Quasi certamente la scrittrice Inés Cagnati «voleva sapere come vivevano quelle persone di cui conosceva solo le pattumiere» come piaceva fare alle sue protagoniste. Un animo in sensoriale e materico rapporto con il mondo, in grado di creare storie di ridondante dolore, sorrette da una prosa lirica in cui ogni frase diviene un mantra. Una perenne preghiera quasi ostentata dalle voci delle sue donne narratrici.

A oggi sono tre le opere di questa autrice edite in traduzione italiana per Adelphi, una raccolta di racconti (I pipistrelli, 2024) e due romanzi: Génie la matta, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1976 e giunto in Italia solo nel 2022; e Giorno di vacanza uscito per l’edizione francese nel 1973 e tradotto in italiano un anno dopo Gènie, nel 2023.

Le protagoniste dei due romanzi di Cagnati, Genie di Genie la matta e Galla di Giorno di vacanza, seppur molto diverse tra loro, appaiono in realtà come personaggi quasi sovrapponibili; come se l’autrice girando attorno a uno stretto nucleo di immagini e riflessioni avesse creato queste due entità che ricalcano vicendevolmente le stesse orme, insistenti nella sofferenza e nelle condizioni di vita avverse.

Sebbene i microcosmi che Cagnati descrive sembrino abitati da figure identiche, questo non impedisce la tridimensionalità delle opere. Dislocando leggermente il punto di vista ma restando fedele allo stesso campo visivo, l’autrice riesce, infatti, a penetrare sempre più a fondo nella psiche e nel contesto delle sue creature. Le sue protagoniste divengono le guide che accompagnano chi le legge attraverso il proprio inferno personale, simili a delle novelle Orfeo non controllano, però, che la loro lettrice Euridice sia lì, che le segua accettandone il ritmo. Procedono con la narrazione, la loro storia fluidamente scorre… Sta a Euridice rimanere svelta, tenere il passo del dolore. 

Galla, protagonista di Un giorno di vacanza, è una figlia che narra di sé e della propria madre, Genie la matta è invece una madre che viene raccontata dalla penna della propria figlia, Marie. Una quaterna di donne che fanno della parola (pronunciata, taciuta, scritta) uno strumento di gestione del proprio mondo. La voce sta a Galla e Marie quanto il silenzio appartiene alle madri. Genie, infatti, se non fosse per la restituzione che ci tramanda la figlia, rimarrebbe un personaggio votato al silenzio, in grado di affacciarsi alla narrazione solo in qualche sparuto ma incisivo momento, lei infatti: «ogni tanto raccontava una storia. Sempre la stessa. […] La sua voce monocorde regolava gli eventi di quella storia mai finita. Quando smetteva di parlare […], a volte mi accarezzava una guancia. […] Altre sere rimaneva in silenzio»; anche la madre di Galla, che appare nel romanzo solamente attraverso le rimembranze contrastati della figlia, viene descritta come una figura silenziosa ma che a volte muta in donna-aedo; e sono proprio quelle storie e quei brevi racconti a costruire il legame con Galla, le sole parole capaci di creare un momento di intimità profondo e sincero tra madre e figlia, attimi in grado di dare senso a una realtà grezza d’amore. La voce della madre di Galla è però una voce ormai assente, non altro che un ricordo sonoro: «Quando tutti sono a letto a dormire, mia madre si alza piano e viene ad aprire la porta. […] E mia madre mi racconta delle cose e mi dice che mi vuole bene».

Le donne di Cagnati che riescono a imporsi come parlanti sono le “generazioni figlie”. Bambine la cui vita non le ha esonerate dalla sofferenza e dalla solitudine ma che conservano ancora intatto un lume di speranza per il proprio futuro. Tutto ciò manca, al contrario, all’adulta Genie. Le figlie sperano, scappano, non si adattano. Le madri soccombono, si annientano e scompaiono. Attraverso la costruzione di personaggi femminili complessi e contraddittori, squisitamente realistici e umani, Cagnati mostra quanto le esperienze di vita, seppur accomunate da un simile dolore di fondo, possano dare esiti diversi. 

