In un periodo storico in cui schermi e narrazioni per immagini di ogni formato sbucano da tutte le parti, non è poi così scontato stabilire cosa sia un “bel film”, o anche solo un “film importante”. In certi casi, seguire la pista dei premi può portare allo scoperto alcuni orientamenti ideologici o di gusto che godono di una certa fortuna tra gli addetti ai lavori (dei quali le giurie sono normalmente composte), e che possono di conseguenza attecchire e consolidarsi come vere e proprie tendenze dominanti anche a livello creativo. In quest’ottica, non può non suscitare interesse la recente marcia trionfale di un film come Anora di Sean Baker, prima con l’assegnazione della Palma d’Oro al Festival di Cannes, e poi con la vittoria agli Oscar in cinque tra le categorie più importanti: film, attrice protagonista, regia, sceneggiatura originale e montaggio – queste ultime tre alla persona dello stesso Baker, “autore” in piena regola secondo tutti i crismi del cinema indipendente americano a basso budget, con cui abbiamo imparato a familiarizzare negli ultimi decenni. Il favore dei premi, oltretutto, è fin da subito andato di pari passo con quello della critica: sebbene gli elogi varino per tono e intensità, è molto difficile trovare per Anora vere e proprie stroncature su stampa e media specializzati.

Effettivamente, Anora non è solo un film accorto e molto ben realizzato, ma possiede anche uno spirito al tempo stesso classico e contemporaneo; pesca dagli immaginari attualissimi di Mtv, di TikTok, dei reality con i rich kids scialaquoni e della mercificazione dell’erotismo, e ne dà una chiosa attraverso un linguaggio rodatissimo, quasi da compendio di scrittura e messa in scena cinematografica. Nello specifico, Baker si affida ai meccanismi del comico per condurre, come è sempre accaduto nella tradizione del genere fin dai tempi del teatro greco e romano, un’operazione di demistificazione e svelamento. Anora si propone infatti di soffiare via la patina illusoria di tutte le promesse di una vita più agiata ed entusiasmante sventolate dal solito e apparentemente imperituro american dream, dietro al quale si nasconde invece una realtà di immobilità sociale per le classi lavoratrici. Il film parte come un Pretty Woman in tono minore (la sex worker Anora non ha la presenza prorompente di Vivian-Julia Roberts, né tantomeno il bamboccio viziato Vanya ha il fascino algido del rampante Edward-Richard Gere), che agli hotel di alta classe e alle boutiques di Beverly Hills sostituisce le feste frastornanti nei villini privati, la cocaina in limousine e i casinò di Las Vegas; prosegue mettendo in campo un buon assortimento di dispositivi (dialogici e slapstick) e caratteri tipici della commedia, perfettamente assortiti e orchestrati intorno al motivo della ricerca del rampollo in fuga, per transitare gradualmente verso il drammatico, con un epilogo amaro e disincantato.

Il ribaltamento di registro si imprime nei colori, che da accesi diventano via via sempre più plumbei, e soprattutto nel corpo e nel volto dell’eroina eponima, Anora detta Ani. Su di lei fa perno la simmetria delle sequenze di apertura e di chiusura del film, che mostrano la sua parabola rispetto al desiderio proprio (i primi piani dell’attrice Mickey Madison sono espressivi ed efficaci) e altrui: dallo strusciarsi nuda e lasciva addosso a degli sconosciuti, scintillante sotto i neon del paradiso artificiale di sesso simulato che è lo strip club in cui lavora, a un approccio inconcludente in una vecchia automobile, vestita, struccata e svuotata fino a scoppiare in lacrime. Statunitense di seconda o terza generazione cresciuta col mito della gita a Disneyland, Ani è una sradicata che ha imparato a distaccarsi da ogni scampolo di autenticità legato alle proprie origini, tra cui in primo luogo il suo nome di battesimo e la lingua della sua famiglia di immigrati russi; residui di cui però conserva la memoria e forse sente anche il richiamo, nel momento in cui si lascia incuriosire da un giovane cliente, figlio di un oligarca, che le chiede di parlargli in russo (o per meglio dire, la paga per farlo; nell’universo di Anora praticamente tutti i rapporti interpersonali passano per il denaro e lo scambio). A partire dal primo incontro, Ani si fa sempre più sedurre dallo stile di vita dissoluto ed esibizionista del ragazzo, fino ad accettare prima di fargli da escort “con esclusiva” e poi di sposarlo.

