Qualche giorno fa era domenica. Purtroppo succede spesso, che qualche giorno fa fosse domenica: un’atrocità che si ripete ciclicamente lungo tutto il corso di una vita ordinaria, diciamo lunga settantacinque anni. Qualcuno bravo in matematica potrebbe calcolare tutte le volte in cui sopravviviamo a una domenica durante questo tempo. Il risultato, sono sicuro, sarebbe una vertigine spaventosa: non siamo altro che una massa di sopravvissuti alla domenica.
Ma non voglio parlare dell’ultimo giorno della settimana. Per quello esistono le persone senza niente da dire e le canzoni indie. Peraltro coglierà di sorpresa molti, ma spesso le prime scrivono le seconde; o le seconde sono scritte dalle prime. Vedetela come volete, a seconda di quale siano i vostri gusti in camera da letto in materia di dominazione e sottomissione. Cosa che, vi tranquillizzo subito, non mi interessa scoprire. Così come non mi interessa scrivere della domenica o della torbida relazione tra le persone senza nulla da dire e le canzoni indie.
Qualche giorno fa era domenica e mi trovavo in quel tipico stato d’animo angoscioso, descritto dalle persone senza niente da dire e dalle canzoni indie. Fumavo una sigaretta di cui non avevo veramente voglia sul balcone della casa dei miei genitori. La sigaretta era un passatempo, un riflesso condizionato. Ogni tiro era il tentativo disperato di srotolare le pieghe del tempo, ingarbugliato sotto i miei piedi come un tappeto cencioso.
Ogni tiro era come un calcio al tempo, ingarbugliato sotto i miei piedi come un tappeto cencioso.
Dopo qualche minuto di pigro vagare, il mio sguardo si è posato su un albero che conosco da sempre. I giardinieri lo hanno potato malamente, ma è ancora lui. La mente è andata ai giochi della mia infanzia, che oggi mi piace ricordare spensierata, con quella nostalgia ottusa dell’età adulta che rende così poca giustizia alla tragica profondità dei bambini. Quell’albero era il mio preferito perché diverso dagli altri: stretto in alto e voluminoso alla base, mi ha sempre ricordato le gonne delle dame nei dipinti del Settecento. Non so niente di alberi e non mi sono mai preso la briga di scoprirne il nome.
Lo guardavo, con quell’umore tipico della domenica, delle persone senza nulla da dire e delle canzoni indie. Pensavo che da quando ho lasciato questa casa, luogo ameno ai margini di Roma, circondato da verde e da un giardino condominiale quasi lussureggiante, mi sono spinto con furore dentro la città. Il posto in cui mi trasferirò tra non molto è quello più stereotipicamente “di città” nel quale avrò vissuto. Un piccolo appartamento in una palazzina anni Trenta, nel quadrante Sud-Est, il più densamente abitato della Capitale. Incastonato come una gemma di cemento in un diadema di centinaia di appartamenti come lui. Tutto intorno attività commerciali di ogni tipo, poco distanti locali tra i più frequentati di Roma e una delle strade più trafficate e chiassose della città.
Probabilmente sarà la mia ultima casa, o quella che abiterò per un tempo simile a quello passato nella casa dei miei genitori. Lì intorno, la maggior parte dei giorni non si sente un rumore, eccezion fatta per gli aerei del vicino aeroporto che sussurrano di una fuga possibile. Lì intorno non cambia mai niente, né le persone, né i pochissimi negozi, né il fatto che, semplicemente, non c’è un goccio di vita. Il silenzio è così assordante da schiacciare e togliere il fiato. Devo ancora scoprire cosa vedrò dalla finestra del mio nuovo appartamento, cosa il mio sguardo si abituerà ad accarezzare anno dopo anno. Dubito fortemente che sarà lo sbuffo comico del fogliame di un albero che ricorda la dama in un dipinto del Settecento. Quello che mi inquieta è che non riesco a decidere come questa prospettiva mi faccia sentire.
Come mi accade spesso ho sentito che stavo vivendo un momento significativo, senza riuscire veramente ad afferrarlo tra le dita. Forse si trattava solo della domenica, delle persone senza niente da dire e delle canzoni indie. Invece mi ha colto il pensiero fatale che ci trovassimo (io e il coro greco che mi accompagna ovunque da quando ho coscienza di me stesso) di fronte a un banalissimo momento sliding doors. Sono da poco entrato nell’ultimo anno dei miei Venti, ho comprato una casa. Considerando solamente queste due informazioni potrei apparire come una persona a modo — quasi risolta.
Un pensiero che ha immediatamente scatenato un fiotto di sudore freddo e una forte pressione alle tempie. Il mini attacco di panico si è risolto subito: è bastato ricordare che, fortunatamente, tutto il resto della mia vita ha la forma di un puzzle da milioni di pezzi. Un puzzle che mi è stato rifilato alla nascita, senza la scatola con l’immagine da seguire. Come se non bastasse ogni volta che, attaccando pezzi un po’ a caso, ho visto miracolosamente emergere un’immagine, ho fatto saltare il tavolo, insoddisfatto o terrorizzato dalla prospettiva futura che intuivo appena.
Non si tratta neanche di eterna adolescenza o di blues domenicale, quelle sono cose per persone che non hanno niente da dire e canzoni indie. È acufene esistenziale. Quando l’ho messa in questi termini, la mia psicologa si è esaltata. Mi ha fatto i complimenti per il neologismo, sono sicuro che lo abbia usato con colleghe o addirittura altri pazienti. Poi mi ha allungato la fattura del mese.
C’è questo fischio che insiste, fisico e mentale. In più la sigaretta mi ha fatto venire la nausea, l’albero potato male mi ha depresso, le nuvole di smog sopra al sole primaverile mi hanno tolto il respiro. Se escludiamo queste cose e un generale senso di nichilismo, la convinzione che il mondo sia a pochi secondi da esplodere in mille pezzi, che il mio lavoro (che poi coincide in buona parte con le mie passioni) sia ormai inutile per guadagnarsi da vivere, allora sto da Dio. Everything is fine.
Non ho voglia di ascoltare musica, in questo momento. Forse questa è la cosa che mi disturba di più. Thom Yorke diceva una cosa del genere in un’intervista: sono molto preoccupato quando le persone smettono di ascoltare musica triste. Vuol dire che c’è qualcosa di veramente sbagliato in quello che le circonda. D’altronde come si fa a scegliere la colonna sonora per la fine dei vent’anni? E per la fine del mondo? Come si sceglie con chi ascoltarla? Io non ne ho idea. So solo che il mondo non finirà di domenica, che non sarò con persone che non hanno niente da dire e non ascolteremo canzoni indie.
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