Erotica dei sentimenti è un libro di Maura Gancitano uscito per Tlon nel 2024. Già dal sottotitolo invoca “una nuova educazione sentimentale” e il suo obiettivo è quello di collocarsi all’interno del dibattito culturale in una posizione di mezzo tra due estremi, creando un punto di dialogo. Si tratta infatti di un testo divulgativo che vuole riaprire il dibattito e fare maieutica tra alcune posizioni contrapposte, anche moderatamente conservatrici; tutto questo chiamando in causa le neuroscienze, i classici, best seller BDSM, gli incel, la non monogamia e la politica.
Nella sua dichiarazione d’intenti il testo non cerca risposte definitive, né prova a indagare una logica di fondo. Quello che fa è proporre una sua erotica dei sentimenti, ovvero un sistema che non è fatto di regole o modelli, ma di trasmissione del desiderio verso la scoperta di sé e del mondo, scartando così l’idea di una pedagogia sentimentale normativa.
Attraverso un’erotica dei sentimenti il governo delle proprie emozioni può scaturire dalle emozioni stesse, dalla loro capacità di direzionarsi e guidarsi l’un l’altra. È un governo che emancipa l’emotività, evitando l’indottrinamento, la censura o un’eccitazione della trasgressione violenta. Mette in moto un percorso di fioritura emotiva che è unico e differente per tutte le persone: il desiderio, come ogni amore e ogni morte, insegna ma non si impara.
Per Gancitano un’erotica dei sentimenti non normativa è necessaria per allontanare il rischio di non desiderare più, di non sentirci più coinvolti in niente, sensazione tipica nell’era del tardo capitalismo. L’autrice cita in proposito Eros e civiltà (1955) del marxista freudiano Herbert Marcuse, secondo cui una de-erotizzazione capitalista ha allontanato il desiderio dalla creatività, rendendolo servo della produzione. Lo ha spinto alla conformità imprigionandolo in ruoli dati e autodistruttivi, come il padre lavoratore o la madre casalinga.
Ma oggi i giovani hanno perso fiducia anche in questi ruoli e nelle narrazioni che ruotano intorno: la famiglia, l’amore romantico e così via. I classici del romanzo, del teatro e del cinema sono percepiti come poco attraenti, noiosi, inutili se non dannosi per la ricerca della felicità. Questo perché sono stati creati per erotizzare – per rendere attraenti e desiderabili – modelli di comportamento ormai percepiti come sbagliati.
Gancitano accenna a come spesso nell’educazione vengano promossi modelli di relazione eteronormativi e non paritari, questo avviene sin dalle fiabe e film per bambini, fino alle antologie scolastiche.
Ma si concentra soprattutto su come i classici del romanzo, del cinema e del teatro per adulti di solito mettono in scena le contraddizioni morali di un’epoca, rappresentandole al centro di conflitti eroici e drammatici idealizzati. Fa emergere il problema che queste tradizioni artistiche non sono state capaci di guardarsi dall’esterno per fornire un modello di comportamento realmente alternativo al contesto che le ha generate.
Con il lavoro dell’erotica dei sentimenti ci si può ancora eccitare di un desiderio capace di farci riscoprire l’attualità dei classici. Si può far tornare la voglia di leggerli, guardarli, metterli in scena, proprio in relazione a quelle che sono le sfide di oggi: per l’autrice, prima tra tutte è la violenza maschile sulle donne.
Gancitano si chiede: come la si può contrastare con un’educazione sentimentale? Come coinvolgere chi non pensa che la violenza sia dovuta alla cultura patriarcale, che la giustifica, normalizza e naturalizza? Come creare un cambiamento culturale? Esistono modelli davvero efficaci per farlo?
L’autrice non dà sistematicamente delle risposte univoche, ma analizza queste problematiche. Prima di tutto, Gancitano paragona questo ipotetico cambiamento culturale a quello che ha portato all’affermazione del modello dei diritti umani non negoziabili. Per l’autrice questi modelli sono profondamente collegati alla credenza che la violenza fisica sia sempre sbagliata.
