C’era una volta il corpo è l’ultimo saggio di Walter Siti, pubblicato per Feltrinelli a novembre 2024, pochi mesi dopo l’uscita di I figli sono finiti, il romanzo con cui, tra le righe e in modo non così esplicito come è apparso a molti, Siti avrebbe “annunciato” che non ne pubblicherà più altri. Al di là delle speculazioni editoriali, che si addicono forse più alla carriera di una rock star che a quella di uno scrittore, C’era una volta il corpo e I figli sono finiti possono essere letti, insieme, come la presa di coscienza da parte di Siti dell’impossibilità a scrivere assecondando la propria poetica, in un mondo che lo scrittore considera radicalmente diverso da quello in cui sono nate le sue opere.
C’era una volta il corpo è l’esplorazione in dieci capitoli delle trasformazioni sociali, culturali, tecnologiche e artistiche che riguardano il corpo umano. Prendendo a riferimento le principali funzioni del corpo, biologiche (mangiare, fare sesso, agire nello spazio, competere, ammalarsi, morire) e socio-culturali (vestirsi e acconciarsi, rappresentare determinate istanze politiche e culturali, auto-rappresentarsi al livello identitario, essere merce), Siti esplora i cambiamenti più radicali in atto nella società contemporanea. Attraverso una ricerca a tratti inevitabilmente sommaria, come ammesso dallo stesso autore, Siti tenta di sistematizzare le implicazioni di una cultura in cui i progressi tecnologici, abbinati a radicali evoluzioni e trasformazioni delle politiche identitarie, stanno portando alla smaterializzazione dei corpi, intesi non più come hardware sociali, oggetti fisici che agiscono in uno spazio e in un contesto – in relazione al cervello che potrebbe essere considerato il nostro software –, quanto piuttosto come wetware, un concetto, cito dal libro, «vago e paradossale, fondato su una metafora o meglio su un’analogia: tra l’hardware e il software di un computer il cervello umano avrebbe una posizione di collegamento, essendo contemporaneamente una struttura fisica e una centrale di elaborazioni immateriali». Ci si chiede, mi sia concesso criticare da subito almeno in parte le posizioni di Siti, in quale epoca storica il cervello non abbia avuto questa funzione di elaborazione allo stesso tempo fisica e immateriale, al di là dell’esistenza dei calcolatori elettronici. È lo stesso autore, poche righe dopo, ad ammettere che «il corpo umano e la techne non sono mai state due entità contrapposte».
Abbiamo citato due aspetti dell’argomentazione di Walter Siti, che per la verità si intrecciano spesso nel discorso: la tecnologia e le politiche identitarie; iniziamo dal dire qualcosa sulla prima. Siti si sofferma sulle possibilità di cambiamento – alcune già in atto – che la diffusione delle intelligenze artificiali e più in generale di nuove tecnologie comporta, fino all’avvento di un possibile transumanesimo o post-umanesimo, in cui il corpo umano agente non sarà (o è) più al centro dei modi di produzione della realtà, poiché soppiantato dal digitale. Il corpo che si muove nello spazio si avvia a essere sostituito da avatar o ologrammi, mettendo in dubbio l’idea stessa di identità; le possibilità di allungamento della vita fino alla sostanziale immortalità, che l’uomo sembra intravedere con i possibili sviluppi in ambito medico, rivoluzionano i rapporti sociali e generazionali, oltre ad ascrivere «anche la fisicità del corpo all’universo della comunicazione […] e quindi offrirlo alla cannibalizzazione da parte del virtuale»; l’illusione del superamento del lavoro fisico in favore della piena automazione obnubila nella nostra coscienza lo sfruttamento di masse lavoratrici e migranti della parte subalterna del mondo, sia essa dentro o fuori da quel che resta della nostra società borghese ristretta; i cambiamenti climatici ci costringono a modificare radicalmente le nostre diete; la fecondazione è sempre più un affare extracorporeo, ridefinendo il concetto di maternità e di genitorialità anche nella dialettica tra cosa sia “naturale” e cosa “artificiale”.
L’autore, sia chiaro, non prende posizione su queste evoluzioni tecnologiche né in senso ottimista-progressista né, al contrario, pessimista-conservatore e anzi evidenzia come certe posizioni tecno-entusiaste e futuristiche sulla trascendenza del corpo umano non sono che la riproposizione di teorie gnostiche secolari. Siti fa trasparire una posizione il più possibile neutra, che tenta di sistematizzare l’esistente piuttosto che criticarlo. È questo atteggiamento a rendere il saggio degno di nota e a non far scadere l’argomentazione in un o tempora, o mores. Constatato il progressivo embodiment dell’intelligenza artificiale, Siti non può esimersi dall’ammettere che anche il corpo umano è «un sistema biotecnologico di enorme complessità, probabilmente il più raffinato risultato dell’evoluzione che sia comparso sulla terra».
