Ogni mattina inciampo sempre nello stesso cliché, non riesco a guardare nel vuoto. Il mio sguardo, ancora intorpidito, cade sul fondo della tazzina e osserva, lento, grani impolverati di caffè amaro, cristalli scheggiati di zucchero esausto, briciole annacquate, simili alla neve fradicia accumulata e compattata a bordo strada dalle auto in marcia, penso alla neve di Dostoevskij. Mi soffermo a fissare quell’ecosistema semi-anfibio, senza alcun motivo e con estrema dedizione colgo l’esistenza in fieri di certe metamorfosi, cambiamenti di stato, di forma, di colore. Sebbene circoscritto e fisicamente limitato, il fondo della tazzina sembra tramutarsi a sua volta, rompe il perimetro circolare e la superficie liscia che lo contiene, la parvenza di un ambiente alieno, un panorama quasi lunare. Lungo le vene della ceramica invecchiata, quasi fossero creste e dorsali oceaniche di un antico oceano estinto, corrono, addensandosi e respingendosi, gli atomi organici che ho consumato poco prima, il precipitato della colazione. Si organizzano geometricamente in schemi e immagini più o meno riconoscibili, sensazione note, sogni macchiati e già dimenticati, ologrammi preistorici d’argilla edibile. Il ticchettio dell’orologio, risciacquo la tazzina.

È spesso il dettaglio più discreto ad innescare il lento lavorìo dell’immaginazione che trasforma l’istante in figura e il reale in metafora. Nella cultura giapponese il termine suichûka, letteralmente “fiori che si aprono in acqua”, designa un grazioso divertissement: il gioco prevede l’immersione di piccoli pezzetti di carta in una tazza di acqua fredda, verosimilmente una tazza da tè. Una volta sommersi i pezzetti si contorcono su sé stessi, si attorcigliano e si allungano fino a mutare completamente forma e tono cromatico, dando vita a entità nuove, liquide ed iridescenti, fantasmi di case nella nebbia, fiori in uno stagno, personaggi solidi. Dello stesso gioco parla Proust nella pagina forse più celebre della Recherche, quella delle madeleine. Prima di completare l’epifanica reminiscenza, spontanea e involontaria, che riporta il narratore tra le strade e i prati e la piazza di Combray, Proust cita direttamente “quel gioco che piace ai giapponesi”. In termini di gerarchia narrativa la suichûka incapsula l’episodio delle madeleine, ne amplifica e ne spiega gli effetti prima che esso si completi. Scrive Kazuyoshi Yoshikawa, studioso del giapponismo nella cattedrale proustiana: “Il paragone con la suichûka giapponese, posto prima dell’apparizione finale di tutta Combray, abbraccia pienamente il movimento dello sbocciare dei fiori e dei ricordi, e conferisce così al ricordo, incolore e astratto, i tratti visivi di un miracolo”. I ricordi sarebbero dunque dei fiori selvatici, organismi perenni e spontanei, nati all’improvviso in ambienti magari ostili, fuori tempo massimo, fuori stagione, casi senza cause.

Proust, autore e narratore, si sottrae deciso a qualsivoglia rapporto di causazione, riserva scarsa fiducia a quella che definisce “memoria dell’intelligenza” o “memoria volontaria”, la memoria dei filosofi che propongono di applicare alla realtà un’indagine conoscitiva aprioristicamente rivolta al vero, la scoperta agognata di una verità pensata dal presente in vista del futuro come già vera; dunque, artificiale, sintetica. Combray è morta, schiacciata dalla profondità del tempo andato e dalla numerosità degli spazi vissuti, il passato “se ne sta nascosto al di là del suo dominio e della sua portata (dell’intelligenza), in qualche insospettato oggetto materiale e nella sensazione che esso ci darebbe. Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire, oppure non lo incontriamo mai”. Il ricordo proustiano è ostinatamente sinestetico, la sola visualità non basta a farlo riemergere e, pertanto, occorre che tutte le particelle sensoriali, in vari momenti stimolate, si allineino come custodi intorno al pericolante edificio del ricordo, lo cospargano di rugiada policromatica, odorosa e musicante. Gesamtkunstwerk, opera d’arte totale in interlinea.

