Segui la mia battaglia

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Negli ultimi anni ho avvertito una forte sensazione di impotenza, tanto che alla notizia dell’uscita della raccolta di saggi Sta arrivando la fine del mondo?, pubblicata da UTET a maggio, per prima cosa ho pensato: “quindi sta arrivando davvero”. Lo storico Francesco Benigno nel suo ultimo libro La storia ai tempi dell’oggi (Il Mulino, 2024) descrive questo periodo storico come quello nel quale si palesano le fondamenta contraddittorie che per mezzo secolo hanno sorprendentemente sorretto un’imbellita impalcatura di motti progressisti: alla base della narrazione di un mondo che si presentava, sul finire del Novecento, come pronto e galoppante verso un futuro prospero alla portata di tutti, erano piantati e già ben radicati i semi delle crisi di oggi. Il disvelamento di questa struttura precaria negli ultimi anni ha subito un’accelerazione importante, dall’economia alle migrazioni, dalla salute ai conflitti su larga scala, lo “Stato di crisi” prende chiara forma invocato dalle parole di Bauman e s’impone infestando tutti gli aspetti conosciuti delle nostre società civili. Non è biasimabile quindi la perpetua incertezza, paura e insofferenza che si riscontra in ogni nuovo rapporto Istat quando il quesito è il futuro, o qualche sua declinazione specifica come la ricerca di lavoro, le migrazioni o la stabilità economica, o ancora quando l’enigma riguarda la fiducia nei confronti di chi ricopre la mansione per eccellenza delegata a occuparsene, ovvero la politica.

Se il mondo come abbiamo imparato a conoscerlo sembra sgretolarsi e immaginare modi per abitare un futuro imprevedibile diventa un inutile esercizio di fantasia, nel frattempo, in questo chiaroscuro tra oggi e domani, parafrasando Antonio Gramsci, il nascituro mostruoso è una caotica e affannata società civile senza corpi che si manifesta a suon di visual. Sui social media assistiamo sempre più spesso a interessanti dimostrazioni di politica, attivismo e protesta di nuova natura: ibridazioni confuse tra mezzi tradizionali e strumenti digitali. A partire dall’hashtag del MeToo nel 2017, alle piazze riempite dagli appelli di Greta Thumberg per i Fridays For Future tra il 2018 e il 2019, ai quadrati neri di Black Lives Matter del 2020 fino all’immagine generata con IA All Eyes of Rafah ricondivisibile tramite la funzione “ora tocca a te” di Instagram, le forme di impegno politico si sono fuse con le logiche e le dinamiche delle piattaforme.

In questo scenario emergono figure mediatiche chiave che, attraverso la loro presenza sui social media, riescono a trasformare la partecipazione politica in una questione personalizzata e frammentata, capace tuttavia di richiamare in piazza anche chi abitualmente ne è lontano. Questo intreccio tra strumenti del passato, come le manifestazioni di piazza, e quelli del presente, come l’attivismo mediato dalle piattaforme digitali, riflette una trasformazione profonda della società. Come sottolineato da sociologi come Daniel Bell, in The Coming of Post-Industrial Society (1973) e William Kornhauser in The Politics of Mass Society (1959), le “masse” tradizionali, un tempo unificate da narrazioni centralizzate, si sono frammentate in una società di rete, in cui piccoli gruppi e individui sono mobilitati attraverso connessioni personalizzate e micro-narrative. La manifestazione del 5 ottobre è un esempio di questa dinamica: un’ibridazione tra l’eredità delle proteste collettive di ieri e la dimensione individualistica dell’attivismo digitale di oggi.

Alla vigilia della manifestazione annunciata per il 5 ottobre a Roma, organizzata da UDAP e GPI, l’aria che si respirava sui social media era tutt’altro che rassicurante e preannunciava chiaramente un uso strumentale degli avvenimenti che ne sarebbero seguiti. Il primo ottobre Repubblica titola La galassia pro Hamas contro il divieto del Viminale – sostituendo poi “Hamas” con “Palestina” (nel link appare ancora con la dicitura originale) -, viene indetto sciopero dei mezzi di trasporto e sono previsti controlli a tappeto per garantire la sicurezza. Una manifestazione contro il conflitto in corso in Medio Oriente e la contestazione del sostegno militare del nostro paese si configura attraverso la narrazione di media e governo come un pericoloso raduno di sovversivi che inneggiano al terrorismo. Nonostante le difficoltà e la pressione mediatica, riusciranno a raggiungere il punto di concentramento più di 10 mila persone. La partecipazione massiccia mobilita le forze dell’ordine già pronte ad agire, un dispiego di corporazioni e mezzi come non se ne vedevano da tempo in pieno centro urbano per un presidio. Poche rappresentanze politiche in piazza oltre ai componenti dei movimenti promotori, solo Potere al Popolo e PRC, tutti gli altri sono piccoli collettivi e la maggioranza è formata da cittadini indipendenti che avevano aderito alla mobilitazione tramite i social. Verso le 17:30, dopo tre ore di contrattazione circa la possibilità di far confluire la folla in corteo, gli animi si agitano, si sente qualche bomba carta scoppiare e la celere reagisce subito con una prima carica sui manifestanti in prima linea, dopo meno di un quarto d’ora dal cordone delle forze dell’ordine iniziano a partire decine di fumogeni, cariche e idranti, la folla viene respinta senza possibilità di disperdersi dato che tutte le vie di uscita vengono barricate da camionette e scudi. Come topi in trappola, i manifestanti sono costretti a girare in tondo per altre due ore, accerchiati dai celerini, alcuni di loro raccoglieranno bottiglie da terra e le tireranno verso le forze dell’ordine. 