Questi principi della cultura moderna dei diritti, uno politico di “non negoziabilità” e uno etico di “non violenza”, sarebbero stati creati dai loro contrari: dalla riflessione critica fiorita con l’Illuminismo e dalla violenza rivoluzionaria sette-ottocentesca. È una vecchia questione filosofica, affrontata, successivamente, in ambito marxista per esempio da Walter Benjamin nel suo saggio Per una critica della violenza (1920). Per il filosofo tedesco il diritto della democrazia liberale degli Stati moderni è fondato sulla violenza rivoluzionaria e la lotta di classe. Questo è un fatto di cui noi post-moderni tendiamo a dimenticarci, a rimuoverlo e a perderne il senso – nella lettura data da Fredric Jameson in Dossier Benjamin. Questa dimenticanza ci spinge a desiderare di ritornarvi, con una sorta di nostalgia per la rivoluzione: passata, poi proibita, ma necessaria per il nostro senso dell’ordine e della giustizia.
Gancitano non trae conclusioni radicali da questo paragone tra lotta alla violenza maschile e istituzione dei diritti umani, sintetizzando la questione al solo bisogno di cultura, soprattutto classica, come azione di contrasto. Un’altro fatto interessante è che sceglie di non proporre particolari riflessioni sulla produzione culturale femminista.
Ignora, inoltre, anche il secondo punto del paragone con la nascita dei diritti umani: ovvero che per affrontare la violenza maschile potrebbe esserci il bisogno di una rivoluzione, di un’azione collettiva di trasformazione radicale del sistema sociale e di potere maschile. Potrebbe essere il nostro desiderio di un fondamento rivoluzionario dell’ordine sociale a creare nuove istituzioni e leggi che superino i limiti patriarcali di quello stesso ordine.
Non affronta l’argomento nell’ottica di una trasformazione radicale, farlo avrebbe probabilmente significato trattare il tema di un’educazione sentimentale e sessuo-affettiva nelle scuole pubbliche. Pratica che potrebbe essere definita rivoluzionaria in senso trans-femminista. In Erotica dei sentimenti non si approfondiscono questi temi, Gancitano non pensa sia questo il punto, il suo discorso verte piuttosto sulla coltivazione della libertà di governare i propri sentimenti.
La posizione di Gancitano può essere chiarita e compresa meglio rivedendo alcune dichiarazioni rilasciate da lei stessa. In un’intervista per Vanity Fair, l’autrice spiega di avere avuto una formazione di teoria politica liberale, che per questo cerca costantemente il dialogo e che non capisce lo scontro tra teorie contrapposte. Sostiene che condurrebbe sempre ad abbracciare un medesimo “pensiero unico”. Il suo approccio è di stare nel mezzo, lontana dagli estremi. Anche per questo motivo si occupa di odio in rete: tenendo conferenze sul tema e con alla sua presenza sul web, trattando temi polarizzanti, vuole creare un dialogo tra posizioni diverse.
Tuttavia, quasi come un lapsus di quello che per Benjamin è un desiderio latente, Gancitano usa il concetto di rivoluzione, sia positivamente che negativamente. Nel farlo dimostra che si può parlare di rivoluzione anche senza avere una posizione dualista, senza generare dilemmi irrisolvibili e senza voler fomentare spaccature sociali improduttive.
Per esempio, in senso critico sul termine, cita Fare la rivoluzione ai tempi di Pornhub (2021) di Natasha Lennard. In questo saggio Lennard sostiene che “l’abbondanza di contenuti trasgressivi è male interpretata come rivoluzionaria”. Gancitano riprende questo spunto e lo argomenta ulteriormente, secondo l’autrice le pratiche del porno radicale “non sono intrinsecamente liberatrici”, e il porno queer e inclusivo è stato commercializzato in una maniera che lo ha reso oppressivo: “i corpi non conformi sono definiti secondo tropi razzisti, sessisti, transfobici, ageisti e abilisti”.
