Passeggiando tra Colle Oppio e Piazza Dante, in via Angelo Poliziano, tra un bar anonimo e un altrettanto anonimo minimarket, c’è una vetrina che espone estensioni corporee come fossero pezzi di carne. Lo spazio è al contempo asettico e ipercaratterizzato. L’alluminio mandorlato ricopre il pavimento, le pareti bianche sono illuminate da neon ancora più bianchi, mentre dal soffitto pendono catene e grossi uncini da macelleria. Ho usato l’espressione “espone”, ma, mutuando il pensiero di Pierre Huyghe sulle mostre, forse sarebbe più giusto invertire il punto di vista: sono i passanti a essere esposti a un immaginario esplicito e disturbante. Hembryo, lo spazio aperto a Roma da pochissimo è “l’angelo custode” di Hyperobjects, il progetto artistico che Gaia Lazzaro, artista e designer, porta avanti da alcuni anni in collaborazione con l’artista Roxy Ceron.
Come e quando nasce Hyperobjects? Da quali intuizioni e necessità muove il progetto?
Hyperobjects nasce nel 2020 a Milano. Prima ero ad Amsterdam e lavoravo da Iris Van Herpen, che è una designer biomorfica. Con il Covid sono tornata in Italia e mi sono fermata un attimo. Come designer ero nauseata dalla quantità di materia, di antropomassa, che esisteva sul pianeta, e non sapevo più cosa avesse senso realizzare. Ho letto il libro Iperoggetti di Timothy Morton e ho deciso di provare a fare un progetto che girasse intorno a questa idea, al fatto che il mondo della materia si sta manifestando e sta cercando di mandare dei messaggi al mondo organico, compreso l’essere umano. Quindi un Iperogetto può essere un uragano, il Trash Vortex di plastica nell’oceano, oppure il flusso migratorio degli uccelli. Io cerco di raffigurare questa cosa ad una scala molto piccola, in micro-sculture indossabili al fine di sensibilizzare le persone a tematiche post-antropocentriche. Mi piace provocare le persone, spingerle verso un pensiero critico, anche disturbante se vuoi.
Nel tuo lavoro elimini barriere, sfumi contorni e soprattutto poni dei problemi. Nel Manifesto parli di umano e non umano, di visibile e invisibile, tangibile e intangibile, alla fine operi una sorta di sintesi tra le due cose, non le vedi mai come coppie oppositive?
Quello che voglio fare è proprio andare a cercare di sfumare il confine tra ciò che è vivente e non vivente. Io cerco di creare un immaginario intorno a questi iperoggetti che gli dia una vita, che gli dia una sorta di anima. Mi diverte disturbare il confine tra ciò che è organico, ciò che è inorganico, ciò che è vivente, ciò che non è vivente. Per quello gli hyperobjects hanno queste forme organiche, a volte sono anche scomodi quando li indossi e questa cosa a me diverte tanto, perché è bello sentirli sul corpo.
L’essere umano per tantissimo tempo, e in parte ancora oggi, ha utilizzato la materia ai propri scopi e senza rispettarla, mentre invece, secondo me, c’è bisogno di arrivare a un momento storico dove cominciamo a rispettare il mondo vegetale, il mondo animale e anche il mondo materiale, perché sta cambiando le sorti della nostra vita, ci sta modificando, sta modificando la vita umana in qualche modo.
Immagini gli hyperobjects, in qualche modo, come materia vivente?
Allora, io non penso che gli hyperobjects siano viventi per come noi intendiamo la vita. Cosa intendiamo per vivente è una domanda molto interessante. Io cerco di aprire un pochino di più la veduta e anche di far chiedere alle persone qual è la differenza, cioè perché quella cosa è vivente o non vivente. Molto spesso è solamente il fatto che non respira, che non abbia linfa vitale. Per me se qualcosa ha un agente di interazione, come dice Karen Barad, che è una fisica quantistica e filosofa, se c’è un agente di interazione, allora per me quella cosa è in qualche modo vivente, perché sta modificando in qualche modo il nostro vivere e quindi ha un’agentività.
