Gli ampollosi burocrati dell’arte

Gli ampollosi burocrati dell’arte
[Tempo di lettura: 9 pignalenti]

La scelta di scrivere questo pezzo è di tipo antinarrativo e antidescrittivo, una scritturalità asemantica, che non sarà di ostacolo alle percezioni delle componenti aeree, liquide, di visionari paesaggi della memoria e della mente in cui la dimensione onirica non cessa di fecondare quella cognitiva, in cui la familiarità incisiva della traccia – di un segno in lontananza – dialoga con la distanza sacrale dell’aura – di un hic et nunc in presenza. Questo pezzo è un enigmatico segno-traccia, interno/esterno, un Kunstwollen preistorico in cui leggerete dell’antilingua che riguarda la comunicazione tra curatore e spettatore. 

La citazione è ripresa dal comunicato stampa di una mostra di qualche anno fa, rielaborata per i fini di questa analisi, per cui ringrazio chi mi ha fornito il materiale e non mi scuso per l’evidente violazione di copyright. 

La società contemporanea che ruota attorno alle mostre d’arte, e ne è al tempo stesso creatrice e fruitrice, impone che il linguaggio della comunicazione espositiva segua determinate regole non scritte, che lascino lo spettatore libero di non aderire all’interpretazione restrittiva imposta dalla classe intellettualoide del curatore e dell’artista, ma anzi che gli permettano di esprimersi al meglio riguardo l’opera e l’esposizione. Allo stesso tempo, questo invito è contraddittoriamente coercitivo se la libera interpretazione è limitata da una percezione ben definita delle opere. La connessione ai vertici del triangolo tra curatore, artista e spettatore va in frantumi: l’artista ha sentito qualcosa che non riesce a spiegare se non mettendolo in opera, il curatore ha capito quello che l’artista voleva comunicare, lo spettatore rielabora i loro ragionamenti e, in risposta, si sente dire: “sì, è vero, potrebbe essere come dici tu, però…”. 

Questo paradosso, comune in molti ambienti artistici sia pubblici che privati, porta i professionisti dell’ambito a diventare una gorgone a metà tra un curatore e un critico con basse abilità di scrittura che, attraverso un registro aulico-formalizzato, richiamando la filosofia esistenzialista e la riflessione tedesca di stampo wagneriano sull’opera d’arte totale, pensa di star scrivendo un opus magnum che gli donerà fama eterna. L’ipocrisia di fondo di questa azione deturpatrice e svilente è che la fama eterna che si ricerca non è più tra le masse, abbandonate a se stesse a vagare tra interpretazioni discordanti e poco chiare ai fini della comprensione comune, ma tra gli addetti ai lavori. 

Si apre una voragine che fagocita due professioni: il curatore è la figura che dovrebbe occuparsi della cura del lavoro dell’artista, valorizzarne i pregi ed esaltarne il messaggio ai fini di una comprensione chiara di quanto proposto nell’esposizione, allestita con precise dinamiche, producendo materiale che sia da supporto alle opere stesse, di facile accessibilità e calibrato sul pubblico di riferimento, seppur nell’idea di creare una base di mercato su cui piazzare le opere; il critico valuta storicamente la novità o l’originalità dell’opera, così come i suoi limiti nei confronti della tradizione precedente e dei codici culturali a essa contemporanei. Il processo del critico si fonda sulla storicità e la sua scrittura è proiettata a tradurre il linguaggio artistico in espressione verbale, utilizzando nella contemporaneità un linguaggio, in certi casi, volutamente ermetico per esprimere la complessità dei fenomeni artistici, anche se in contrasto con l’intento didascalico della sua professione. 