Oppure, Gancitano sostiene che la protagonista della tragedia greca Antigone non avrebbe nulla di rivoluzionario, sarebbe stata “travisata e idealizzata” dalle interpretazioni romantiche. Queste interpretazioni ne hanno fatto un modello di altruismo e coraggio, che risponde solo a ideali assoluti, poi evolutisi in una visione femminista. L’autrice propone una visione diversa: Antigone non contestava l’autorità, né faceva disobbedienza civile. L’eroina affermava una sua posizione aristocratica per la superiorità del sangue della sua famiglia, la legge valeva per tutte le persone e andava rispettata, ma non da lei e suo fratello. La loro sarebbe stata “una questione privata, non politica”.
Gancitano racconta nel testo come anche sua figlia, Maddalena, metta già alla sua età in discussione l’interpretazione di personaggi considerati modelli “rivoluzionari”. Per Maddalena i ribelli di Farenheit 451 avrebbero dovuto fare la rivoluzione e rovesciare il regime. La ragazza, attraverso il racconto della madre, attacca anche il Giovane Holden di J. D. Salinger: «Ma perché non dice mai di essere bisessuale?». Questi esempi sono usati da Gancitano per evidenziare come questi modelli, perfino agli occhi di un’adolescente risultino incompleti, non abbastanza rivoluzionari, superati.
Ci sono invece storie che per Gancitano possiedono quel potenziale trasformativo. L’autrice definisce “rivoluzionaria” – per l’epoca medioevale – la storia di Lancillotto e Ginevra, una storia inventata da Maria di Francia per educare la società all’idea che le donne dovessero avere il diritto di scegliere chi amare. Anche se Gancitano non accetta pacificamente il modello dell’amore romantico ed eteronormativo, sostiene che, selezionando i passaggi da far leggere ai giovani a scuola, si potrebbe migliorare il potenziale di queste storie riattualizzandolo. Dunque, afferma: “L’educazione sentimentale non è chissà quale rivoluzione. È sufficiente essere onesti”.
Questa idea torna nella sua lettura di Una rivoluzione degli affetti di Brigitte Vasallo, uno dei più noti testi di critica ai fondamenti ideologici della monogamia, sia socio-economici che sessisti. In Erotica dei sentimenti Gancitano sostiene che, di fronte al bivio tra monogamia e non monogamia, si deve poter “decidere in totale libertà come governare il sentimento, senza dover scegliere esclusivamente tra due alternative”.
Un’apprezzabile formula non dicotomica, che però non sembra cogliere la critica marxista di Vassallo: la scelta monogama non è una vera scelta, quanto piuttosto un prodotto di pressioni sociali, culturali ed economiche. La prospettiva di tendenza liberale di Gancitano forse le impedisce di riconoscere nella non monogamia un processo rivoluzionario, di trasformazione radicale della nostra cultura.
Persino il romanzo best seller Cinquanta sfumature di grigio (2011) viene descritto da Gancitano in maniera pacificante. Lo racconta come una fantasia culturale che “metterebbe in scena molte aporie presenti nelle relazioni sessuali tra uomini e donne” e definisce la fantasia sadomasochistica come “sia una soluzione simbolica per rappresentarle, sia una tecnica pratica per superarle”. Secondo l’autrice, il sadomasochismo permetterebbe di essere “sia indipendenti che sottomesse”, se lo si desidera, creando così una situazione di parità attraverso il controllo consensuale – concetto alla base del BDSM. Ancora una volta, per Gancitano si tratta di un fatto di scelta piuttosto che di una rivoluzione del sistema.
Questa lettura è in netto contrasto con quella satirica del Marchese de Sade, secondo cui il desiderio sadomasochistico sarebbe dovuto al bisogno di esplicitare anche nel sesso un cambiamento di potere che avviene nella società. De Sade lo immaginava durante la rivoluzione francese ne Le 120 giornate di Sodoma (1785). E’ interessante vedere come questa lettura del sadomasochismo sia stata rielaborata anche dalla cultura cinematografica più recente. Pasolini ha reso l’idea raccontando il passaggio dal fascismo a una società liberale e dei consumi in Salò (1975) e Teorema (1968). Mentre il regista Yorgos Lanthimos l’ha applicata alla tragicomica vicenda di ascesa sociale di alcune donne in un contesto illuminista, attraverso la cultura in Povere creature! (2024) e la politica in La favorita (2018).
