Tra gli oggetti più sfuggenti e affascinanti del primo umanesimo tipografico, l’Hypnerotomachia Poliphili occupa una posizione singolare. Stampata a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio, è un romanzo allegorico illustrato da 169 xilografie, in cui si racconta l’onirica lotta amorosa di Polifilo — “l’amante di Polia”, ma anche, secondo l’etimologia greca, “l’amante della moltitudine”. L’autore resta ignoto: sono stati avanzati nomi come Leon Battista Alberti o Pico della Mirandola, ma un acrostico nascosto nel testo rimanda a Francesco Colonna, forse un frate domenicano o l’omonimo signore di Palestrina. L’opera si sviluppa tra giardini ermetici, cortei di ninfe, architetture impossibili e iscrizioni misteriche: un sogno dentro un sogno, in cui il protagonista attraversa un labirinto simbolico alla ricerca dell’amata perduta. Quando finalmente Polia riappare, prende la parola per riscrivere la storia dalla propria prospettiva, e infine si sottrae un’ultima volta all’abbraccio di Polifilo, dissolvendosi — insieme all’intero universo simbolico — nel momento del risveglio.

Prima che l’eros assumesse i tratti oggi più comuni dell’amore sessuale, tra il basso Medioevo e il primo Rinascimento era concepito come una forma di malattia spirituale, una febbre dell’anima che apriva varchi verso il trascendente. I trovatori e poi gli stilnovisti coltivavano l’ideale di un amore sublimato, rivolto spesso a donne già morte o irraggiungibili, affinché il desiderio non si consumasse nella carne ma alimentasse una tensione mistica e creativa. L’eros era dunque morbo e iniziazione, turbamento e rivelazione: una forza ambigua che conduceva l’amante fuori dal mondo sensibile, verso un ordine più alto. Questo retaggio simbolico, riaffiora, trasfigurato, in Il detective sonnambulo, il nuovo romanzo di Vanni Santoni, una riattualizzazione del cammino dell’innamorato come percorso di conoscenza.

Martino Suckert è un rital della classe disagiata, italiano a Parigi, fuggito dal fallimento familiare e da una laurea mai conseguita. Si trova nella capitale francese perché sente di dover realizzare qualcosa, pur non sapendo esattamente cosa. Passa dunque le giornate tra ripetizioni di latino, alcol e sceneggiature incompiute. Parigi, sospesa tra il suo mito bohemien e la miseria del realismo neoliberale, diventa il suo labirinto: qui trova rifugio tra le braccia intermittenti di Johanna, Virgilio femminino dai capelli rossi, “Pantone 1807”, che lo guida a rubacchiare tra mercatini costosi e bettole brulicanti di sopravvivenze marginali.

La relazione sembra ravvivare l’apatia di Martino, ma all’improvviso  Johanna sparisce senza spiegazioni, lasciando solo segni enigmatici. Nelle battute iniziali della ricerca, quando ancora l’indagine avanza nella mappa sentimentale della città, in quei luoghi che Johanna ha reso significativi per Martino, il protagonista si imbatte in un manifesto in cui la donna appare insieme ad un superuomo misterioso ed etereo. Lo scatto, poco definito, li ritrae mentre scendono le scalette di un jet. In fondo al cartellone è presente la sigla ARC23, il nome di un gruppo di anarco-ambientalisti.

Così Martino si imbatte in Tanya, un’attivista e militante del gruppo alla ricerca dell’uomo ritratto insieme a Johanna, Manfredi Contini Della Torre, un magnate delle cryptovalute, che recentemente ha versato una cospicua donazione in bitcoin sul conto Paypal del movimento di Tanya. Le strade dei due ragazzi si intrecciano in un’avventura che da Parigi li condurrà alla riunione del World Trade Economic a Davos, in un villaggio di bungalow, container e una grande tenda nel deserto cileno di Atacama e infine a nord di Berlino, nello Schloss, l’edificio circondato di siepi, in cui Martino e Tanya si troveranno immersi in un’utopia ambigua tra arte, spettacolo e catastrofe, menati tra i sentieri di una geografia multipolare, tra arte e programmazione informatica, fatta di logiche geopolitiche e sorretta dalla mitologia digitale. 