Ciò che non è casuale è il riferimento, a cui ne seguiranno altri, di Proust al Giappone. Lo scrittore francese, visti i numerosi accenni, sembra nutrire un certo interesse nei confronti di tutta quell’oggettistica e quella ritualità nipponica che tanto era amata dalla Parigi mondana tra XVIII e XIX secolo. Personaggio archetipale del giapponismo à la page della Recherche è Odette de Crécy, la cocotte-geisha follemente amata da Charles Swann tra “cuscini di seta giapponese” alla luce bronzata di “una grande lanterna giapponese sospesa a una corda di seta”. Decisiva per Proust fu poi la vicinanza a personaggi come Robert de Montesquiou e Samuel Bing, il primo, vero e proprio apostolo e dilettante mondano del giapponismo parigino, il secondo, proprietario di un negozio di antichità orientali L’Art nouveau e fondatore della rivista Le Japon artistique, che l’autore sfrutta a più riprese come catalogo di pezzi d’arte di gusto con i quali arredare i salotti della Recherche (ad esempio il ricorrente “iris giapponese in un vaso di cristallo”).

La percezione del Sol Levante, ieri e oggi, si risolve spesso in un feticismo oggettuale, radicato in una nuova zona franca dell’immaginario, somigliante più a una collezione-esibizione di farfalle, che a una reale conoscenza del nuovo e diverso, semplice e superficiale passione per un esotismo pacifico di prima mandata in cui coesistono con zoppicante coerenza seta e carte pokémon. In breve, complesso del souvenir. Tuttavia, seppur intriso e forse derivato di tale approccio, il giapponismo proustiano riesce ad andare oltre, superando la mera chincaglieria e rintracciando affinità più profonde, estetiche e spirituali, funzionali alla scrittura. È lo stesso Proust a satireggiare con sguardo ironico la giapponesità dei suoi personaggi e i gusti dell’alta società parigina ormai sulla via del tramonto, a schernire Madame Verdurin che decora la tavola del suo salotto con dei crisantemi bianchi, ignara della valenza funebre di quel fiore, riconosciuta tanto in Giappone quanto in Francia.

Descrivendo Combray: “Prati piantati a intervalli uguali con meli che, illuminati dal sole al tramonto, portavano il disegno giapponese delle loro ombre”. Perché i meli? Già all’epoca era noto, infatti, grazie alle opere di Edmond de Goncourt (La Maison d’un artiste e Hokusaï per citarne due), che i ciliegi in fiore fossero uno dei simboli identitari del Giappone, ed è improbabile che Proust, data la sua accurata conoscenza di piante e fiori, li abbia confusi. L’identificazione, anzi l’innesto, del significato e dell’immagine dei fiori di ciliegio in quelli di melo, è frutto dell’attività creativa di Proust prima ancora di ogni interferenza esterna, un residuo di un’esperienza o di un oggetto osservato, magari il ricordo di una giornata in cui è riuscito a scorgere qualcosa di Edo (nome originario di Tokyo) in qualche viale o giardino di Parigi. Quello che conta, tornando al passo della Recherche, non è tanto la letteralità del riferimento in questione, quanto la sua adattabilità nel tessuto testuale e la corrispondenza esistenziale con lo scrittore. Da un ricordo o da una sensazione, un segno del mondo estremo dell’arte per dirla alla Deleuze, si instaura un’analogia associativa apparentemente illogica, che però, in quanto creazione spontanea, sarà autentica e sincera, visibile e percepibile. È l’incanto infantile della suichûka, la poetica della Recherche.