La tua pratica si muove a cavallo tra arte e design, mi interessa sapere in che modo funziona il processo creativo.
Il processo è molto divertente perché dipende dalla collezione. La prima collezione si rifaceva completamente al libro di Hyperobjects, quindi ci sono proprio diversi capitoli del libro, ogni capitolo magari parla di un fenomeno computazionale diverso, e io cercavo di raccogliere gli algoritmi che descrivevano a livello matematico quei fenomeni, li mettevo all’interno dei software e vedevo queste forme che si autogeneravano. Il che per me è stato rivoluzionario come processo, perché come designer di solito il punto di partenza era un’immagine che avevo in mente, che ricreavo disegnandola in 3D. Adesso invece tramite la tecnologia, per la prima volta, c’è una collaborazione tra me e il computer, poi andare a ricreare un fenomeno naturale, quindi per paradosso il designer biomorfico sta emergendo proprio grazie a una forma tecnologica. Tutto questo per me è molto affascinante perché c’è un alto grado di imprevedibilità.
Mentre la seconda collezione si rifà a un altro testo filosofico, scritto da Ion Dumitrescu, che si chiama Pre e parla del sincretismo tra le tecnologie, tra la visione che noi abbiamo oggi e le visioni passate, preistoriche, e di come noi stiamo ritornando in qualche modo a risentirci collegati alla visione preistorica: quindi a livello musicale la techno, ritmi che riprendono quelli dei tribali antichi, a livello dell’architettura, l’architettura brutalista, che sono queste forme mega-squadrate che possono sembrare caverne antiche oppure templi che sono stati costruiti tantissimo tempo fa, e anche a livello letterario. Quindi la seconda collezione si rifà a un altro testo filosofico e così via. Adesso non è che ci sia sempre una formula, però c’è sicuramente una forte influenza da un punto di vista letterario-saggistico a cui si unisce poi anche la mia ricerca a livello artistico tecnologico. Sono più o meno questi due i fattori fondamentali.
Tu chiami gli Hyperobjects in tanti modi: protesi, estensioni, appendici biomorfiche. Mi sembra interessante perché problematizza proprio il tema del corpo, dove inizia e dove finisce. Io li vedo come una sorta di organi aggiuntivi che io decido o meno di indossare, di esporre, di portare con me.
Sicuramente il tema del corpo, dove finisce il nostro corpo è centrale. Soprattutto ora che nel mondo dell’arte e nel mondo della filosofia si parla molto di biopolitica, del fatto che ci siano certi governi a livello globale che esercitano un certo controllo sul corpo e che quindi il voler modificare il corpo sia un atto anche politico al giorno d’oggi. Con Hyperobjects vogliamo parlare anche di queste cose, sì, assolutamente. Il nostro corpo sta mutando a livelli velocissimi. L’ultimo film di Cronenberg (Crimes of the future – 2022, n.d.R.) parla proprio di questo, di questa clinica in cui le persone vanno a registrare i nuovi organi che stanno nascendo, perché appunto siamo in continua mutazione.
La tua ricerca artistica apre a un nuovo immaginario. Tu prefiguri un nuovo paradigma in cui non c’è distinzione tra animale, vegetale, umano, non umano, eccetera. Quindi un nuovo paradigma in cui coesistiamo e in cui “siamo uno”.
Sì, ma in realtà ciò che cerco di fare è estendere questo paradigma alla nostra cultura, alla cultura western, sì. Ci sono invece altre culture native che hanno già capito tutto. Io sono un amante del buddismo tibetano, loro queste cose le hanno già capite, a tal punto che adesso uno dei ritrovi di fisici quantistici più importanti al mondo lo fanno a Dar Salam, insieme al Dalai Lama, in cui parlano proprio della carica di interazione che hanno gli oggetti.