L’errore capitale di Ani-Anora è proprio quello di credere ingenuamente alle illusioni di cui la copre Vanya; per questo, di fronte all’unica volontà che conta, quella dei suoceri miliardari che esigono l’annullamento del matrimonio, ogni suo tentativo di ribellione, per quanto rumoroso e irriverente – da brat, come hanno prontamente notato le recensioni più al passo con i trend –, è di fatto inutile e fallimentare. Il suo destino è quindi farsi cortesemente riaccompagnare a casa nel suo quartiere suburbano e trovare una spalla su cui piangere nel guardaspalle di Vanya, Igor, un ragazzo semplice e rispettoso a cui forse si è un po’ affezionata, ma verso cui non fa altro che ostentare scherno e disprezzo. 

In un’intervista per Il manifesto, il regista Luca Guadagnino ha rivendicato di voler intendere l’esplosione di piacere fisico e voyeuristico nel finale del suo recente Challengers (completamente ignorato nelle nomination agli Oscar) come apertamente in contrasto con un modello di cinema “punitivo”, affermatosi secondo lui negli ultimi decenni, che “ha spesso gestito la posizione dei suoi personaggi rispetto allo spettatore come un esempio di punizione che deve essere inflitta appena si osa uscire fuori dallo schema prestabilito”. Di una simile tendenza sarebbe difficile trovare un esempio più lampante e compiuto di Anora. Prendiamo per esempio, come cartina di tornasole, la rappresentazione di quell’occasione di relazione con l’altro e di espressione e crescita individuale che è (o dovrebbe essere) l’esperienza sessuale. Nel film di Sean Baker quest’esperienza, che pure è molto centrale visto il mestiere della protagonista, non ha alcun potere dirompente e liberatorio. Nella prima parte del film il sesso è o transazione asettica e impersonale con degli estranei, o un divertimento infantile e bulimico con Vanya (che, come gli fa notare Ani, “va troppo veloce”); nel finale, invece, l’offerta che Ani fa di sé a Igor appare come un automatismo disperato (sempre peraltro in un’ottica di ricompensa, per il recupero dell’anello nunziale), e persino l’abbraccio che dovrebbe forse spezzare questo automatismo sembra più espressione di una resa, di un abbandono inerte e sfinito, piuttosto che di una reale ricerca di contatto. Il regista fa una scelta di campo molto chiara: guardare all’incontro erotico non come una chiave per riprendere e far esprimere i corpi in maniere non scontate, per far loro sperimentare bisogni e desideri che in altri contesti solitamente reprimono, ma piuttosto solo come a un passaggio narrativo o esemplificativo, finalizzato a confermare una visione del mondo già cristallizzata. In tutte le manifestazioni di erotismo in cui è coinvolta Ani non gode: non sembra in grado di trovare nell’atto nessun appagamento che sia soltanto suo, nessuna ragion d’essere che vada oltre il rendersi disponibile all’appagamento altrui, sperando al massimo di riceverne un beneficio indiretto. Tuttavia, persino nel maldestro tentativo di maturare con Vanya uno status sociale e relazionale più solido, attraverso il matrimonio, Ani deve scontrarsi con l’evidenza non scritta per cui le ragazze come lei possono unicamente essere un capriccio di una notte, o al massimo di una settimana, da consumare e subito gettare via. A quel punto, però, non ha neppure gli strumenti per accettare il suo ruolo di disturbo, di variabile impazzita, e così staccarsi definitivamente dall’ordine dato che la vuole solo succube, condannata a inseguire vanamente desideri e sogni che forse non sono nemmeno suoi.  

Tutto ciò risalta ancora di più se si confronta Anora con un altro film di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome, il cui arco narrativo evolve in una direzione che può sembrare superficialmente simile a quella del film di Baker, chiudendosi in modo analogo con una scena di pianto. In entrambi i casi, si vuole fotografare un momento formativo spartiacque: i protagonisti fanno i conti con un contesto di vita che prima alimenta in loro un desiderio e poi, piuttosto bruscamente, ne preclude la realizzazione. Nel percorso dolcemente frastagliato di Elio in Chiamami col tuo nome, però, c’è il riconoscimento del dolore e della delusione come inestricabilmente intrecciati alla gioia e alla pienezza di un’esperienza sfaccettata, che nel film prende forma in uno sfondo ambientale fatto di corrispondenze, dissonanze ed equilibri sottili ma molto significativi. Nella piattezza degli scenari in cui Anora si muove, invece, sembra esserci posto solo per il negativo, senza che questo sia anche accompagnato da opportunità di stupore, di passione, di scoperta di uno scarto inaspettato nel proprio sguardo sulle cose. Da questo assoluto negativo, comprensibilmente, Ani non può trarre nessuna nuova conoscenza di sé e del mondo (se non quella riguardo all’inevitabilità di dover ridimensionare le proprie pretese), nessuna coscienza della propria autonomia soggettiva. 