All’indomani del 5 ottobre, sui social si diffondevano contenuti di varia natura, ovunque circolavano brevissimi video degli scontri, interviste risicate tutte attorno alla stessa domanda: “Ma lei condanna Hamas?”. Poco – oltre gli invisibili comunicati ufficiali dei movimenti promotori – riusciva a sintetizzare i motivi della contestazione che aveva portato tutte quelle persone a radunarsi sotto la Piramide di Piazzale Ostiense. Ancora meno contenuti sui social media si dedicavano ad analizzare le motivazioni degli scontri, quasi ogni narrazione semplificava la natura multiforme della piazza, diventando una testimonianza personale di un evento mosso da istanze comuni.

Questi discorsi hanno sotterrato le riflessioni collettive, perché più funzionali alla struttura social media, riducendo le identità plurali che sempre hanno contraddistinto le piazze a omogenee masse di haters e followers – più o meno inclini alla lotta armata. La sera stessa è online con il suo videoreportage da mezzo milione di visualizzazioni Simone Cicalone che, già dal titolo Guerriglia a Roma e Cicalone contestato alla Manifestazione, si fa capitano emblematico di un approccio volto alla spettacolarizzazione della violenza e personalizzazione del contenuto politico.

“Alcune persone hanno perso il focus della manifestazione per prendersela con me, con Cicalone.[…] Voi dovete ringraziare i media quando ci sono perché sono un amplificatore […] senza di loro non avrebbe lo stesso riscontro mediatico. Se poi secondo voi viene distorta l’idea, questo dipende molto da quello che si fa: se in una manifestazione ci sono degli scontri, non si parlerà più della manifestazione ma degli scontri. Questo è un consiglio mio personale, se tu riesci a portare avanti la tua idea in maniera pacifica si parlerà della manifestazione. Altrimenti uscirà “Cicalone è stato contestato”, “scontri”, “gravi scontri”. Se fate una manifestazione focalizzatevi su quella, non vi create nemici virtuali che non ci sono […] L’unica telecamera che ha dato fastidio è stata la mia.”

Cosa ci racconta la sua testimonianza? Poco e niente sulla manifestazione, molto su di lui sulla funzionale immediatezza visiva dei suoi montaggi e sul loro impatto emotivo. Ancora una volta, come era successo con i video sui borseggiatori della metropolitana, Cicalone dichiara di voler “solo documentare” nella maniera più oggettiva possibile illudendo lo spettatore che “possa farsi un’idea di quello che è successo da solo” in base a quello che vede, come se non fosse mediato. Questa rappresentazione riduce la complessità del movimento a un’immagine di violenza, semplificandone la percezione per il pubblico al fine di ottenere un consenso più ampio e funziona benissimo sui social media. Le storie non devono essere troppo complesse perché non puoi rischiare di perdere l’attenzione, la risorsa più importante di tutte. Le piattaforme premiano tramite i loro algoritmi una, almeno apparente, reazione emotiva autentica, come lo sbigottimento nei confronti di un attacco personale, meglio se legata a espedienti narrativi efficaci, per esempio l’associazione del contestatore che non riesce a tenere saldo il focus delle sue battaglie a un gruppo provocatore di “guerriglia urbana”. Questi due elementi permettono un’immedesimazione immediata e un’elaborazione emotiva lineare che porta gli spettatori a schierarsi e a interagire con il contenuto: la viralità è così servita.

Non sorprende però come funzioni perfettamente anche all’interno del movimento stesso imputare come infiltrati i possessori delle cinque/sei bombe carta che sono esplose, o etichettarli pubblicamente attraverso i propri canali come compagni irresponsabili. Allo stesso tempo, anche per difendere l’integrità del movimento si ricorre all’esclusione del contestatore accusandolo di fronte a decine di migliaia di follower, condannandolo alla gogna pubblica perché “traditore della lotta”.