Il discorso generazionale diventa, quindi, una chiave di lettura mediante il quale osservare Genie e Galla. Si potrebbe quasi intuire che Galla possa rappresentare una forma bambina, un abbozzo di Genie, quasi come se fosse una sua possibile prosecuzione ideale. Entrambe infatti possiedono quei tratti tanto oscuri quando profondi che le rendono personaggi-streghe: una donna e una bambina deviate rispetto ai percorsi standardizzati. Figure femminili che la giornalista femminista Jude Ellison Sady Doyle definirebbe “trainwreck”, termine estrapolato da suo saggio Spezzate, che indica le donne deragliate da quei binari che la società ha previsto per loro. Femmine di terra, arsura e ghiaccio, limbiche creature rigettate dal mondo: «Ho camminato a lungo. Ho camminato a lungo nel freddo della terra e del cielo. […] Sono diventata un blocco di ghiaccio vacillante alla deriva della neve. Nevicava senza sosta e io camminavo senza sosta. Poi, sul finire della notte, sono arrivata ai margini della palude immobile per il gelo sotto un freddo cielo stellato», Galla è circondata dal ghiaccio come Genie lo è dai campi coltivati: due donne che si completano con gli elementi naturali, intime con i propri luoghi, due creature “mostruose” figlie del limo che le ha generate.

Apolidi 

I personaggi di Cagnati, seppur stanzianti, serbano un animo indomito e viaggiatore. Così come la loro autrice sono donne apolidi. 

La questione dell’appartenenza è centrale nelle storie di Genie e Galla, storie che riescono a descrivere la condizione migrante vissuta da Cagnati stessa. Figlia di genitori italiani giunti in terra francese, la scrittrice nasce nel 1937 a Monclar, un groviglio di poche case situato nel sud-ovest della Francia; vive sin da piccola all’interno di una realtà rurale dedita al lavoro della terra, attività di cui sono pregni i suoi romanzi. Traslate da questo contesto, nei suoi libri sono presenti, infatti, la sensazione del non appartenere mai davvero a nessun mondo, la difficoltà nell’integrazione sociale, lo sfruttamento nel lavoro e una generale difficoltà comunicativa e linguistica che rende assai difficile il contatto con gli abitanti del luogo.

In Genie la matta questa condizione nomade traspare soprattutto dalle parole di Marie, quando fantastica di salvare la madre dalla loro dura realtà, immaginando di fuggire insieme verso isole lontane verdeggianti e rigogliose, piene di grappoli d’uva «in paesi dove le vigne sfiorano il cielo». Creazioni di fantasia che illuminano un poco la giovane speranza di Marie ma che non scalfiscono la coscienza adulta di Genie la quale a queste parole della figlia «lei non rispondeva mai», consapevole che quel luogo maledetto non l’avrebbe mai lasciato. 

In Galla l’autrice traduce il senso di solitudine nell’incapacità del suo personaggio di sentirsi cittadina di alcun luogo. Figlia di famiglia umile, Galla spera che la città e la frequentazione del Liceo possano stravolgere la propria vita in meglio, ma nonostante il cambio di ambientazione, la condizione sofferente di Galla rimane. Quasi come una sorta di peso “plebeo”: «Ho sempre fame. Non importa quanto mangio, ho sempre fame. Credo sia per abitudine. Per quattordici anni sono stata abituata ad avere fame. Ora continuo, anche se non è vero».

Cagnati mostra, attraverso Genie e Galla, due modi possibili di isolamento sociale. Entrambe infatti, per via della condizione di “straniere”, vivono con la società rapporti conflittuali seppur molto diversi. Genie perché adultera, Galla perché proveniente da una condizione povera rispetto a quella cittadina. Il modo di vivere ed esprimere questo dissidio è quasi dicotomico; se infatti da una parte Genie viene esplicitamente allontanata dalla comunità divenendone il capro espiatorio, la vittima sacrificale da sfruttare e su cui far ricadere tutte le infamie; d’altra parte questa tensione è vissuta da Galla per lo più interiormente. Non sono la scuola o le persone di città a ostracizzarla, è lei che sentendosi fuori posto brama e odia allo stesso tempo, vicendevolmente, la città a cui aspira e la palude da cui proviene. Nessun luogo per lei può essere casa.

Lo spaesamento di Galla, il silenzio sofferto di Genie e la speranza in un futuro migliore di Marie raggrumano i diversi sentori che Cagnati, in quanto persona migrante, ha sperimentato nella propria vita; sentimenti che attraverso le voci delle sue donne hanno preso la forma dell’arte narrativa. 

Vite di terra 

Il legame che connette Cagnati alla terra è un rapporto intimo e ancestrale, un rapporto che traspone nei suoi romanzi attraverso una resa dura e schietta. L’ambiente che circonda le protagoniste è il riflesso delle emozioni da loro vissute; la campagna e la foschia pervadono Genie la matta mentre ad avvolgere la vita di Galla sono la palude e l’umidità. Due terre diverse, distanti – in una dominano semina e raccolto, nell’altra l’acqua e i sassi – ma entrambe terre aride e invivibili, terre senza umanità. 

