Sono nella sala d’attesa del ginecologo. Non il mio ginecologo, quello che mi ha diagnosticato l’hpv e fatta abortire e a cui mi sono sempre indirizzata per i controlli annuali all’apparato, per intenderci. Un anno fa ho lasciato Roma per Bologna, dove collaboro a un progetto di ricerca sulle galassie interagenti. Causa forza maggiore, ho dovuto tradire il mio ginecologo per un tale dottor C, a cui mi sono rivolta su consiglio di E, collega ipocondriaca diventata sua amante nel tentativo che lui intercettasse i suoi malesseri prima che comparissero. «Non consideri l’iperspecialismo», le ripetevo. «Non esiste più il medico rinascimentale che sa tutto di tutto». Per il suo scopo sarebbe stato meglio un internista, qualcuno che oltre alla sifilide avesse a che fare quotidianamente con la semeiotica dei più disparati mali.
Tra il virus scopatorio e la procedura abortiva sono passata per la prescrizione di una cura a base di acido folico e vitamina d. Servivano a limitare i danni dell’assenza di mestruazioni, con cui ho dovuto fare i conti a seguito di un drastico dimagrimento. «In un corpo privo di energie sufficienti, la funzione riproduttiva è messa a riposo, non è essenziale», mi spiegava il mio ginecologo. Poi il mio corpo quell’energia se l’è ripresa, e s’è pure riprodotto, o almeno ha tentato di farlo. «La vita vincerà sempre», continuava a ripetermi il dottore, intento a prendere le misure dell’essere che mi cresceva dentro.
Adesso, mentre attendo una visita di routine, penso che nessun uomo si è guadagnato l’aggettivo possessivo che riservo al ginecologo, un aggettivo fantasmatico e irragionevole. Nemmeno P, dal quale nell’impeto orgasmico di una notte d’agosto mi sono fatta mettere incinta, poteva considerarsi il mio fidanzato. Eppure lo vedevo da dieci mesi e facevo con lui le cose che fanno i fidanzati: gli raccontavo i minuti che scandivano le mie giornate fino al più piccolo dettaglio mentre lui annuiva macchinalmente, dormivo da lui e c’era un margine di progettualità condivisa che mi aveva portato a presentarlo ai miei. Si è seduto al mio fianco in moltissimi dei pranzi domenicali con la famiglia al completo, anche se al momento delle presentazioni non ha mai avuto una qualifica, e per via di un tacito se non telepatico accordo per il quale nonni, zii e cugini non avrebbero fatto domande, lui era solo P, il tipo che frequentavo poi chissà.
P è un ingegnere elettronico che manda satelliti nello spazio. Tipo socievole e pragmatico. A casa aveva il manuale del tuttofare anche se siamo nell’epoca dei video-tutorial. Potevo parlargli del mio lavoro senza che si annoiasse, e più di una volta mi ha aiutato a trovare la quadra in alcune simulazioni matematiche. Quello che non sopportavo di lui era la totale mancanza di vulnerabilità. Se le cose non andavano per il verso giusto, se ne faceva una ragione, non si piangeva mai addosso, per lui la calma era più forte di qualunque sofferenza. Così, quando gli ho detto che ero incinta è stato contento, e lo è stato anche dopo, quando gli ho detto che avrei abortito perché non lo amavo e perché non riuscivo a sopportare l’idea che fosse il co-creatore di qualcosa di mio.
Per un brevissimo periodo di tempo sono stata una madre in potenza. Avrei perpetuato quello stato di sospensione per l’eternità, ferma all’attimo prima della decisione di essere madre o di non esserlo. Come per il gatto di Schrödinger, la cui vita si trova in uno stato di indeterminatezza tra l’essere vivo o morto finché qualcuno non apre la scatola. Ciononostante, il dilemma non è durato molto, ho aperto con vigore quella scatola e salutato l’idea di essere madre senza essere travolta dal senso di colpa.
Dopo P è venuto G, scrittore sceneggiatore chitarrista cinefilo che mi ha conquistato con la sua tenera inettitudine. Mi teneva incollata con i suoi discorsi sul perché delle cose, conosceva la grammatica e teneva conversazioni impeccabili anche sotto pressione. Mi ha iniziata al fumetto giapponese insegnandomi la prima grande lezione sul perché i mangaka facciano uso del bianco e nero nelle loro tavole. G era mio nei fatti, non formalmente, perché a parole, le sue, era sposato con M.
G viene dopo P perché esiste una specie di contrappasso degli amanti, per il quale chi viene dopo è la versione antitetica di chi è venuto prima. Sognatore con scarso spirito pratico, G era l’esatto opposto di P. Non si sentiva abbastanza uomo perché non era in grado di cambiare una ruota e a casa sua c’era qualcosa di simile a un manuale del perfetto nerd. Di lui ero innamorata. Quel tipo di innamoramento che non si vive come un processo né come una fiammata, piuttosto come una scelta. L’ho amato perché lo avevo scelto, come si scelgono in metro gli uomini su cui fantasticare o la verdura dal fruttivendolo. Per lui ero un diversivo, un varco su una delle innumerevoli esistenze sfiorate e mai consumate.
