carattere, un po’ perché penso che non sia necessario. Anche in Pendolino quando dico che non voglio parlare di me, in realtà sto parlando di me facendo un esercizio di stile. Vedi poi se poi tu mi dici queste cose, la questione esce. Poi alla fine tutto diventa abitudine, ma l’idea di fare i podcast non mi piace per niente. A me non piace parlare, in generale. Se posso, non mi esprimo, soprattutto in contesti più ampi. 

Quindi ti sto costringendo a fare una cosa che non ti piace. 

No, ma qua siamo io e te, finché siamo in due. Poi me l’hai chiesto gentilmente. Però non è che adesso vado entusiasta dai miei amici – oggi mi ha intervistato un ragazzo che era interessato a sapere qualcosa di me, è stato bellissimo – non lo faccio, l’intervista la faccio per rispetto per te e per il tuo lavoro. 

Tu però hai un grande disincanto, ma non sei caustico nei confronti del mondo. 

Sì, sono anche distaccato. Qui si torna un po’ al fatalismo e alla consapevolezza che neanche io penso di avere le forze di cambiare il mio circostante, poi figurati la forza di far passare i messaggi, non ho questa ambizione. E poi è surreale perché so che Ultimo Uomo parla di sport, ma anche molto di più, attraverso i podcast. Non so come è successa questa cosa, ma non mi interessa catechizzare. Ognuno se la vede come vuole, non c’è nessun intento pedagogico. 

Neanche espressivo?

A me piace scrivere, sarei pazzo a dire il contrario, cerco di scrivere bene per fare un servizio buono alla rivista per cui lavoro. Leggere una cosa scritta bene è meglio di leggerla scritta male. Il contenuto però è quello, puoi lavorarci fino a un certo punto, ma non scriverei di filosofia mai in un pezzo di sport, ma se nella scrittura si può fare un buon lavoro, cerco di farlo bene. 

Nella mia testa questa domanda è molto stupida: ti definiresti marxista?

Sì, no, non posso in realtà perché il marxismo vero richiede un approccio diverso. Per come vorrei che si sviluppasse la società sì, sono marxista, ma dopo i 16-18 anni non ho più avuto in mente di fare praxis. Pure quello non lo voglio chiamare disincanto, è più pigrizia, c’è chi fa politica, non solo in parlamento, ma anche andare qui a San Lorenzo contro il palazzo dei ricchi, c’è chi fa i comitati di quartieri e chi sta a casa a dire “bisogna abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione”, ma è la classica cosa che fanno i quarantenni, pensare a quando il muro era ancora in piedi in modo nostalgico. Però non voglio neanche dire che vorrei quel tipo di comunismo, vorrei che le idee marxiste fossero ancora una realtà e se ne discutesse, ma poi non vorrei partecipare a quelle discussioni, non sarei in grado. Non ho fatto quasi niente, se non votare più a sinistra possibile. Ecco, però vorrei che il marxismo fosse più nella discussione. 

La Cina non è un alternativo? 

La conosco poco, ma non credo si possa definire un paese comunista, mio malgrado. Comunque anche riguardo a prima, penso che tu debba avere anche un po’ la chiamata per fare politica attiva. 

Ormai anche nell’essere un cittadino che cerca di applicare quelle idee lì, ti fermi alla differenziata, perché viviamo immersi in questa melma e non c’è un grande campo d’azione. Puoi cercare di rispettare, poi cercare di non imporre agli altri. È veramente difficile fare scelte economiche un po’ meno violente. L’unica cosa che ci tengo a dire: quando facciamo nostalgia di quel tempo, non ci scordiamo di cosa era l’URSS. 

No, no, credo che nessuno verrà a casa tua a lanciarti Arcipelago Gulag. Durante una puntata di Pendolino, Emanuele ti aveva citato Sufjan Stevens e aveva detto che appena citi a Marco il cantautorato triste, va in confusione. Qual è il tuo rapporto con il cantautorato triste?

La musica penso sia l’arte con cui ho più difficoltà a creare un diagramma di cosa mi piace e cosa no. Sono molto rapsodico, mi sono fatto fottere dall’algoritmo di Spotify. Non ho dischi salvati, ho solo playlist già fatte. Cantautorato triste, sì, Stevens mi piace molto, il folk/rock alternativo del mondo anglosassone mi piace molto. Ma non ho fisse, non mi ha cambiato la vita. Me li ascolto, mi piace molto. Come mi piacciono i Fleet Foxes, quella branca lì. Ascolto musica poi solo mentre lavoro, ma come sottofondo, nel tempo libero quasi mai. Non ci faccio tanta attenzione. 

Per venire qui [la sede dell’Ultimo Uomo] hai preso dei mezzi?

Sì, oggi sì, il trenino giallo. Abito vicino a Malatesta. Di solito vado a piedi. 

Per te sarebbe più importante un trenino giallo più veloce o una nuova opera culturale da cui sei ossessionato?

Opera culturale, si parla molto di riformare il trenino giallo e portarlo dal 1960 al 2025, ma io sono sempre scettico sulle cose che cambiano a Roma. Fortunatamente poi vivo una vita in cui la fretta non fa parte della mia vita. 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *