Sul dizionario greco antico-italiano Rocci, al termine “organon” sono riportate una serie di definizioni in base alle occorrenze del termine: strumento, arnese, utensile. Se abbinato ad altri termini opportunamente declinati, organon può designare strumenti medici, nautici, macchine da guerra. Può diventare organon krònou: strumento del tempo, e poi strumento musicale, organo del corpo, opera, particolarità di stile, organo della logica e, infine, tavola di calcolo.
Organon è il termine impiegato dai commentatori dell’opera filosofica di Aristotele per riferirsi ai suoi trattati di logica, considerati strumenti essenziali e propedeutici a qualsiasi tipo di ragionamento.
Sempre i greci, in Occidente, teorizzarono il rapporto fra matematica e musica, con Pitagora che si esprime sulla musica delle sfere celesti. L’Universo in continua espansione come sinfonia perfetta.
L’organo come strumento musicale, suonato in chiesa nelle domeniche uggiose d’infanzia delle persone educate alla fede cattolica. Organo di governo; organo decisionale; organo vitale: encefalo, polmoni, fegato, reni.
Organi costitutivi di vasti apparati apparecchiati a funzioni differenti, tutte coordinate matematicamente, logicamente. Per citarne soltanto alcuni: l’apparato digerente, che ospita l’intestino, il labirinto della nostra digestione e i sistemi in entrata e in uscita dal corpo. Poi il tegumento, la corazza che ricopre le selve soffici del nostro interno, ovvero la pelle. Il volto con cui ci mostriamo ogni giorno al mondo.
Una strofa di una poesia di Wislawa Szymborska intitolata La cipolla (La gioia di scrivere, Adelphi, trad. Pietro Marchesani) recita:
La cipolla, d’accordo:
il più bel ventre del mondo.
A propria lode di aureole
da sé si avvolge in tondo.
In noi – grasso, nervi, vene,
muchi e secrezione.
E a noi resta negata
l’idiozia della perfezione.
È proprio l’imperfezione del corpo interno, paradossalmente così perfetta, a tradire, a renderci esposti, vulnerabili al mondo che noi stessi ci siamo fabbricati, alle macchine che abbiamo costruito, che si espandono di cilindrata e corrono sempre più veloci, come preannunciato nella fantascienza distopica di Fahrenheit 451 di Bradbury. Un mondo sempre più disumano per questa umanità imperfetta, che si muove da punti a a punti b dentro la pancia di grossi uccelli metallici, solca i mari ghiacciati, passeggia dove non c’è gravità, alternando progresso scientifico a picchi di quella che sempre i greci antichi avrebbero definito hybris, la tracotanza del genere umano.
È su questi due temi, curiosità scientifica sfrenata e ossessiva e volontà di superamento dei limiti imposti alla vita umana, che si dipana la parabola di Frankenstein, ideata da Mary Shelley in occasione di una sfida proposta per gioco a lei e a Percy Shelley dall’amico Lord Byron durante una vacanza.
Gli organi abnormi del mostro, che con ironia tragica – quella sempre greca di Edipo che diventa tragicamente artefice del proprio destino nel tentativo di sfuggirgli – si ribella al suo ideatore proprio per mancanza di umanità in quest’ultimo. A questo punto, la riflessione sugli organi trascina con sé una cascata di termini edificanti come umanità, organicità, integrità: qual è il loro referente? Umano è Victor Frankenstein o la “Creatura”?
Il sottotitolo del romanzo di Shelley è, nella traduzione italiana, “o il nuovo Prometeo”. Nel mito greco, Prometeo ruba il fuoco agli dèi per farne dono agli uomini, rendendosi pioniere dell’evoluzione umana, mentre nel caso di Frankenstein il riferimento a Prometeo rivela un’ambiguità e un conflitto irrisolti.
Verso la fine del ‘700, in Europa, specialmente in Inghilterra, si diffonde il romanzo gotico, a partire da testi come Il Castello di Otranto di Walpole, Vathek di Beckford, I misteri di Udolfo di Radcliffe, fino ad arrivare al parodico Northanger Abbey di Austen. Come Bertinetti sottolinea, il romanzo gotico si pone su posizioni anticlassiciste, esaltando “le iperboliche dimensioni delle visioni oniriche…nella vertiginosa abissalità e verticalità”, privilegiando “l’emozione sublime…e il terrore”.