Con il riferimento a Marcuse, però, anche Gancitano stabilisce una connessione tra il problema dell’incapacità di reagire alla violenza maschile e le disuguaglianze nel sistema socio-economico. Nel testo questo viene espresso con la sua interpretazione del fenomeno degli incel, una subcultura di maschi “celibi involontari”, conservatori e anti-femministi, che colpevolizzano le donne di approfittarsi del “mercato” della sessualità per acquisire più potere.
L’autrice distingue la loro violenza dal tipico femminicidio motivato principalmente dal patriarcato. L’odio misogino degli incel sarebbe legato anche “alla struttura socio-economica della società”. Questo perché, quando tutto diventa merito e capitale sociale, anche “la capacità di farsi amare diventa simbolo del nostro valore sociale e senza amore non valiamo niente; se non abbiamo nessuno che ci ama significa che siamo superflui e invisibili”. E quando non riceviamo l’amore che la società ci promette di avere, ciò causa un odio contro chi ce lo nega, o pensiamo lo faccia: nel caso degli incel, le donne.
Gancitano propone come soluzione a questo tipo di odio e violenza quella di “insegnare a guardare l’architettura sociale”. Un passaggio fondamentale, che la vede concordare con Vasallo. Infatti, l’autrice de Una rivoluzione degli affetti scrive: “nel supermercato di emozioni contemporaneo, all’interno dell’abbondanza relazionale, tutti gli amori possono essere sostituiti. Ma che succede quando quell’abbondanza non esiste? […] Le persone con maggior successo sociale si legano a persone con maggior successo sociale. […] Possiamo cambiare le forme, invertire le tinte bionde con le creste e i tacchi con le borchie, ma alla fine c’è sempre un modello che prevale in ogni spazio”. Finché la non monogamia non distruggerà “lo schema piramidale di accesso a quei corpi che il mercato rende più desiderabili”, l’accumulazione di “capitale erotico sarà la rivoluzione scadente di poche a scapito dell’abbandono delle tante abbandonate di sempre”.
Alla luce di ciò, possiamo ancora credere di poter usare modelli di vita rivoluzionari per un’educazione sentimentale? In particolare, una che sappia affrontare la violenza maschile? Seguendo Gancitano verrebbe da rispondere di no, che non serve una rivoluzione per sistemare le cose.
Anche discostandosi dal suo pensiero, qui non si vuole proporre la strada di un facile femminismo maschile.Al contrario, partendo dall’idea che gli uomini potrebbero anche odiare in massa il patriarcato, prendendone radicalmente le distanze, e tuttavia non basterebbe. Questo perché nessuno propriamente “possiede” un privilegio, ma esiste un sistema culturale di privilegi che vengono riprodotti e attribuiti alle persone anche quando pensano di essersi libere da queste dinamiche. Associarsi al privilegio maschile è desiderabile per tutti e tutte, e la propria personalità e il proprio corpo sono modellate intorno a questo fatto, anche inconsapevolmente. Non si può raggiungere lo status di “maschio decostruito”. Solo la redistribuzione dei privilegi li elimina, o meglio, li trasforma in condizioni di possibilità, di libertà e desiderio.
Una proposta provocatoria, nel solco di un’erotica dei sentimenti, potrebbe essere quella che preveda un’educazione sentimentale capace di rivoluzionare il mito della forza virile, oltre il concetto di decostruzione. Questo mito è stato nella storia umana un fondamento motivazionale imprescindibile per ogni rivoluzione, guerra e violenza a trazione maschile. Trasformarlo è l’unico modo di riproporre modelli rivoluzionari per un’educazione sentimentale.
Un’immagine su come combatterlo si trova in Un altro genere di forza (2019) di Alessandra Chiricosta. Secondo l’autrice occorre agire una forza belligerante contro il mito della forza virile: attaccarlo e renderlo inefficace, in tutte le sue forme e posizionamenti. Tale mito di supremazia della forza muscolare maschile si lega a una doppia idealizzazione culturale: da un lato, dell’idea di efficacia come sopraffazione; dall’altro, dei destini maschili di violenza, naturali o storici che siano. Sostiene che la pratica politica e la vita femminista debbano essere attraversate da “un altro genere di forza”, diversa da quella che chiama “forza-violenza” virile, e rivolta proprio contro di essa.