Dopo essere stata lasciata perché mutuo batte infatuazione, all’apice del dolore, gli ho detto che le nostre orbite sarebbero rimaste unite per sempre, come un satellite che in orbita geostazionaria guarda sulla Terra sempre un medesimo punto. Io sarei stata il satellite, lui quel punto, atomo opaco del male. Quando è finita la mia storia con G, ho giurato a me stessa che non avrei più detto ti amo. Anche se quel sentimento che chiamiamo amore l’ho avvertito ancora dopo di lui. Ho provato quell’agitazione smaniosa che confonde, che ti fa mettere da parte te stessa, la tua indipendenza e tutte le cose che per te erano importanti. Che fai? Dove sei? Con chi sei? Cosa pensi? Non ho capito il senso delle tue parole. Me lo spieghi? È cambiato qualcosa? Ti sento lontano. Cosa mi nascondi? Ti piaccio più di lei? È il codice morboso dell’amore, e un sentimento che di dignitoso non ha niente non può stare nella forma dignitosissima della parola. E oltretutto mi rifiuto di essere prigioniera di un impulso che prima arriva come fosse una forma fatale di consunzione che ti annichilisce fino a privarti dell’energia vitale e poi bum finisce. Alle volte come una supernova, altre come un lento e inesorabile decadimento radioattivo.
Ad A non ho detto ti amo, gli arredavo casa e gli compravo mutande e calzini surrogando la madre. Con A le scampanellate sono arrivate col tempo. L’ho amato razionalmente e potenzialmente, basando l’amore sulla fede più che sul desiderio. Stavo bene nel suo appartamento e come in tutti gli amori tenui, a basso investimento emotivo, non mi domandavo quante donne c’erano state in quell’appartamento prima di me. Mentre lui cercava di impiegare risorse ed energie per un futuro all’insegna della stabilità, io compravo manga. Gli sono venuta a noia per il mio scarso impegno in quella relazione e per il mio non essere abbastanza seria. Mi ha sostituita poco dopo, come se andasse di fretta, come fanno quelli che sembrano dover rincorrere a tutti i costi le canoniche tappe di vita nei tempi previsti dalla legge della consuetudine.
Il morso della gelosia che non sentivo per A, l’ho sentito per L, che aveva avuto una moglie che non solo era bellissima e gli aveva dato un figlio, ma era pure morta. Dunque qualsiasi competizione risultava insostenibile. Faceva uso di droghe, e amandolo ho sperimentato anch’io l’intossicazione. Ogni volta che spariva mi sentivo come una tossicodipendente a cui era stata tolta la sua dose di metadone. Non sentiva di aderire a un disegno standardizzato né nella vita né nel lavoro, che era per lui mera necessità senza ambizione. Viveva la sua esistenza distrattamente, senza grande applicazione, se non nelle questioni che riguardavano il figlio. L era pieno del non-senso che mancava in A, era una creatura con delle storie, di quelle tramandate di padre in figlio, e aneddoti assurdi raccolti nel tempo. Un giorno mi ha regalato un libro ed è sparito per sempre. Il libro l’ho letto molto dopo, quando il dolore dell’assenza faceva meno male, cercando di rintracciarvi passi profetici che avrebbero annunciato quell’abbandono. L resta un mistero irrisolto del mio universo.
Esistono galassie che influenzate dalle reciproche forze gravitazionali si scambiano flussi di materia e gas. Accade che si fondano in un tutt’uno galattico oppure proseguano ognuna per la propria strada dopo essersi concesse l’una all’altra, deformandosi, mutando la propria forma originaria. Quello stravolgimento ha in sé l’eco del passaggio, dell’interazione.
Una settimana prima di partire per Bologna ho conosciuto R. Ero a San Lorenzo, in un locale che casualmente quella sera organizzava una serata di speed date pubblici. Conversazioni intime spiattellate a bella posta. Sul palco, microfonata ad hoc, c’era una certa B, anestesista del Gemelli, che rispondeva disinvolta alle domande scomode del mediatore. Vicino a lei, un tale di cui non riesco a mettere a fuoco alcun dettaglio, se non che non fosse della caratura di B, non tanto per intelligenza o spigliatezza, quanto per senso dell’ironia. Io e R ci siamo ritrovati a commentare l’ingrato scambio di battute a cui stavamo assistendo e a condividere da lui il mio terzo Negroni, il cocktail di James Bond prima che venisse sostituito dal famoso Martini. Così ha detto. Siamo finiti a letto quella sera stessa, pensando che, dopotutto, gli speed date hanno il loro potenziale di successo.
Nonostante le tenerezze e i doni altissimi di quella notte, non l’ho più rivisto. Sono tornata a casa conoscendo finalmente la differenza tra un Negroni e un Americano.