A proposito delle questioni più legate al corpo come strumento di affermazione identitaria, l’argomentazione si fa a tratti scivolosa. L’autore insiste più volte su come il linguaggio si stia smaterializzando e distaccando da alcune possibilità definitorie, ritenendo più corretto (politicamente) edulcorare, ridefinire o rimuovere dal parlato certe caratteristiche fisiche: «Ridere dei difetti fisici non è educato e di solito offende; il tempo in cui ora vive l’Occidente non si diverte alle volgarità dei comici, anzi immagina i propri cittadini come delicate piante sensitive che devono essere protette dalla cattiveria del mondo. I ciechi sono non vedenti, i sordi sono non udenti […]; di zoppi e di nani non si deve parlare neppure nelle fiabe, e persino “grasso” è meglio non dirlo di un bambino, proprio mentre stiamo assistendo al dilagare dell’obesità infantile». A proposito del sesso e della sessualità, l’autore tenta di evidenziare come anche le più forti e profonde trasgressioni e manie erotiche sembrino ormai funzionali a un sistema che «forma una complessa rete di identità sessuali e modalità del desiderio che inconsapevolmente si bilanciano e si controllano a vicenda – come se la società costruisse un immenso Panopticon». Questo sistema è schiavo, secondo Siti, di una «ristrutturazione del piano consumistico, che ha trovato nei corpi dei giovani occidentali un nuovo miracoloso mercato». Pesa, su questo giudizio, l’esperienza di chi ha vissuto l’epoca di trasgressione radicale che ha attraversato gli anni Sessanta e Settanta – chissà se quella era davvero così libera.
Anche in questo caso, come per il linguaggio applicato ai corpi, Siti scade in una retorica che presta il fianco, quand’anche involontariamente, alle posizioni più regressive e conservatrici (l’autore parla ad esempio di «moda genderless» e di «libertà fondata sull’indistinzione») e che sembra non tenere in considerazione come le rivendicazioni che hanno a che fare con la sfera erotica, sessuale e identitaria nascono, ovviamente nei casi migliori, da analisi profonde sulle strutture economiche che normano la dialettica tra corpi dominanti e corpi dominati nella società capitalista. Un’analisi che Siti, da buon pensatore novecentesco, applica alla perfezione al discorso sulla forza-lavoro, meno a quello identitario.
Al contrario, molto accurata è l’analisi di Siti sulla rimozione verbale della violenza dal discorso intorno al corpo – come se non esistessero violenza fisica, guerra, morte – e sulla trasformazione capitalistica del desiderio da brutale mezzo di conoscenza di sé stessi e del mondo a ventaglio di possibilità mercificate. Scrive l’autore a proposito della violenza: «Per la politica la parola “violenza” è ormai un tabù […]; anzi no, la violenza è solo quella degli avversari, dei centri sociali o dei black bloc per la destra, della polizia o dei fascisti nostalgici per la sinistra – il fatto che le rivoluzioni esigano di solito la pratica della violenza non pare rilevante […]. Sono poche le occasioni in cui i corpi di diversa estrazione sociale si alleano per combattere insieme». D’altronde, la mercificazione del corpo e del sesso (al contrario di quella della sua identità) è normalizzata da Siti in tutti i suoi romanzi, in cui l’amore è spesso veicolato proprio dal rapporto clientelare e economico con uomini che si prostituiscono e non stupisce che anche in C’era una volta il corpo il capitolo dedicato al sesso e al desiderio sia il più denso. L’autore mette al centro della propria indagine la progressiva sottrazione del corpo fisico dal discorso sociale e tecnologico e denuncia la scomparsa del corpo come soggetto agente e agito, oltre alla perdita della dimensione carnale nell’interazione tra esseri umani. Questa rimozione, si dice in uno dei punti più interessanti del saggio, ha una precisa matrice di classe: «I corpi che incontro nel “quadrilatero della moda”, qui a Milano, sono corpi in transizione; non nel senso consueto di transizione di genere, ma perché rappresentano le avanguardie dei corpi che passeggeranno quando io non ci sarò più. […] Questi sono corpi borghesi, fashion victim, ma è a loro che guarda la classe piccola e media – anzi, i ricchi paradossalmente saranno i soli che cercheranno in viaggi esotici i corpi “nudi e crudi”, mentre la classe piccola e media sarà la massa di manovra per l’invasione della virtualità. […] Saranno corpi fragili a furia di contrastare la fragilità, corpi per buona parte inutili alla riproduzione della specie; lo smart working li avrà disabituati allo spazio, anche la realtà circostante sarà virtuale come il fine a cui tenderà il loro fisico».