L’indagine dell’oltre-umano, del soprannaturale, del raccapricciante si intreccia nella modernità con riflessioni sulle ibridazioni fra umano e non umano. Anche in Blade Runner l’androide è più ‘umano’ dell’umano. Basti poi pensare a Matrix o a puntate come Beyond the Sea, nella sesta stagione di Black Mirror, dove due astronauti in missione nello spazio si alternano fra lavoro e famiglia utilizzando sulla terra un alter ego meccanico, che gli consente di mantenere il proprio vero corpo nello spazio e che al suo interno ospita circuiti e fluidi artificiali anziché fluidi vitali e organi. Black Mirror in generale è un’epitome del rapporto fra umanità, tecnologia e disumanizzazione.
Tornando agli organi umani, l’organo può tradire o essere tradito, diventare un macchinario da guerra, a spese della nostra sopravvivenza. Negli ultimi anni, in Italia, si è assistito a un proliferare di libri sul tema della malattia, come nel caso di Ada d’Adamo, autrice del romanzo Come d’aria, o come in Tre ciotole di Michela Murgia, che anche nei suoi pronunciamenti pubblici si è sempre espressa in modo anticonvenzionale, rifiutando il lessico bellico per riferirsi al proprio tumore, come testimonia questo stralcio tratto da un’intervista a cura di Aldo Cazzullo:
Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?
«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».Cosa intende per registro bellico?
«Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».[…]
«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».
Il cancro, o neoplasia, è l’espansione incontrollata di cellule che danneggiano i nostri organi, compromettendo il funzionamento degli apparati preposti al nostro funzionamento. L’espansione incontrollata è una tracotanza che sconfina al di fuori di quel funzionamento logico-matematico di cui si parlava sopra.
È da questo presupposto che si sviluppa il racconto di Giovanni Padua, dove il tumore viene definito “eresia anatomica” e dove la distopia allucinatoria si fonde con il body horror, in un paradossale vortice che spiazza di continuo i riferimenti narrativi di chi legge, in un viaggio delirante. Il corpo di Dio, su cui il personaggio affetto dalla malattia crede di aver eseguito un’operazione, è dotato di un unico organo, essendo lui stesso organo, e poi il guazzabuglio di organi finali, una scaturigine forse anche di pensieri accelerati e (im)possibilità vitali.
Sempre a partire dalla riflessione sul corpo la proposta di Fabio Ciancone riflette sul recente saggio di Walter Siti C’era una volta il corpo (Feltrinelli, 2024), che esplora l’ossessione odierna per il corpo, culminante nell’incrocio fra corpi umani e non umani nel mondo iper-tecnologizzato, calando un velo, come sottolinea Ciancone, sul corpo come oggetto desiderante e desiderato cui Siti ha dedicato il fulcro della sua riflessione letteraria.
Vittoria Brachi si concentra invece sugli effetti provocati dalla mancanza sul cervello, argomento attualmente dibattuto anche in ambito psicologico, dove la mancanza si associa a varie tipologie di mourning, ovvero i processi che interessano l’elaborazione del lutto. Brachi riflette sul tema soffermandosi su testi come L’anno del pensiero magico, di Joan Didion (Il Saggiatore, 2021).
Federica Ranocchia, a partire dal testo di J. E. S. Doyle, Il mostruoso femminile (Tlon, 2021), approfondisce l’ossessione attuale verso gli organi genitali, affrontando le questioni legate al controllo del corpo femminile in rapporto alla sua rappresentazione: questa riflessione comprende una vasta gamma di tematiche, includendo in particolare il timore suscitato dall’immaginario legato al corpo trans, che proprio in virtù del suo sfuggire a categorie prestabilite dal discorso sociale genera un potenziale di sovversione politica contro cui si scagliano politiche discriminatorie e svilenti. Ranocchia riflette sul tema dell’identità di genere in relazione alla presenza o assenza di determinati organi di genere, in particolare il pene, soffermandosi sulla graphic novel Trilogia esplicita (Feltrinelli, 2023) di Fumettibrutti.
Infine, Franco Cimei propone una riflessione sulla produzione cinematografica di Cronenberg a partire dal libro Una storia di violenza (Wudz Edizioni, 2024) a cura di David Schwartz, che raccoglie quindici interviste rilasciate da David Cronenberg dal 1983 al 2015. Cimei riflette sulla rappresentazione degli organi nel cinema di Cronenberg, registrando l’influenza dell’immaginario letterario di Burroughs e Ballard sull’opera del regista, in un discorso che tocca sempre il rapporto fra tecnologia e progresso umano, con i suoi polifonici risvolti.
Con questo numero Stanca propone una riflessione su umano e disumano; ibridazione tecnologica e sofferenza; delirio, limiti corporei e mentali dell’umano, nel tentativo di proporre un dibattito trasversale e quanto più possibile organico rispetto a temi attuali, per “comporre e scomporre la complessità” del nostro mondo interno.