La figura del curatore però è diventata sempre più legata a quella del critico d’arte, dell’allestitore, del social media manager e, in certi casi, dello stesso artista, quando avrebbe la primaria funzione di mediatore tra opera e spettatore. Lo studio della poetica degli artisti, unito alla collaborazione con la galleria o il museo di riferimento, porta nel migliore dei casi a un’armonia d’intenti in cui al centro del lavoro non c’è solo l’operato dell’artista dotato di una certa valenza sociale e politica manifestata al pubblico, ma il pubblico stesso, per cui l’opera, sia essa intimista o meno, viene esposta.Tra gli elementi che possono determinare il successo di una buona mediazione tra opera e pubblico (alla ricerca del prolungamento dei 15 minuti di fama a una funzione infinita) c’è quello che riguarda la comunicazione scritta delle informazioni. 

Il problema affonda le radici nella “critica del gusto”, quel campo dell’estetica che si occupa a livello sociologico della definizione del bello naturale correlata al sentimento del piacere, in cui emerge un aspetto di valutazione soggettiva che scavalca la razionalità. Già nel Novecento ci si interrogava sulle potenzialità critiche e utopiche dell’opera d’arte nella società di massa “caratterizzata dal profondo impatto dell’innovazione tecnologica sulla vita sociale e politica”. L’opera d’arte non era più la portatrice di una verità storica, ma manifestava contraddizioni che non riusciva a risolvere. 

Questa contraddittorietà si è trascinata da Heidegger, a Gadamer e continua fino ai giorni nostri, costruendo l’impalcatura sintattica delle miriadi di comunicati stampa che ci vengono inoltrati alle caselle di posta. Nel secolo scorso, questa concezione dell’opera cercava di suggerire mondi alternativi al presente, radicando la teoria a un substrato che, comunque, aveva ancora a che fare con la storia. Espressioni artistiche come quelle degli Irascibili di New York, o come l’Informale italiano e l’arte concettuale, utilizzavano l’assenza di segni e simboli riconoscibili nelle opere per sottrarre queste all’associazione con un oggetto concreto, che le definisse come tali e le rendesse una merce vendibile sul mercato. La rottura del legame con la storia e il venir meno di questa posizione dell’opera nei confronti della società ha aperto all’inconciliabilità tra la comunicazione degli addetti ai lavori e la capacità del pubblico di comprendere. A partire dagli anni Sessanta, Eco teorizza che il fine contemporaneo del messaggio dell’opera d’arte si trova nella sua natura fondamentalmente ambigua, “pluralità di significati che vivono in un solo significante”, contraddittoriamente definito da proprietà strutturali che gli consentono di avere diverse interpretazioni. L’opera diventa pura comunicazione, con il vantaggio dell’instabilità e dell’ambiguità che permette a chi la “cura” nell’esposizione di mantenere un atteggiamento altrettanto nebuloso. 

Ciò che non viene trattato in questi studi, che comunque si stagliano sul fronte dell’essenza dell’opera e della sua verità (o delle verità plurali), non riguarda tanto l’ambito dell’interpretazione, -approfonditamente sviscerato in sessant’anni di filosofia estetica ed ermeneutica da pensatori quali Gadamer, Barthes, Derrida- ma il campo della comprensibilità. Al di là delle riflessioni filosofiche sul quantitativo di verità che l’opera porta al suo interno e che deve emergere al di fuori per attuare un processo di cambiamento in chi la fruisce, c’è quello che Derrida nel suo pensiero post-strutturalista definisce il “tertium” tra genesi e struttura, quel terzo elemento che nel linguaggio curatoriale è rappresentato dalla capacità del curatore, attraverso la sua produzione scritta, di rendere comprensibile l’opera a chiunque la fruisca. 

Nel 1965 Calvino in Sommersi dall’antilingua, parlando della lingua burocratica, invita ad adottare un metodo comunicativo in cui la quantità di parole non faccia la sostanza, ma allo stesso tempo, la sintesi non sia la soluzione all’incomunicabilità. Quando scrive l’articolo Calvino è completamente immerso in quella che viene oggi definita come “l’ultima questione della lingua”: ancora la maggior parte della popolazione non parlava italiano standard (e chi lo ha mai parlato?), ma comunicava attraverso la propria lingua materna, il dialetto, e si scontrava con la lingua della pubblica amministrazione, quella burocratica. La definizione di antilingua deriva dalla consapevolezza che quanto comunicato per iscritto o oralmente, attraverso i canali di diffusione televisiva o radiofonica, era caratterizzato da “un terrore semantico, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato, come se fiasco stufa carbone fossero parole oscene, come se andare trovare sapere indicassero azioni turpi”.

