Conosceva bene le cassette nere della frutta e della verdura. Di plastica sottile, con una trama a rete e basse – che contengono solo due strati di pesche, mentre gli altri fuoriescono dai manici poco resistenti da cui afferrarle. Le conosceva perché tante volte le aveva spostate, sollevate, riempite, svuotate. Non ci era mai rimasta dentro così a lungo.

Questa volta è diverso. Si sente sola, senza forze e spaesata. È come se le mancasse qualcosa, una sensazione mai provata prima: “Come ci sono finita qui dentro?” – questa domanda la pongono i tic involontari del suo indice e i rigonfiamenti sul dorso in corrispondenza delle vene. La pone la sua pelle viola per il freddo, insomma tutto della sua anatomia sembra urlare: “fatemi uscire – che ci sto a fare qui?”. Intanto che prova a fare i conti con queste nuove pulsioni da inviare alle sinapsi – con le quali si è interrotto il segnale – fuori dalla cassetta sta accadendo di tutto. Molti parlano anche di lei, senza che nessuno confessi come può – una mano – imparare a vivere dentro un contenitore in plastica, privata del resto del corpo. Una donna prova a darle forza riversando tutte le sue lacrime nella cassetta. L’ha baciata, perché ha sentito un calore familiare e la punta dell’indice e del medio è quasi arrossita. Un uomo, invece, usa la sua mano per coprirsi gli occhi, quasi ne avesse paura – nonostante quella cassetta fosse proprio la sua.

Per reagire alla situazione prova a ricostruire gli impulsi che – nel tempo – i suoi neurotrasmettitori avevano inviato al cervello. “Magari fra di essi c’è qualcosa di simile a quello che provo adesso, e può essermi adatto” – così interpreta la ritorsione spontanea di tutte le sue dita verso l’interno del palmo. Tutte e cinque le ramificazioni si arricciano su se stesse – raggrinziscono – e raggiunta la stretta di un pugno le riemerge un ricordo.

Erano a Jabalpur quel giorno, poco lontano dal fiume Narmada, impegnati a lavorare fra i campi di cotone. Sulla terra, poco sotto di lei, vide una lucertola. La mano fu costretta a inseguirla perché il cervello le suggerì di provare a ucciderla. Proprio quando l’aveva in pugno, si accorse di tenere soltanto la piccola estremità della coda – ancora in grado di agitarsi. Il resto del rettile era fuggito per mettersi in salvo.

“Ora tutto è chiaro. Il corpo al quale ero attaccata è scappato per correre al riparo. Sarà ormai al sicuro: per continuare a vivere io dovrò generarne un altro a partire dalla mia estremità. Sono la coda di una lucertola!”.

Il primo passo per riuscire a rigenerare un corpo dall’estremità è imparare a ragionare. Questo, però, porta con sé una lunga serie di dubbi, pronti a tormentarla ora che dovrebbe stabilire la prossima mossa. “E se non ci riuscissi? Se mi fosse rimasto poco tempo prima di annientarmi anch’io? Forse è solo un ultimo scampolo di energia a farmi provare tutto questo…”. Mentre lo sconforto la assale, il suo mignolo continua a muoversi e piegarsi proprio come farebbe la coda di una lucertola.

Qualche giorno dopo, la mano sente mancarle la terra sotto i piedi. In effetti è così: qualcuno sta spostando la cassetta per portarla in un luogo sicuro. Mentre percorre il tragitto tra le braccia dell’uomo che la sta trasportando, pensa di poter mettere la punta di un dito fuori dalla cassetta, per riuscire a sfiorare qualcosa che le dia un’idea di dove si trova. Un tonfo e riesce a toccare una superficie fredda dai buchi della cassetta: la pelle le diventa rugosa, come quella di un pollo a cui sono state tolte le piume.

Quel freddo le ricorda i mesi di febbraio, quando si preparava il terreno per la semina arandolo a mano. Finché teneva i manici dell’aratro, rivestiti in plastica dura per essere più solidamente afferrabili, riusciva a indossare i guanti per proteggersi dagli infortuni. Una di quelle volte, però, le capitò di doverli sfilare perché le lame dell’aratro si erano bloccate e per infilare le dita negli spazi più piccoli dell’attrezzo aveva bisogno di maggiore sensibilità. Dopo essere stata tante ore sotto al caldo dei guanti, quel materiale era più freddo che mai. La superficie fredda – il metallo dell’aratro. Sulla pelle le comparvero gli stessi pallini ruvidi di allora.

Il ricordo di quel giorno la riporta immediatamente al pungolo iniziale: “da dove trovo la forza per ricreare quel corpo che mi sosteneva a maneggiare l’aratro?”.