«Io giocavo un po’ con la terra, con le radici di gramigna, con l’erba. […] Certi giorni dal fiume veniva su la foschia, sommergeva i salici tristi, seppelliva il mondo. Non sorgeva mai il sole» afferma Marie descrivendo una sua giornata nei campi mentre Genie lavora. «Avrei potuto comprare la terra buona, una terra senza sassi, dove il giorno e le vigne sarebbero cresciuti fino al cielo. Una terra lontanissima da tutte le paludi» ribatte Galla, desiderosa di una natura rigogliosa e florida a lei negata.

La casa editrice Adephi ha saputo tradurre graficamente, attraverso le proprie copertine, i contenuti dei romanzi di Cagnati. Le immagini scelte per i due romanzi sono infatti la perfetta sintesi dell’allure che si trova tra le pagine di questi scritti. Sugli sfondi pastello, cifra stilistica della casa editrice milanese (crema per la storia arida di Genie e celeste per le avventure acquitrinose di Galla), i dipinti scelti a emblema dei romanzi sincretizzano la natura, tanto fisica quanto psicologica, degli ambienti e dei personaggi dei romanzi: campeggia un Egon Shiele, Albero nel tardo autunno del 1911 per Genie la matta; e un Gustav Klimt, La palude del 1900 per Giorno di vacanza.

Ofielie

Nella settima scena dell’atto quarto dell’Amleto shakespeariano, la Regina di Danimarca annuncia la morte della giovane Ofelia descrivendo il luogo del suo decesso come un posto in cui: «un salice che cresce di traverso sul ruscello […] riflette le sue foglie argentate nella limpida corrente». 

Ma c’è certezza che Ofelia sia davvero annegata o forse la fanciulla pone fine alla sua vita per sua stessa mano? Scelta folle, dunque, o acuto sguardo scrutatore della realtà?

Attorniata da quel salice di virgiliana memoria che connette di secolo in secolo la sofferenza delle donne letterarie, Ofelia appare come un personaggio capace di unire a livello metanarrativo le due bambine di Cagnati. Galla e Marie infatti, nel corso delle proprie esistenze, si ritrovano faccia a faccia con questa entità letteraria e con essa fanno i conti: follia, solitudine, esclusione sociale. Rispecchiamenti d’esistenze.

Il primo incontro tra Galla e il personaggio amletico avviene per caso, durante una lezione a scuola, quando: «stamattina [la professoressa] ha raccontato la storia di una ragazza che si chiamava Ofelia, una storia vecchissima. […] Lei non c’entrava niente, in quelle tristi vicende familiari. Vedendosi abbandonata prova un dolore tale da non poterlo sopportare. Allora impazzisce. Molto semplicemente. […] Povera Ofelia. Io credo che volesse annegare in mezzo ai fiori. Non ne poteva più di tanto soffrire». Cagnati, attraverso le parole di Galla, ci consegna un’Ofelia piena di agency, una donna che dal troppo dolore è desiderosa di morire nell’unico luogo a lei caro: l’acqua limpida, cosparsa di fiori. Galla descrive la morte di Ofelia con semplicità, come la resa di una vita che finisce nella bellezza dopo troppe sofferenze e tanti orrori. Un’immagine simile l’abbiamo anche nel racconto di Marie, che immagina Ofelia «innamorata delle ninfee, che fugge, distesa nell’acqua lattiginosa dei fiumi e dietro di lei resta solo la scia dei suoi capelli d’oro». Una morte-fuga, un decesso che diviene libertà dal dolore.

Le donne di Cagnati sono donne che sognano, donne che aspirano alla leggerezza.

Il desiderio che più di tutti sta alla base delle psicologie delle protagoniste è quello della libertà, quel diritto al movimento che troppo spesso è negato alle donne e a tutte le persone che nel genere femminile si riconoscono. E Genie, Marie e Galla, come simulacri, ci mostrano le diverse declinazioni di questa aspirazione: c’è chi ce la fa, chi tenta, chi soccombe.

Cagnati riesce a mostrare le vite di donne che aggrappandosi, come possono, l’una all’altra, all’interno del proprio mondo narrativo o, intertestualmente, come fanno Marie e Galla con il personaggio di Ofelia, tentano di trovare un proprio posto, e paiano sussurrarsi vicendevolmente, timorose ma con affetto: «Ti porterò in fondo alle grotte dove va a morire il mare, nell’ombra degli aranceti selvatici. Dormiremo con il canto del vento tra le casuarine dei monti»: parole d’amore spinte da una sorellanza che, in certi casi, risulta salvifica.