E’ interessante anzitutto notare la somiglianza di queste espressioni di Chiricosta a una di Benjamin che, in Per una critica della violenza, sostiene che le masse di scioperanti abbiano, rispetto allo Stato, “un’altro genere di Gewalt” – un termine tedesco che significa sia forza che violenza. La ricerca di un’altro genere di forza-violenza è una tendenza che Federico Tomasello, nel suo La violenza. Saggio sulle frontiere del politico (2015) attribuisce anche a Marx e a tutta la tradizione marxista. Per il pensatore tedesco, l’unica forza-violenza capace di attuare la transizione rivoluzionaria dal capitalismo al socialismo sarà necessariamente una forza di un nuovo genere o natura, rispetto a quella del sistema contro cui si scaglia e di cui prende il controllo: del capitalismo industriale e dello Stato – cui oggi aggiungiamo il patriarcato.
Con una metafora ostetrica, coniugata al femminile, Marx sosteneva che la forza-violenza sarà “levatrice”, farà “nascere” il soggetto della rivoluzione, il proletariato, e quindi una nuova società. È ciò che il marxismo chiamerà la forza “civilizzatrice” della violenza rivoluzionaria: una brutalità capace di creare una transizione dalla barbarie al socialismo.
Oggi saremmo più propensi a chiamare quel soggetto “marea femminista”, termine usato da Chiricosta, e che si lega alla sua idea di forza femminista come forza acquea, agita contro la forza-violenza virile di supremazia muscolare. Una forza contro un’altra forza.
La forza combattente è infatti anche emozionale, logica, percettiva, ma il patriarcato l’ha oggettificata e separata dalla forza intellettuale e dalla capacità creativa e artistica. Una divisione avvenuta anzitutto attraverso la cultura militarista sin dall’antichità; e poi con la moderna scienza meccanicista, divenuta capillare ovunque, fino alla dimostrazione sportiva contemporanea.
Chiricosta affronta così il tema della guerra, attraverso: la filosofia di Simone Weil e Angela Putino; alcune forme di arti marziali e di medicina tradizionali orientali; la storia delle rivoluzionarie vietnamite. Seguendo anche la pensatrice marxista Silvia Federici, l’autrice si discosta sia dal mito del femminismo violento, che ricalca l’idea virile di primato della forza; sia dal mito diffuso da Marx ed Engels di un “matriarcato pacifico” cui ritornare, che riafferma la naturalizzazione del primato della forza virile.
L’obiettivo è quello di muovere una “guerra alla guerra”, che ha una “ben altra forma rispetto alla guerra tradizionalmente intesa”, la ridefinisce come “una guerra tra le guerre o in momenti apparentemente pacifici” e l’agisce “attraverso una forza non riconoscibile come tale”.
Un obiettivo chiave di questo tipo di conflitto sarebbe per Chiricosta quello di eliminare la naturalizzazione della forza-violenza maschile. Per farlo occorre “negare che la guerra sia un fenomeno naturale” quindi “impossibile da eliminare dall’esperienza umana”.
Solo così cadrà anche il modello di conflitto tra due parti, che è patriarcale e antropocentrico: basato su una visione idealizzata di una cultura superiore capace di trascendere la natura del nemico. Marx la chiamava “ideologia”, come Judith Butler spiega in Chi ha paura del gender? (2024). Da qui si potrebbe proprio attingere proprio alla riflessione di Butlersulla forza e la sua natura spettrale, di cui ha sempre parlato nei suoi testi – si veda ad esempio The force of fantasy (1990) e La forza della non violenza (2024).
Per Chiricosta il conflitto binario, spesso risolto con la violenza, deve essere trasformato in un conflitto plurale, agito da una forza multidirezionale – anche emotiva, come la rabbia e il desiderio di giustizia. Si tratta di divenire “zoecentrici”, un termine che l’autrice mutua da Rosi Braidotti. L’obbiettivo non è schierarsi pro o contro la violenza politica, ma aprire l’orizzonte del possibile: andare oltre la necessità della violenza.