Così scriveva nelle sue storie Valeria Fonte, attivista e scrittrice con oltre 70mila follower su Instagram, il giorno dopo la manifestazione riferendosi a colleghi di lotta e di piattaforma:

“Grazie per caricarci di senso di colpa, amici antifa. Grazie per darci la colpa della nostra condizione di sottomissione e silenzio e abuso. Siete pazzeschi! La piazza non è e non può essere, sotto un regime autoritario, la sfilata per fare le foto a cui siete abituat*. Non stavamo chiedendo il diritto di mangiare la pizza con l’ananas. Stavamo chiedendo la fine di un genocidio. Scusateci se abbiamo esagerato, dopo ottant’anni di sottomissione palestinese. Scommetto che il 7 ottobre scorso per voi è stato un errore.”

Ridurre pubblicamente in un raptus emotivo la complessità della situazione a moralismi riguardo la legittimità degli scontri, celebrando la propria posizione più radicale, spaventata o moderata come il giusto posizionamento da continuare a seguire, impedisce di canalizzare la rabbia e la frustrazione scaturite dall’ingiustizia all’esterno e la riversa nel movimento stesso. La caratteristica fondamentale di questi contenuti è la reazione immediata, la mancanza dei tempi lunghi propri della riflessione politica collettiva: tutto si basa su personali rielaborazioni più o meno calde, sempre intrinsecamente legate a reazioni emotive, perché i social media sono un luogo che invita a sfogarsi, difendere e attaccare.

Il dibattito pubblico e la politica stessa sono sempre più legati alla logica della celebrità e la pandemia da Coronavirus ha dato una forte spinta a questo processo, perché nella dimensione sospesa del lockdown tutti hanno atteso il racconto quotidiano dei loro profili preferiti. I nuovi spazi digitali aperti dai social media stabiliscono nuove dinamiche attraverso le quali si sviluppano e diramano le narrazioni del presente, anche quelle di natura sociale. In questo contesto, il funzionamento delle piattaforme detta criteri ben precisi per rendere facile la diffusione di un contenuto: deve catturare l’attenzione attraverso format familiari, deve prediligere stili di comunicazione accattivanti, i discorsi premiati sono quelli divisivi e polarizzanti e volti riconoscibili, possibilmente di bell’aspetto. Tutto, anche il discorso politico sui social si riduce al gossip: l’istanza o la rivendicazione pubblica acquista una connotazione individuale, una personalizzazione radicale che impedisce il più delle volte di comprendere la natura collettiva della problematica e di accettarne le sfumature.

Se quello di Cicalone è probabilmente una ricerca intenzionale e lineare delle situazioni e dei contesti che punta allo sfruttamento del contenuto virale facile, quello degli attivisti online è un fenomeno più complesso e sfumato. Non c’è una vera e propria alternativa al personalismo se si vuole raggiungere un ampio pubblico online parlando di temi sociali. È in questo scenario che si posiziona perfettamente la definizione di influ-activism, il fenomeno caratterizzato dalla convergenza tra attivismo e influencer culture che si è diffuso sui social media. Le dinamiche delle piattaforme influenzano a loro volta il potenziale dell’attivismo digitale, a causa delle logiche neoliberali alla base delle piattaforme stesse.

Quello che il rapporto tra influ-attivista/content creator e utente non permette mai è uno spazio di dubbio, frapporre tra l’espressione individuale e la realtà una distanza interpretativa che permetta di collocare quell’elemento polemico, quella sfumatura morale in una specifica circostanza, quella di un personaggio performante. I profili che celebriamo o contro cui ci accaniamo non sono autentici, è la versione che hanno scelto di mostrare ed è impossibile trarne una visione realistica nella loro totalità né della loro integrità politica. Questo spazio è irrealizzabile sui social perché il messaggio che arriva non lascia spazio di riflessione ma esige una reazione immediata, una rielaborazione solo emotiva.

Si può evitare di denaturalizzare l’informazione e il dibattito politico quando lo si priva del contesto obbligandolo a indossare le vesti – tramite la forma e l’obiettivo – di una fonte d’intrattenimento? Su internet le battaglie politiche perdono continuamente il senso di collettività, finendo per ridursi a una stregua ricerca dell’apprezzamento; i finali non esistono più, sovrastati dalle infinite narrazioni alternative correlate. Le lotte online si caratterizzano di caoticità e si trasformano in gare di perfezionismi morali, minando alla base la partecipazione attiva che in questo processo è costantemente intimorita dalla minacciosa possibilità del richiamo dalla cattedra di chi è più apprezzato, più aggiornato o semplicemente più seguito.

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