Poiché, effettivamente, la cassetta era stata appoggiata su un grosso tavolo di alluminio, la mano dall’interno prova a farsi forza sul polso per disporsi in posizione eretta. “Da qui forse, come fanno le piante, riescono a farmi spuntare altri rami, a crescermi le dita”. Per alcuni giorni resta dritta col polso per base e si sforza di allungare le dita, stirandole come se dovessero arrivare a qualche superficie poco più in alto. Non nasceranno né fiori né arti da questo tentativo.

“Ma certo, ho sbagliato tutto! Le dita sono la fine del mio corpo, la parte da rigenerare dovrà per forza svilupparsi dal polso”. Ma, provando a mettersi in equilibrio sulle dita, non riesce a rimanere stabile per più di un secondo. Ruota la posizione del palmo per obliquo, spinge il più possibile dal polso per riuscire a ribaltare il verso della sua statura, cerca di invertire l’asse x con quello y sostituendo la posizione orizzontale in cui si trova da giorni con una postura verticale. Ma non ci riesce, il medio è più lungo degli altri e i polpastrelli diventano una base zoppicante, anche tenersi su un solo dito sottile è alquanto impossibile. Le nocche iniziano a sbucciarsi a forza di tentativi e cadute, le ricordano il sangue, le ferite, gli incidenti che ha vissuto fino all’altro giorno. Questo ricordo le dà tanta forza: “possibile che dopo tutte quelle fatiche, io ora non sappia far rinascere una lucertola?”.

Dopo aver ritrovato la determinazione e il coraggio, la mano decide di dover uscire dalla cassetta. Sicuramente il contatto con la natura, toccare la terra e muoversi, la aiuteranno a funzionare meglio e a riuscire nell’impresa – come ha sempre fatto.

Inizia la sua arrampicata. Aggancia il mignolo a uno dei buchi della cassetta sulla fila più in basso, così può mantenere il polso appoggiato a terra. Spinge contro il fondo della cassetta per tentare di sollevarsi e far arrivare almeno l’indice all’incastro superiore. Invece cade giù. Le articolazioni non riescono più a compiere i movimenti a cui erano abituate. Il polso è diventato pesantissimo, il palmo rigido e teso come fosse congelato. “Non rinascerà mai una lucertola” – si dice ormai disperata.

Però ci riprova. La lucertola che è riuscita a mettersi in salvo e l’ha lasciata nella cassetta, le ha insegnato proprio a non arrendersi. E che il primo compito delle mani non è fare ma rifare: rifare il letto al mattino, rifare da mangiare la sera dopo che si è già fatto a pranzo, rifare un nodo che si è sciolto, rifare il solco sulla terra e ripiantare il seme ogni anno nello stesso mese. Le mani degli uomini rifanno gli uomini come le code delle lucertole rifanno altre lucertole. Lei è entrambe le cose, e allora ci riprova.

Sale il primo gradino col mignolo, prende la rincorsa spingendo il polso sul piano, allunga il più possibile l’indice ma niente. Cade ancora rovinosamente. Cambia strategia: “proverò a cominciare con l’indice, che forse è più resistente”. Non solo, è anche più lungo, quindi riesce a toccare con la punta la seconda fila della griglia di cui è fatta la cassetta. Facendo una fortissima leva sull’indice già appeso, riesce ad arrivare col medio alla fila successiva. Si sta arrampicando. “E ora?” Per riuscire ad avanzare dovrebbe far salire l’indice di nuovo, ma si accorge che è un tentativo troppo al di sopra delle capacità che ha ora – amputata dalla lucertola che, invece, era così energica, che non le faceva mai avere paura.

Passano altri giorni ancora e, dopo infiniti tentativi, la mano – imperterrita e ispirata da quella stupida lucertola – si fa venire in mente un altro piano. “Proverò a sbattere il polso, che è più largo e robusto, sul bordo sinistro della cassetta. Sempre più forte finché non si rovescerà e io sarò libera”.

Al decimo tentativo inizia a sentire una sostanza liquida che le cola fra le dita. Subito ripensa al sudore della lucertola, quello che tante volte le aveva asciugato sulla fronte durante una giornata di lavoro. Ma è più denso, gelatinoso. È il sangue che fuoriesce dai tagli che si aprono all’estremità del polso a forza di sbattere sulla parete di plastica.

A quasi un mese dal suo arrivo nella cassetta tutto il mondo si è dimenticato di lei. Per questo, qualcuno passandole accanto lascia alcuni prodotti appena raccolti dall’orto nella cassetta – pensando fosse vuota. Sono soprattutto fave e piselli, e la mano appena li sfiora capisce che sa cosa poterci fare.

Inizia a sgranarli, come le ha insegnato la lucertola tantissimo tempo fa. Apre il baccello infilandoci dentro il mignolo, tira il filamento sottile che permette alle due metà di separarsi, e con un altro dito scende dall’alto verso il basso all’interno della cavità per staccare tutti gli acini lì dentro e sentirli ticchettare sul fondo della cassetta.

“La lucertola rinascerà sgranando piselli”.

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