Come Polia, Johanna ricompare, spezzando l’incantesimo dell’assenza. Costringe Martino a riconoscere una verità semplice e crudele: non è un sogno da inseguire né una proiezione dei suoi desideri, ma un soggetto con una propria storia, sfuggente alla narrazione da lui costruita. Il suo sogno di diventare un’artista l’ha portata tra le braccia di Manfredi, che l’ha eletta responsabile di grandi installazioni artistiche a cui lavorano centinaia di artisti e programmatori riuniti proprio nello Schloss berlinese, versione contemporanea della fortezza di Alamut, centro di comando e produzione dei piani di Manfredi per cambiare il mondo. 

Manfredi Contini della Torre dimostra una marcata ossessione per la cultura anime e nerd, elementi che sembrano permeare diversi aspetti della sua vita e dei suoi progetti. La sua connessione con questo mondo è evidenziata fin dall’episodio in cui il narratore viene portato da Johanna in un negozio specializzato in anime e manga. Il luogo è un vero e proprio “mausoleo folle”, nel piano sotterraneo ospita statue enormi e diorami di personaggi celebri come Goku e Vegeta a grandezza naturale, e scene tratte da serie shonen più recenti come Demon Slayer. A quanto pare Manfredi, alias D. Tor, ha mandato a ritirare un oggetto da collezione molto raro proprio da quel negozio. Mentre si aggirano tra le statue, Johanna è impressionata e lo definisce un luogo dove “hanno preso sostanza i sogni di adulti che non volevano diventare tali, o che volevano tornare indietro e continuare a sognare, ma più in grande”.

Oltre ad immergersi in lunghe sessione di giochi da tavolo, il superuomo di Santoni, più volte paragonato a Griffith, il bellissimo e visionario condottiero di Berserk, il fantasy horror di Kentaro Miura, è un vero e proprio fanatico di One Piece. Il nome di uno dei suoi gruppi d’investimento, DRESSROSA, così come la scritta ADMIRAL e il timone sulle ciabatte o la tazza di caffè con la ciurma protagonista della storia trentennale scritta e disegnata da Eiichiro Oda, suggeriscono al lettore di dover unire i punti che uniscono queste due opere massime della cultura del fumetto giapponese. 

One Piece, la saga di Monkey D. Rufy e della sua ciurma alla ricerca del leggendario tesoro che garantisce il titolo di Re dei pirati, è senz’altro più nota di Berserk. Appartiene a pieno titolo al genere del racconto di formazione, incentrato sui valori di amicizia, libertà e autonomia, necessari per opporsi ai poteri oppressivi capaci di piegare perfino la storia e il modo in cui la percepiamo. La trama di Berserk, invece, merita un breve riassunto per capire l’influenza che ha esercitato sul romanzo di Santoni.

L’opera di Kentaro Miura, iniziata nel 1989, segue l’odissea di Gatsu (Guts), guerriero marchiato da una maledizione che lo condanna a combattere contro demoni e divinità in un mondo medievale oscuro, attraversato dagli orrori della guerra e da terribili forze sovrannaturali. Al centro della narrazione c’è il legame ambivalente di Guts con Griffith, leader della Squadra dei Falchi, il cui sogno totalizzante di fondare un regno lo spinge a sacrificare i suoi compagni per ascendere come Femto, divinità della Mano di Dio. Il sogno è il vero nucleo teorico dell’opera: progettualità capace di piegare il mondo alla propria visione, ma anche forza che riduce chi non ne possiede uno a semplice pedina. In un dialogo chiave, la metafora del pesce e dell’acqua chiarisce questa tensione: alcuni sono il pesce che smuove la superficie, altri solo un’increspatura trasportata. Tra tragedia shakespeariana, horror lovecraftiano e riflessione esistenzialista, Berserk si fa riflessione crudele e visionaria sulla libertà, il potere e la possibilità di esistere come soggetti — o restare fantasmi nel sogno altrui.