Un terreno di confronto proficuo, affinità epidermica tra i fuochi nippo-proustiani, è il colore, il modo in cui viene usato, pensato e costruito lessicalmente. Del senso cromatico giapponese ci parla Laura Imai Messina nel suo Il Giappone a colori, ma, prima di parlare di colore, l’autrice racconta nell’introduzione la genesi del libro. Dice Imai Messina: “Ho allontanato ogni volta la scrittura di questo libro, sia perché mi pareva inaffrontabile (ogni volta che vi posavo sopra la lente scoprivo come la realtà di una tinta si sdoppiasse […] continuando a scindersi), sia perché sentivo che, finché fosse rimasto aperto il discorso, avrei continuato a dialogare con l’argomento, a domandarmi di che colore fosse qualcosa e perché […] Credo d’essere riuscita a scriverlo solo una volta accettato il fatto che non lo avrei mai finito”. Scrivere del colore specchiandosi in esso, cedendo il passo a un habitat stratificato e sfuggente, fatto di suoni, simboli e concetti arbitrari, e, per questo, liberamente relativi. Il libro stesso diventa il suo oggetto, scriverlo la sua trama.

Il kanji basilare di colore è 色 (iro), si tratta di un ideogramma composto, nato dalla combinazione tra la persona 人 (hito) e l’atto di inginocchiarsi, di piegare le articolazioni delle ginocchia. Per continuità semantica il kanji 色 designa tutte quelle emozioni, scaturite dalla prossimità fisica, che possono provocare “accrescimento emotivo originato dall’incontro tra persone”; gioia, imbarazzo, rabbia e sorpresa, “si tratta di quelle emozioni che, quando così intense, tingono letteralmente il volto umano, tanto che il carattere di colore ha finito per intendere anche le condizioni di salute, come il pallore, il colorito, la costituzione”. Iro porta dunque con sé, nella pluriforme formazione dei nomi giapponesi di colore, un elemento intrinseco di soggiacente e necessaria tattilità, di contagio psicofisico, secondo dinamiche concettuali di vicinanza multisensoriale prettamente votate alla sinestesia. I colori pensati si riflettono in quelli scritti o letti (e viceversa), come se ogni tonalità cromatica fosse una grande facciata vuota in cui è impossibile sbirciare all’interno, spogliata com’è di porte e finestre. Ciò che si vede non è il colore, è una rappresentazione fittizia di cui l’osservatore è il primo artefice, la punta del percepibile, il visibile dell’invisibile. Il pendolo ontologico del colore oscilla proprio tra questi due poli, la manifesta e assidua visibilità da una parte, la naturale incapacità a mostrarsi integralmente dall’altra, nel mezzo una certa (in)attitudine, soggetta a variabilità individuale, dell’uomo alla cecità cromatica e più in generale all’insensibilità segnica. “Riconosciamo le cose, ma non le conosciamo mai. Confondiamo ciò che il segno significa con l’essere o con l’oggetto da esso designato”, scrive Deleuze in Marcel Proust e i segni a proposito dei segni proustiani necessari alla Ricerca.

Imai Messina, per descrivere l’interminabile processo di gemmazione che caratterizza la vista e lo studio del colore, si aggrappa al concetto di “infra-ordinario”, ripreso dall’acuto pensiero dello scrittore francese Georges Perec, secondo cui tra le pieghe della quotidianità è oramai prassi ignorare tutto ciò che è banalmente solito e familiare, il rumore di fondo, a beneficio esclusivo dell’avvenimento straordinario; come se qualche cosa iniziasse ad esistere soltanto una volta rotta, sconvolta, lacerata, se la si potesse solo gridare.

Il cielo, ad esempio, è un grande contenitore di oggetti e dati largamente prevedibili, enumerabili con chiarezza, scontati: nel cielo ci sono le nuvole e il sole, la luna e le stelle, a seconda del momento della giornata e delle condizioni atmosferiche; il cielo è sempre su, in alto, verticale; il cielo è azzurro o blu, al massimo grigio o bianco, di rado rossastro se accarezzato da un tramonto più invadente del solito. A nessuno verrebbe in mente di scardinare questa griglia di valori. Eppure, in Giappone, il cielo non è azzurro ma 空 色 (sora iro), ossia color cielo, il suo colore è fedelmente sé stesso. Il sora iro è anche protagonista di una delle favole della scrittrice di letteratura per l’infanzia Naoko Awa, dal titolo Sedia a dondolo color cielo (Sora-iro no yuriisu). In attesa della nascita, un artigiano del legno tenta di immaginare il colore della sedia a dondolo che avrebbe presto cullato la figlia, “sarà rossa pensa, ma la bambina nasce cieca e la sedia resta nuda”. Fortunatamente, in seguito, grazie a un misterioso ragazzino giunto nella casa dell’artigiano, la sedia e gli occhi della bimba si tingono di un colore, il sora iro: “Con una boccetta di vetro, pazientemente, l’uomo e il ragazzino ne raccolgono di ora in ora i toni cangianti e li riversano nella tintura”. Il risultato è un turchese iridescente, somigliante allo sfavillio che si intravede quando si guarda una fonte di luce con gli occhi chiusi, un colore alchemico che ne racchiude tanti altri, ma si definisce al contempo con una sola parola, senza la quale esso non esisterebbe.