Questo apparato teorico denso e complesso prende corpo alla perfezione, in forma narrativa, in I figli sono finiti: Augusto è vecchio, ha subito un trapianto di cuore (è tecnicamente un cyborg, nonostante la sua decadenza?), vive recluso in casa per la paura di essere contagiato dal covid e per gli affanni provocati dall’operazione. Cerca di soddisfare i propri desideri erotici, ormai spenti dall’età e dalla monotonia generata da un mercato del sesso mercificato e normalizzato all’estremo, in cui ogni perversione sembra appiattita e incasellata in una categoria; trova soddisfazione in Franco, un gigolò muscoloso e scultoreo che, al contrario della pletora di culturisti che costellavano romanzi come Troppi Paradisi o Scuola di nudo, sembra essere rimasto un’eccezione in un mercato del sesso ormai per nulla interessante. Astore ha vent’anni, vive da solo, recluso in casa per un desiderio, al limite del trans-umano, di emarginarsi e autoescludersi dalla realtà fisica e rifugiarsi in quella digitale o attendere il suo pieno compimento; ha fatto l’influencer con discreto successo ma rifiuta ormai quel mondo, intrattiene relazioni soltanto virtuali, anche romantiche e sessuali; rifiuta il contatto e la vicinanza con il padre e la sua compagna mentre elabora il lutto per la morte della propria madre biologica. Tra i due nasce un’amicizia dettata dal reciproco interesse, la scoperta di due mondi in apparenza distanti ma in realtà profondamente connessi.
La storia, come il saggio, è ambientata a Milano, una città governata «da un’egemonia canina, ormai malinconica di amori mancati o defunti» – chissà se Siti ha ascoltato l’ultimo album dei Baustelle. Nei dialoghi, che sfociano quasi nel saggismo novecentesco à la Musil dell’Uomo senza qualità, Siti riprende pedissequamente l’argomentazione portata avanti in C’era una volta il corpo – e nonostante in questo articolo io abbia invertito l’ordine, perché I figli sono finiti è uscito prima di C’era una volta il corpo, è innegabile che i due testi siano il frutto di una stessa elaborazione teorica e che potrebbero benissimo essere due parti di uno stesso trattato, una in forma notturna, l’altra diurna. Soltanto qualche esempio per far capire di cosa parlo:
«Augusto si lascia sommergere da questa massa di disperazione, chiedendosi se è proprio finita l’era in cui il desiderio te lo andavi a cercare dal vivo, pedinando e rischiando sputi in faccia; ma nemmeno lui si sente immune dal meccanismo derealizzante – confrontandoli con le antiche foro (e disegni), i corpi delle sue brame si sono progressivamente espansi, gonfiati – il più recente sempre il più grosso».
«Le vicende umane si muovono a scatti, in un caleidoscopio del grottesco: il proprietario siciliano del Pontida Dream è stato risucchiato da un aspiratore immemoriale (qualcuno dice che si sia impiccato ad una trave), il nuovo gestore napoletano è uno di quei maschi per cui comportarsi da guappo (“mi riferisca chi le ha dato fastidio che lo licenzio”) e apparire dominante è ovvio come lavarsi i denti la sera. Il vecchio portinaio è un po’ deluso che invece delle tanto sperate modelle il cortile sia pieno di nerboruti bodyguard; il portinaio di via Lovanio è un peruviano con la panciotta prominente, innamorato dell’Inter e perfino troppo premuroso».
«Non si dovrebbe mangiare nessun essere vivente, solo i frutti caduti, o imparare a vivere di aria e di sole come i breathariani. Le macchine si alimentano di energia…io odio le etichette, se vuole posso essere pure flexitariano, non è una cosa importante».
Sarebbe superfluo citare tutti i passaggi in cui la narrativa ricalca la saggistica – fidatevi di me, insomma. È evidente, in sostanza, come al centro di entrambi i testi sta la crisi del corpo umano come soggetto e oggetto di conoscenza e scoperta del mondo e, di conseguenza, la consapevolezza da parte di Siti della crisi della propria poetica. Walter Siti rappresenta il suo alter ego romanzesco, a cui stavolta non ha dato il suo nome, come un uomo ormai alla fine, che scruta con interesse – Augusto spia Astore dalla finestra – le generazioni successive. I corpi procedono nella loro naturale evoluzione biotecnologica (concedetemi l’ossimoro) e in questa evoluzione secolare una poetica lunga circa trent’anni si avvia al proprio tramonto.