Travestito da scoppiettante indie dramedy, Anora è un film dal fondo deprimente, che esprime una sfiducia nell’immaginarsi e nel rappresentarsi in modi imprevisti, oltre che nella capacità delle relazioni – sessuali ma pure amorose e amicali – di stravolgere le gerarchie di potere. Nello sforzo di stanare e condannare le illusioni del sogno americano, Baker finisce così per contribuire a rafforzarne la presa, nella misura in cui non mette in campo nessuna visione in grado di opporvisi. In primo luogo, a livello di racconto, non concede alla sua protagonista una qualsiasi possibilità di (almeno) provare a riappropriarsi di sé stessa e proiettarsi in un proprio orizzonte di desiderio, diverso e alternativo rispetto a quello dei sogni luccicanti ma in fondo preconfezionati, ipocriti e crudeli che il mondo circostante le propone (in questo senso, è significativo che nel corso del racconto “Anora” non si sostituisca mai davvero ad “Ani”, se non per bocca del bistrattato Igor); di conseguenza, il film rinuncia anche a inventarsi uno stile capace di esprimere questa possibilità di evasione, un linguaggio libero e veramente anticonvenzionale, esondante rispetto ai moduli del cinema così come lo abbiamo sempre visto e conosciuto. 

A inaridire le immagini di Anora – occorre precisarlo – non sono gli intenti connaturati allo schema del cinema di denuncia sociale, che può sempre essere rivisitato non solo attraverso l’inserimento di elementi tradizionalmente estranei (come accade con il pastiche di generi di Emilia Pérez di Jacques Audiard, che mette in musica e coreografa le tragedie del Messico dei narcos), ma anche dall’interno delle sue stesse premesse di critica dell’esistente, nel momento in cui viene preso sul serio il potere trasformativo che lo sguardo cinematografico ha già semplicemente in quanto sguardo, e cioè in quanto modo di guardarsi dentro e intorno. Lo dimostra l’esempio di Céline Sciamma, regista francese che lavora da sempre sul tema della scoperta e reinvenzione del sé in contesti filmici tra loro molto disparati, dal racconto di formazione intimista di ambientazione borghese (Tomboy) al dramma storico (Ritratto della giovane in fiamme), fino al registro fantastico (Petite maman), e che si è confrontata anche col realismo sociale in Bande de filles (realizzato nel 2014 e uscito in Italia col titolo Diamante nero). Al centro del film c’è Marième, adolescente nera che vive nella banlieue di Parigi in una famiglia numerosa e senza padre, con una madre lavoratrice in affanno e un fratello maggiore opprimente e manesco. Quello del suo quartiere è un mondo dove i maschi sono ombre minacciose piantate contro le facciate dei palazzoni, davanti a cui passare in fretta, in silenzio e con gli occhi abbassati, per evitare di attirare l’attenzione e farsi prendere di mira. La rabbia e il desiderio di Marième però non le permettono di rassegnarsi a un’esistenza di sottomissione, e la portano in contatto con un terzetto di coetanee agguerrite tanto quanto lei (“sembri incazzata, questo mi interessa” le dice la capogruppo Lady al primo incontro): “bad girls” unite da un rapporto di solidarietà reciproca, che si spalleggiano tra dimostrazioni di spavalderia, piccoli furti e gare di lotta. Per la protagonista è un’opportunità per provare a costruire un’identità nuova e più audace, suggellata dall’adozione del nickname Vic, “come Victoire”, vittoria.

A differenza dell’atteggiamento reverenziale di Baker verso i generi di riferimento, in Bande de filles Sciamma sfida le posture classiche del cinema a tema sociale: purifica il film da qualsiasi giudizio di valore o pretesa dimostrativa e didascalica, esalta la varietà e l’allegria delle personalità delle sue ragazze (bellissima sotto questo aspetto la carrellata sui loro volti alla Défense, da comparare con quella sulle spogliarelliste al lavoro nell’apertura di Anora) e soprattutto pone l’accento sulla ribellione, condotta con qualsiasi mezzo a disposizione, come rivendicazione della libertà di autodeterminarsi rispetto alla fissità dei codici non scritti del reale e dell’immaginario. La trasformazione di Marième assume contorni che rimandano ai film sui supereroi, con tanto di origin scene nella cucina di casa e di adozione di un’uniforme (pettinature, abiti, accessori e scarpe sono esibiti e dismessi come segni di appartenenza e addirittura come garanti di un’aura); la scena della perdita della verginità, secondo una prospettiva totalmente antitetica rispetto a quella del male gaze, ci mette nei panni della protagonista e riesce a essere erotica senza mostrare nulla dell’atto sessuale in sé, sostituendo alla frenesia del coito il tempo sospeso e dilatato della ricognizione di un corpo straniero. I movimenti della macchina da presa legano i giovani personaggi nel loro reciproco incontrarsi e scontrarsi dentro a uno spazio da conquistare, invece che solamente da subire; emergono così, in vari momenti, sprazzi di un modello relazionale differente rispetto a quello dominante. Un modo di confrontarsi gioioso, talvolta anche competitivo, ma sempre in maniera vitale: una partita di football americano, la cura verso le sorelle più piccole, la gentilezza del corteggiamento, e soprattutto gli scherzi e le confidenze tra amiche, le energie liberate attraverso il canto e la danza.