L’educazione sentimentale potrebbe essere dunque un terreno fondamentale per una rivoluzione plurale contro il “mito della forza virile”. Anzitutto, questa andrebbe applicata nei luoghi di produzione del mito: cinema, televisione, letteratura per l’infanzia e adolescenza, ecc. Poi, per farne una forza rivoluzionaria, occorrerebbe erotizzarla in generale nei luoghi di esercizio di potere: nelle case e nelle scuole, come dice Gancitano, ma anche nei luoghi di lavoro, di organizzazione sindacale, e così via.
In una prospettiva rivoluzionaria plurale, occorrerebbe affiancare l’educazione sentimentale al sindacalismo femminista: oltre alla lotta per il lavoro riproduttivo, si dovrebbe parlare anche di lotta alla nuova ideologia dell’amore per il lavoro, versione economica del mito della forza virile, declinata nel mito del successo e dell’affermazione di sé. Tale ideologia è stata descritta da Sarah Jaffe in un libro dal titolo eloquente: Il lavoro non ti ama: o di come la devozione per il nostro lavoro ci rende esauste, sfruttate e sole (2021), dove viene descritto proprio un sistema che prevede che quasi tutte le donne siano dipendenti dal potere di uomini più ricchi e potenti.
Le scuole, intanto, vengono duramente militarizzate, come racconta Antonio Mazzeo in La scuola va alla guerra (2024). E sono oggetto di politiche repressive dell’educazione sessuo-affettiva: si vedano anche gli imponenti investimenti della Agenda Europa che dagli USA alla Russia si scagliano contro queste pratiche educative nel vecchio continente.
Insieme alla propaganda conservatrice, tutto ciò sta letteralmente modificando il corpo maschile, spingendolo a una conflittualità sempre più binaria, individualista, naturalizzata come prova di virilità piuttosto cheorientata verso un’emancipazione collettiva e sistemica. E questo è solo uno degli impatti del mito del corpo virile sulle emozioni maschili.
Il punto che si solleva è che la costruzione – individuale e sociale – del corpo maschile deve essere vista come un campo di un conflitto politico e culturale, come lo è nel caso del corpo femminile e di altre soggettività. E che ciò riguarda non solo il piacere e il desiderio, e quindi la norma eterosessuale, come giustamente sostenuto per esempio dal pensiero rivoluzionario di Mario Mieli Ma anche elementi come la forza e la capacità di agire maschili, che vanno incluse in un’erotica dei sentimenti: aperta e non normativa.
Un’erotica dei sentimenti rivoluzionaria potrebbe eccitare in tutte le persone un desiderio di risignificare il concetto di rivoluzione, e come esso si esprime anche nelle relazioni, come nel sadomasochismo o la non monogamia. Eccitare un desiderio di ritorno al fondamento rivoluzionario del nostro senso di ordine e giustizia, seguendo Benjamin; un desiderio di “guerra alla guerra”, di muovere una forza femminista e plurale in conflitto con una forza virile e guerrafondaia, nei termini di Chiricosta.
Ciò può avvenire solo erotizzando modelli – narrativi o etico-politici – di una rivolta attiva contro il fatto che tale forza sia di valore, desiderabile, attraente. Sia come forza emozionale, creativa e corporea; che come forza-lavoro; che come forza violenta di presa ed esercizio del potere. Sempre prestando attenzione a quando un nuovo modello di forza viene sussunto dal mito della forza virile: occorrono modelli di rivolta anche contro la forza rivoluzionaria. Con Chiricosta: in un continuo mutamento plurale e adattativo.
Alla luce di tutto questo, per emanciparsi e ottenere un successo individuale – affettivo, lavorativo, politico – la forza dell’affermazione di sé, delle proprie scelte, ci sembra relativamente inutile o dannosa. Anzitutto perché si lega a un modello patriarcale – oggettificato e disarticolato – di fioritura del sé e del corpo. Ma anche perché finché non si cambierà la natura sistemica del mito della forza virile, tutte le persone continueranno a esserne oppresse. Occorre una rivolta collettiva contro questa erotizzazione della forza, attraverso una forza di tutt’altro genere.
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