Quindi in realtà ci stanno culture che ci sono arrivate prima di me, prima dei libri che ho letto. Anche per quanto riguarda l’immaginario di cui parli, il fatto di riprendere delle forme naturali, dei pattern, è una roba antichissima. Durante i miei viaggi a volte vado in dei posti in cui l’unica fonte di ispirazione è la natura. Quindi adesso io lo faccio con la tecnologia, ma in realtà se vai dagli stregoni di Iguazu o vai dai monaci tibetani sull’Himalaya, le forme naturali sono il loro punto di riferimento. Infatti ciò che vedi raffigurato all’interno dei loro templi sono pattern che ritrovi nella natura circostante.
Un elemento molto importante della tua pratica artistica è la collaborazione, penso al rapporto che hai Roxy Ceron, oppure alle collaborazioni per progetti specifici come eventi e performance.
La collaborazione con Roxy è nata innanzitutto da un’amicizia, io e lei frequentavamo Macao e organizzavamo eventi in questo spazio culturale che ha avuto grande importanza per un periodo a Milano e quindi diciamo che ci siamo conosciuti organizzando eventi. Durante il periodo di nascita di Hyperobjects le ho parlato del progetto. Lei è un’artista visiva e nello specifico fa filtri analogici che si applicano sia alla foto che al video e quindi condivide tutto questo mondo fluido e tentacolare di Hyperobjects. Così abbiamo deciso di unire i nostri immaginari.
E poi per la presentazione della prima collezione di Hyperobjects ci è venuto naturale di voler creare un evento in cui invitavamo artisti che parlavano di tematiche simili alle nostre, quindi il primo Hyperobjects non era una collaborazione con artisti, era semplicemente un chiamare artisti che parlavano di post-antropocene, come Lorem che fa questi video con la realtà aumentata, quindi parlava sempre del corpo, del post-antropocene, poi un artista che si chiama Hazina Francia, l’album si chiamava Ego Will Collapse, poi col tempo abbiamo proprio creato collaborazioni con artisti anche oltreoceano come Aune Helden che è una performer di San Paolo. Per noi è importante creare momenti fisici in cui si crea uno scambio anche fisico, non vogliamo che rimanga tutto etere. Non vogliamo creare un mondo tutto digitale, andiamo contro la digitalizzazione del tutto.
Un’altra forma di collaborazione è la rubrica Hypersound. In pratica è una playlist che va in residenza sul sito che praticamente ogni due mesi verrà cambiata per un artista che cercherà di ripartire dall’episodio precedente e così, in qualche modo, scriviamo una storia usando i suoni all’interno del sito.
Mi parli di Hembryo? In che senso lo definisci un incubatore?
Hembryo stesso è un iperoggetto. È uno spazio che comunque ti mette un pochino a disagio, perché entri dentro questa stanza con questi uncini da macelleria, catene, e quello a me già diverte, solamente di provocare un pochino le persone. In più è vetrina su strada, quindi creare anche una reazione non solamente dal nostro pubblico, ma con persone che non si affaccerebbero mai a questo mondo. Passano bambini, passano persone di ogni tipo di etnia, perché è una zona multiculturale. Fa ridere, perché veramente i curiosi non si fanno problemi a entrare. Ho deciso di aprire questo spazio a Roma anche perché sento che c’è spazio per questo genere di cose. E poi credo che sia molto più interessante e anche provocatorio fare una mossa del genere a Roma che non a Londra, Parigi o New York dove delle realtà così esistono già.
Per Hyperobjects è divertente questo concetto, di creare un’installazione su strada. E poi, come ti dicevo prima, a me manca molto il rapporto fisico. Il tool digitale è utilissimo, noi lo utilizziamo a tutto tondo, però c’è anche bisogno di creare dei confronti fisici, e Hembryo nasce come piccolo spazio di incubazione di idee, quindi tu mi trovi là, c’è questo piccolo salottino gonfiabile, io ti accolgo con una tazza di tè, o con quello che preferisci, ci si siede e si parla, con anche degli stimoli che sono letterari, sonori o visivi.
Lascia un commento