È la storia di cosa significa sognare e di chi paga il prezzo dei sogni altrui. Guts, il protagonista, nasce e cresce come corpo trascinato dalla volontà degli altri: un oggetto di desiderio, uno strumento di guerra, un ingranaggio nel sogno imperiale di Griffith, che vuole costruire un regno sacrificando ogni vincolo umano. In questo mondo, il sogno diventa potere quando impone la propria forma agli altri, trasformandoli in pedine, carne, sacrifici. Ma Guts, sopravvissuto alla notte dell’eclissi in cui il sogno di Griffith si compie in forma mostruosa, sceglie un’altra via: non quella di un sogno chiaro e definito, ma quella di un cammino aperto, incerto, dove il desiderio non è dominio ma ricerca. La sua lotta non è solo contro i demoni esteriori, ma contro l’idea che si possa vivere solo dentro i sogni altrui o secondo schemi predeterminati: essere guerriero, compagno, nemico, vittima. Alla fine, Berserk non è la storia di chi realizza un sogno, ma di chi si libera dalla necessità di averne uno, per diventare semplicemente se stesso — nella ferita, nell’amore, nel dolore, nel gesto di resistere.

Il romanzo di Santoni si innesta consapevolmente nell’immaginario narrativo degli shōnen, dove il sogno è il principio motore di ogni azione e trasformazione. Come in One Piece, dove il desiderio infantile e smisurato di diventare re dei pirati sostiene un’epica collettiva e instancabile, anche in Il detective sonnambulo il sogno si presenta come una tensione utopica, un orizzonte di liberazione. Ma Santoni capovolge questa traiettoria: il sogno non nasce più da un gesto individuale, ma si presenta come un prodotto già scritto, estetizzato, reso protocollo o strategia. In questo quadro si definisce una polarità fondamentale che rielabora il nucleo tragico di Berserk: Manfredi è il Griffith della situazione, colui che sogna per tutti, che orchestra visioni grandiose e le rende concrete, radunando intorno a sé seguaci, simboli e un’estetica coerente. Martino, invece, è un Gatsu disarmato: privo di una missione, privato del trauma e della spinta che genera l’azione, condannato a gravitare nelle orbite dei sogni altrui. Non combatte il sogno, ma lo osserva da fuori; non partecipa alla narrazione, ma la documenta, ed è in questa incapacità di sognare per sé che Martino incarna con radicalità il soggetto contemporaneo: deprotagonizzato, esposto, riflesso.

Nel cuore di un finto summit a Davos, messo in scena per depistare curiosi e oppositori, Martino si imbatte in un manifesto che sembra condensare le contraddizioni di un’intera epoca: quella delle criptovalute. È un testo allo stesso tempo programmatico e ambiguo, che alterna affermazioni all’apparenza opposte. Le cripto, si legge, creano scarsità artificiale ma anche capitale comunitario, escludono e includono, arricchiscono élite eccentriche e promettono finanza accessibile e senza confini. Come il sogno collettivo del denaro che le ha precedute, le valute digitali sembrano contenere in sé ogni potenziale: utopia, distopia, e tutto ciò che sta in mezzo. Soprattutto, rivelano come la fiducia — e non il valore in sé — sia la vera materia prima di ogni sistema economico.

Questa visione onirica del denaro viene elevata a cosmologia da Manfredi Contini della Torre, figura quasi oracolare del romanzo, che pronuncia una delle frasi chiave del libro: “Il denaro dorme sempre, il denaro sogna”, come in una vera hypnerotomachia finanziaria. La realtà non segue più le leggi umane, ma quelle di sogni autonomi, ormai governati da intelligenze artificiali. L’aneddoto dell’account fasullo della Eli Lilly — verificato con cinque dollari e in grado di cancellare miliardi in capitalizzazione di mercato — non è solo un esempio grottesco: è la prova che il denaro ha preso vita propria, agisce in ambienti automatici dove l’umano non è più necessario né previsto ma elemento del mondo onirico del denaro stesso.

Come nella tulipomania del XVII secolo, anche nel mondo del romanzo di Santoni la realtà economica appare sospesa su un sogno collettivo, fatto di segni che si scambiano tra loro valore, ma privi di radicamento materiale. Nella febbre olandese per i tulipani, bulbi reali ma fragili, il desiderio si era talmente distaccato dall’oggetto da generare una bolla: i prezzi salivano non per il valore d’uso del fiore, ma per la convinzione che qualcuno, domani, li avrebbe pagati di più. Quando quella fiducia evaporò, il sistema collassò.