Un po’ come il mauve presente nella tavolozza proustiana, assidua infiorescenza nel corso di tutta la Recherche. Il color malva, come il sora iro, conduce un’esistenza autonoma legata a quello che effettivamente è, esiste primariamente in quanto fiore, annidato nel termine che lo designa. Proust, che lo utilizza, allo stesso modo degli altri colori, in funzione mista, mescolando denotazione e connotazione, saturandone a seconda del luogo testuale questa o quella nuance, dal più opaco dei rosa fino a intensi viola screziati con qualche goccia di cenere, opera una manipolazione molecolare non lontana, metaforicamente, da quella di William Perkin, giovane chimico inglese e scopritore casuale della versione sintetica del color malva nel 1859. Perkin, mentre lavorava a un vaccino per la malaria, tentò di ricavare chinino dal catrame di carbone; l’esperimento fallì, ma grazie ad esso l’Inghilterra conobbe per la prima volta il mauve.

“Lo stile per lo scrittore non è una questione di tecnica ma di visione”, scrive Proust nel Tempo ritrovato, sulla scia di queste parole Eleonora Marangoni in Proust. I colori del tempo commenta: “Il colore sta allo stile come il disegno sta alla trama, e le grandi opere non sono, in fondo, che una combinazione riuscita dei due elementi. Ma uno finisce sempre col prevalere sull’altro e in pittura, come in letteratura, si è coloristi o disegnatori”. Proust è un inguaribile colorista, afflitto da quel disturbo sinestetico per cui qualsiasi cosa (sia essa lettera, suono, numero) ha un colore unico e ingiustificato, non replicabile se non con le parole, e, soprattutto, semanticamente significativo; non il primo, non l’unico, Rimbaud d’altro canto, sul colore delle vocali, scrisse una delle sue più visionarie poesie.

Nella Recherche la dichiarazione di stile è affidata al personaggio di Bergotte, lo scrittore ammirato dal Narratore e sua fonte di ispirazione. In occasione di una mostra al Jeu de Paume, davanti alla Veduta di Delft, celebre quadro di Vermeer, un cagionevole e cinereo Bergotte riversa totale attenzione su di un “piccolo pezzo di muro giallo” e, dopo averlo contemplato a lungo, accusa un malore. In punto di morte, pervaso nell’anima da quel giallo tanto denso, riflette sul bilancio letterario della sua opera, ammettendo a sé stesso che era così, come quel giallo, che avrebbe dovuto scrivere. Un manifesto estetico, privo di riferimenti eminentemente letterari, esemplificato e concentrato in un solo e semplice colore, che prende le vesti quasi di un testamento, se si considera che Proust, poco prima di morire, revisiona con zelo disperato proprio l’episodio di Bergotte. E non è un caso che dalla penna di Proust siano di rado scaturite descrizioni fisiognomiche accurate, volti e corpi visibili con chiarezza nei loro dettagli individuali, immersi in centrifughe di eventi e colpi di scena. Nulla di tutto questo, La Ricerca è stasi cinetica, un’opera talmente veloce da rimanere ferma, inchiodata allo scorrere incoerente del tempo vissuto, perso e ritrovato, dimensione cronotopica relativa ed effimera, in cui coesistono presente-passato-futuro. Il colore è un segno universale prestato alla scrittura, uno dei pochi, per raccontare e raccontarla. Un pretesto, come il fondo di una tazzina.

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