Tuttavia, Marième intuisce presto che nemmeno il rapporto con le compagne può offrirle una reale via d’uscita, specialmente nella misura in cui i loro atteggiamenti finiscono per replicare la prepotenza maschile a cui loro vorrebbero sottrarsi. Diventare sé stessi o sé stesse è un cammino strettamente personale, che non ammette scorciatoie; “un enigma al quale non è sempre possibile dare una risposta” (come ha scritto Pietro Bianchi su Rivista Cineforum), tanto meno se ci si aspetta che questa risposta ci venga incontro all’esterno, messa a nostra disposizione da altri. Il percorso di Marième culminerà con il ritorno al quartiere in occasione della festa del piccolo boss per cui ha iniziato a lavorare; è lì che la protagonista, vestita e acconciata come un ragazzo, si impossesserà dell’identità del nemico per rovesciarla finalmente di segno, adombrando un rapporto tenero e dai contorni sfumati con la nuova amica e coinquilina, e rifiutando nel contempo sia la logica misogina del possesso e della violenza sia la trappola di una vita convenzionale di moglie. Anche Marième, come Anora, scoppia a piangere nell’ultima scena del film, e però le sue lacrime non esprimono rassegnazione, ma marcano piuttosto la conseguenza di una scelta, insieme all’assunzione di responsabilità che essa implica. Sono un momento di fragilità dal quale riemergere con orgoglio, contro l’orizzonte aperto del profilo della metropoli in lontananza.

Rispetto a Bande de filles, Anora presenta un quadro sicuramente meno complesso e più vittimista della relazione tra desiderio individuale e pressioni sociali, in un’ottica conforme alle consuetudini dell’intrattenimento “riflessivo” con annesso take-home message; e proprio queste caratteristiche gli hanno probabilmente consentito di riscuotere un consenso così vasto. Questa fortuna ci dice qualcosa su certe traiettorie creative e di ricezione della cinematografia contemporanee? Potrebbe benissimo essere una mossa indebita quella di inferire ipotesi di carattere generale dall’osservazione della success story di un singolo film. Non si può però non notare come nel bilancino dei premi di questa stagione, a fronte dell’accoglienza calorosa di Anora, siano stati ignorati o messi in secondo piano esperimenti e proposte di rinnovamento radicale estetico e addirittura politico (Megalopolis di Coppola), di marcatissima personalità autoriale (La stanza accanto di Almodòvar), di contaminazione e rielaborazione dei generi tradizionali (Emilia Pérez di Audiard), di moltiplicazione delle prospettive visive (Challengers di Guadagnino). Tutti indizi che alimentano un doppio sospetto: da una parte, che la industry – americana e non – possa esser stata conquistata proprio dagli aspetti più conformisti del congegno filmico perfettamente oliato di Baker; dall’altra, che attribuirgli di un carico così massiccio di onori serva, di fatto, da invito a non rischiare nella forma e nei contenuti del cinema che verrà. In un panorama degli audiovisivi tempestoso e in fermento continuo (tra streaming, serialità, videoclip, videogiochi, reels e intelligenze artificiali), Anora è forse apparso come una provvidenziale scialuppa di salvataggio per un’arte blasonata ma oggi spesso giudicata sul viale del tramonto: un film-manifesto di un cinema indipendente che, pur continuando a impolverare le proprie immagini con tocchi di ricercata lateralità, rinuncia a proporre discorsi o formati alternativi e si fa nella sostanza “cinema-cinema”, racconto di storie coinvolgenti ed esemplari esposte secondo un punto di vista ben definito e univoco, attraverso un linguaggio non perturbante e di limpida comprensibilità (già nel 2023, d’altro canto, Barbie di Greta Gerwig sfondava nel mainstream impegnandosi molto a stare esattamente a metà strada tra l’ironia stralunata e il catechismo genericamente progressista). Seguire una simile logica di cooptazione, con la sua tendenza a fortificare i confini identitari di una certa idea di cinema, potrebbe però significare anche privarsi del potenziale rivelatorio di immagini nuove, magari spurie, sfuggenti o esagerate, ma certamente coraggiose nel mettere davanti agli occhi degli spettatori i contorni e le conseguenze di un desiderio.

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