Allo stesso modo, la blockchain – livello ulteriore del sogno-denaro – agisce in un’economia dove la solvibilità non dipende più da garanzie materiali o statali, ma da un algoritmo distribuito e da una promessa matematica. È questo il terreno onirico in cui si muove Martino: la sua stessa realtà è garantita dalla presenza di Johanna, che scompare come un asset volatile, come un NFT dissolto nei server. Senza di lei, anche Parigi perde coerenza, la solvibilità del mondo entra in crisi, e Martino è costretto a inseguire non solo una donna, ma il senso stesso di ciò che ha valore.

Il romanzo così mostra come la crisi amorosa e la crisi economica coincidano: entrambe sono crolli di fiducia, entrambe rivelano l’instabilità di ciò che sembrava reale, e che invece era solo sostenuto da narrazioni condivise. Se il denaro è un sogno collettivo, come suggerisce Manfredi Contini della Torre, allora Martino è l’uomo contemporaneo che ha perso l’accesso al sogno personale, e cerca di orientarsi tra visioni altrui: quelle dei potenti, degli influencer, dei rivoluzionari in scenografia. È un Gatsu senza spada, immerso in una rappresentazione totale in cui anche il dissenso è stato pre-visualizzato, reso site-specific, incorniciato nel gesto artistico e quindi depotenziato.

Per questo motivo lo Schloss è il dispositivo centrale del romanzo: non solo un luogo, ma una macchina narrativa, un acceleratore di realtà e insieme il suo specchio. Le azioni che vi si progettano — gli allagamenti dolosi per operazioni di contestazione, falsi video rubati, atti di terrorismo dinamitardo — sembrano oscillare tra sabotaggi simbolici, happening globali, e operazioni di marketing. È la parodia tragica delle avanguardie: dove c’era la cellula militante, ora c’è il collettivo transmediale. Dove c’era la fabbrica occupata, ora c’è la startup artistica.

In questo scenario, Santoni mette in scena una riflessione vertiginosa: è ancora possibile distinguere tra chi fa arte sulla rivoluzione e chi fa rivoluzione attraverso l’arte? Ogni gesto politico appare assorbito, filtrato, replicato in estetica. 

Santoni costruisce il romanzo come una macchina allegorica in cui sogno, denaro, identità e politica si rifrangono l’uno nell’altro come specchi deformanti. È, forse, anche un atto d’accusa alla letteratura italiana contemporanea, troppo spesso ripiegata sull’Hypnerotomachia del proprio ombelico. Martino incarna quei poeti che si drogano di immaginazione erotica per sfuggire al mondo sublunare, inseguendo l’illusione di un empireo interiore. Ma nel Detective sonnambulo l’amore è solo il viatico verso il vero nodo oscuro: la solvibilità — sentimentale, esistenziale, finanziaria. I capelli rossi di Johanna e la risolutezza di Tanya, donne-angelo senza trascendenza, sono le briglie di un carro che ci trascina verso il grande bluff: la blockchain, le bolle speculative, le fantasie tecnocapitaliste che promettono futuro mentre erodono il presente. Eppure, questa vertigine artificiale è paradossalmente più vitale della stanca autofinzione borghese, incapace di concepire altri mondi oltre il proprio narcisismo.Uno degli aspetti più riusciti di IlDetective sonnambulo è la sua capacità di mascherare sotto l’apparenza del gioco una costruzione narrativa perfettamente coerente, dove ogni dettaglio — ogni sogno, ogni indizio, ogni mania — concorre a edificare una visione del mondo. Santoni prosegue qui la sua esplorazione delle subculture come sistemi di senso alternativi, trattandole non come oggetti folclorici ma come universi semi-seri, dotati di mitologie proprie. La trama si muove con ritmo, lasciando al lettore il piacere delle prime rivelazioni per poi spingerlo in un vuoto immaginativo, in un’assenza di fondamento che non chiude ma apre — un vortice, appunto, simile a quello in cui Eco gettava i suoi protagonisti in IlPendolo di Foucault. Ma se lì il gioco esoterico restava confinato in una deriva paranoica di intellettuali ossessionati dal senso, qui il potere occulto è quello, fin troppo reale, dei magnati della rete, dei cultori della blockchain come nuova gnosi. È una parodia anche questa, certo, ma condotta con una serietà che la rende del tutto credibile: non tanto un’allegoria del nostro tempo, quanto la sua descrizione più lucida.

Una risposta a “Il pesce che increspa la superficie dell’acqua – “Il detective sonnambulo” di Vanni Santoni”

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