Lo stesso concetto può essere trasposto al linguaggio curatoriale: laddove posso semplicemente dire che quello di cui lo spettatore farà esperienza è un sistema complesso che non è facile da raccontare o descrivere, preferisco inserire la formula “opera antinarrativa e antidescrittiva, scrittura asemantica” per poi contraddirmi affermando che tutta questa complessità non intaccherà la mia capacità di fare esperienza dell’opera e che sarò addirittura in grado di entrare nella mente dell’artista e percepirne le più “recondite” linee espressive. È vero, inoltre, che siamo di fronte a un enigma, privo di qualsiasi segno o traccia che possa aiutarci a capire che quello che stiamo per vedere è la mostra di un’artista multidisciplinare che ha approfondito nella sua carriera il video, la pittura e il disegno a pastello, raccontando di sé e del mondo che la circondava. Il terrore di scadere nel banale, perpetrato da descrizioni iper-pompose, riflette il terrore umano di non essere considerati: stando al citatissimo scritto di Debord, La società dello spettacolo, siamo naturalmente inclini a ricercare nella spettacolarizzazione dei gesti quotidiani l’unica via d’uscita dall’anonimato, senza riuscire a fare i conti con il fatto che tutta questa pomposità semantica l’abbiamo creata proprio noi, in una competizione senza fine che perde di vista il vero destinatario e si rivolge, come il burocrate al suo superiore, a una figura più in alto, o quanto meno più determinante dell’opinione della massa: il critico. 

Pierre Bourdieu a questo proposito, in La distinzione. Critica sociale del gusto, contemporaneamente a Calvino, sottolineava il rifiuto sociale di ciò che è “facile, semplice, senza profondità”. Il filosofo spiega come sia molto più semplice di quanto pensiamo scadere nel rifiuto di ciò che ci sembra facile da decifrare perché lo consideriamo troppo immediatamente accessibile: ecco che la necessità dell’enigma, della parola complicata, della tortuosità della sintassi si insinuano e si legittimano all’interno di un discorso creato da una persona qualificata, dotata degli strumenti per decifrare una lingua specialistica e tradurla. Al curatore viene tolta la capacità di saper scrivere un elaborato che sia comprensibile al pubblico perché il pubblico stesso è stato educato, come il cittadino dal burocrate, a una lingua artificiosa che viene scambiata per “ben parlare”, in questo caso di arte. 

Il motivo per cui avviene questo fraintendimento sta a metà tra il curatore e il pubblico: il critico, spiega Bourdieu, scredita quelle stesse parole di cui Calvino ci rassicurava; “facile, leggero, frivolo, pacchiano”, oppure termini legati alle sensazioni orali come “sciropposo, all’acqua di rose” diventano le spie della volgarità, della faciloneria a cui un pubblico, che necessariamente deve essere tanto difficile quanto il concetto dell’artista e non può sottostare. L’unica violenza a cui lo spettatore si piega è quella dettata dall’eccitazione che tronca la distanza tra opera e persona, fondamentale in termini estetici per far emergere il gusto puro, portando nella realtà ciò che viene considerato “bello” o “piacevole”, ovvero dandogli un concetto che lo colleghi alla ragione, più che all’intelletto e all’immaginazione. 

Il senso di scrivere che il segno di un’opera “non rappresenta, ma significa”, ad esempio, è esattamente questo: nell’ingannevole promessa di lasciar vagare in un libero gioco intelletto e immaginazione, la lingua del curatore, nelle entità di allestimento, didascalie, catalogo e comunicato stampa, edifica un’impalcatura semantica e sintattica tale che lo spettatore è, in realtà, intrappolato nelle pieghe della ragione, cercando di trovare un nesso concreto a quanto sta leggendo, fidandosi dell’esperienza di chi lo sta consigliando con i suoi scritti, fino a cadere nella farsa della finta comprensione, di cui è vittima lo stesso curatore. Se il pubblico, infatti, ha la coscienza pulita nel constatare tra sé che non riesce a capire l’antinarratività e antidescrittività della mostra perché non ha gli strumenti necessari per poter comprendere fino in fondo, il curatore non può dire lo stesso nel suo rapporto con il critico. Così come il re che vagava nudo per le vie della sua città aveva preferito tacere l’impressione di non vedere alcuna stoffa su di sé perché questa non esisteva pur di non rischiare di essere tacciato di stupidità, anche la figura del curatore, per non deludere le aspettative del critico fa finta che non ci sia un’eccessiva complessità sintattica e contenutistica in ciò che presenta.

Così come il burocrate scrive per il cittadino avendo in mente di compiacere con la correttezza del suo linguaggio il superiore, anche il curatore scrive per il pubblico, ma avendo come riferimento studiosi, critici e colleghi. La struttura di un classico comunicato curocratico segue uno schema preciso: i primi paragrafi sono dedicati a un’infarinatura sulle informazioni essenziali della mostra e sulla poetica dell’artista – dove è stata allestita, il periodo di permanenza, le opere presentate, un focus sul lavoro dell’artista e, infine, la sua biografia. Un visitatore avrebbe tutto quello di cui ha bisogno per poter iniziare la sua esperienza in mostra in modo semi-autonomo. Tuttavia, arrivando verso il terzo paragrafo, questa collaborazione si rompe: è qui, alla fine del testo, quando il curatore ha, secondo il suo sentire, assolto i suoi doveri di comunicazione con la massa esterna, che inizia un viaggio verso la “creazione”. La lettura diventa oggetto di se stessa, come se il testo scritto fosse esso stesso un’opera in mostra: “allusioni sottili, riferimenti deferenti o irriverenti, accostamenti scontati o insoliti” ci dice Bourdieu che alimentano il piacere di essere colti “giocando con la propria arte”.

Il giocare perverso all’interpretazione, dunque, è semplicemente la trappola con cui si applica una distinzione: chi fa parte del gioco sa quali sono le regole e sa interpretare segni ed enigmi, consapevole che non è necessario risolverli, ma percepirli come tali; chi non fa parte della cerchia, invece, interpreta liberamente, così come gli è stato concesso, per poi scoprire che non c’è niente di più sbagliato. L’idea di fondo da cui parte il gioco è che l’arte abbia sempre qualcosa da dire, in quanto si rifà a qualcosa che esiste realmente all’esterno che diventa parte del suo contenuto. L’egemonia di questo approccio, come spiega Susan Sontag, porta all’interpretazione, ovvero all’illusione di avere un contenuto, un concetto con cui distruggere quella distanza di sicurezza che ci separa dall’opera e che ci consente in realtà di apprezzarla. Il compito che si prefigge, erroneamente, il curatore quando utilizza sistemi di comunicazione particolarmente intricati e complessi è un cattivo esempio di traduzione: l’interpretazione, infatti, è “il processo mentale che illustra un certo codice, certe regole interpretative” per cui X in realtà è A, così come Y in realtà è B e via dicendo. Questo dimostra come la funzione “scrittura” teorizzata da Roland Barthes nel Grado zero della scrittura, che dovrebbe unire lo scrittore alla società, non esiste più come tale, poiché trionfa “l’antilingua”, un mezzo di comunicazione che preferisce la retorica alla semplicità e alla comprensione perché vuole creare un discrimine tra chi conta nel proprio campo e chi no. La scrittura, dunque, si riduce a una mera forma di sopravvivenza, un mezzo per una scalata sociale che assassina la lingua e la comprensibilità a favore di un momento di fama tra ampollosi burocrati dell’arte. 

Condividi:
Leave a Comment

Comments

No comments yet. Why don’t you start the discussion?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *