Cronache Ribelli è un collettivo che si occupa di divulgazione storica dal basso, dal punto di vista degli oppressi e delle classi subalterne. Lo fa soprattutto attraverso i social network in cui, dal 2016, ha costruito una grande community di cinquecentomila persone.
Le brevi storie raccontate con i post cercano di unire l’immediatezza della divulgazione alla profondità storica, rimanendo sempre ancorati alla natura politica e militante del progetto. Parallelamente, Cronache Ribelli è anche una casa editrice indipendente, che prosegue la sua divulgazione su testi di più ampio respiro come gli Almanacchi – raccolte di narrazioni storiche – o le Biografie, che approfondiscono le vite di attivisti e militanti. Negli ultimi tempi ha prodotto anche giochi da tavolo a tema storico. Tutto questo sempre in critica con le dinamiche della grande distribuzione e creando intorno a sé una rete alternativa di spazi sociali, culturali e resistenti, dove è possibile acquistare in maniera etica i loro prodotti. Ho chiacchierato un po’ del loro indirizzo politico, del loro rapporto con i social network e delle problematiche del mercato editoriale italiano con Matteo, uno dei fondatori del collettivo.
Franco: Come nasce il vostro collettivo?
Matteo: Noi nasciamo nel 2016, appunto come collettivo, e lo siamo ancora. Ci siamo conosciuti nel giro dell’attivismo e della militanza, molti di noi poi frequentavano l’università a Perugia e quasi tutti in facoltà umanistiche — c’era chi, come me, ha studiato storia, chi relazioni internazionali, chi scienze politiche. Il primo nostro progetto è stato produrre una serie di articoli per la rivista Emergenze, una rivista locale fondata dallo stesso collettivo di Edicola 518 (una vera edicola che a Perugia seleziona e vende riviste da tutto il mondo). Avevamo intenzione di creare una sezione che si occupasse di storia in modo diverso: né istituzionale, né accademico, una storia che non fosse banalmente una lunga carrellata di fatti e che non raccontasse soltanto le vicende relative alle classi dirigenti, ma una storia fatta dalle persone comuni, dalle classi subalterne, dalle soggettività oppresse e dalle loro lotte.
Già dopo qualche settimana abbiamo sentito il bisogno di scrivere di queste cose in uno spazio nostro e così abbiamo deciso di aprire la pagina Facebook. Nel giro di un anno il progetto aveva raccolto un buon seguito, avevamo una buona fan base e così abbiamo pensato che i tempi fossero maturi per pubblicare un libro.
Un merito importante in questo senso va riconosciuto a Marcella Foschi, la nostra prima grafica, perché è stata lei a proporci: “Perché non provate a fare un almanacco? Raccontate ogni giorno le vostre storie, quello potrebbe essere un modo per tenerle insieme e dargli una forma editoriale diversa da un tradizionale libro di storia”. A noi è piaciuta fin dall’inizio l’idea di creare un almanacco e conoscevamo bene l’uso, come importantissimo strumento di divulgazione, che i movimenti operai e socialisti ne avevano fatto fin dalla fine dell’Ottocento. L’idea di riversare in un libro l’impegno alla divulgazione storica che già portavamo avanti online ci sembrava molto coerente con il nostro percorso. Volevamo scrivere un libro di storia che non usasse il linguaggio aulico del mondo accademico ma uno più caldo e accessibile che invogliasse le persone alla lettura. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di tramandare delle storie, che generalmente vengono confinate a un pubblico accademico o strettamente militante, a più persone possibile e per farlo ci siamo impegnati a scrivere in una maniera più fluida e avvincente.
Franco: Quel collettivo si chiamava Cannibali e Re, come il bel libro di Marvin Harris. Quando siete diventati Cronache Ribelli? Un nome che compare nella vostra prima pubblicazione editoriale, Almanacco di Cronache Ribelli.
Matteo: Sì, subito dopo aver pubblicato il nostro primo Almanacco – una raccolta di articoli che avevamo già pubblicato online separatamente – abbiamo deciso che ci saremmo chiamati Cronache Ribelli. Così è nata l’associazione con cui ancora oggi facciamo attività no-profit (incontri, presentazioni di libri, laboratori nelle scuole) e infine la nostra casa editrice. Abbiamo scelto questo nome perché era così che un po’ tutti avevano cominciato a conoscerci, per via dell’Almanacco. Nel frattempo, la nostra pagina Facebook di Cannibali e Re aveva ricevuto una serie di blocchi e censure, e così ne avevamo creata un’altra che si chiamava proprio Cronache Ribelli.
Franco: Parliamo del vostro rapporto con i social. Ne abbiamo discusso insieme in un incontro nel festival Staffette, dove c’eravamo anche noi di Stanca, e credo di potere sintetizzare definendoli una necessità dolorosa ma anche un luogo di sperimentazione, croce e delizia di ogni esperienza culturale indipendente in cerca di visibilità. Cronache Ribelli proprio grazie a Facebook ha creato una community enorme che resiste ancora oggi. Guardando ai social di dieci anni fa con la disillusione di oggi, era una vera forma di comunicazione orizzontale quella che stavate costruendo?
Matteo: Da parte nostra c’è stato un lavoro enorme di mediazione online per far crescere intorno a noi una community attiva. Oggi purtroppo lo facciamo meno perché è un lavoro faticosissimo. Ma in quel primo periodo interagire sulla nostra pagina, rispondere a ogni commento era un lavoro che permetteva di sfruttare quelli che erano gli aspetti positivi dei social network.
Tenendo sempre ben presenti tutti i limiti e le contraddizioni del mezzo, le discussioni nei commenti per noi sono sempre stati una funzione utilissima perché permettono un dialogo orizzontale e pressoché in tempo reale. I media come la televisione, i giornali o i libri – lo diceva anche Pasolini – sono molto frontali e verticali, invece sui social si può costruire un dialogo orizzontale e costante. Nella maggior parte dei casi questa potenzialità è sfruttata malissimo, ma abbiamo avuto per tanto tempo una comunità di lettori e lettrici molto interessata, che commentava serenamente i nostri contenuti e ci ha suggerito tante di quelle storie che poi abbiamo raccontato.
Per noi il social network è stato soprattutto l’unico strumento che ci ha permesso di far conoscere le nostre storie alle persone mantenendo la nostra scelta di una totale indipendenza, quindi senza mai accettare finanziamenti, né da enti pubblici, banche, né da soggetti privati.
Nel corso del tempo siamo andati sempre potenziando i nostri canali di comunicazione, non solo perché abbiamo scelto appunto di utilizzarli a scopo commerciale, ma anche perché crediamo che quella sia una parte fondamentale di tutto il nostro percorso. In un mondo in cui la soglia di attenzione è sempre più bassa e la proliferazione di contenuti è estenuante, è difficile pensare di poter far arrivare alle persone un contenuto complesso come un saggio storico. La nostra soluzione è stata quella di partire da un contenuto oggettivamente semplificato, anche limitato e contraddittorio. Siamo coscienti che al netto della onestà intellettuale con cui raccontiamo una vicenda storica, in tremila battute non possiamo esaurire adeguatamente tutto quello che c’è da sapere sulla vita di una persona, uno sciopero o un’occupazione. Allo stesso tempo però se non utilizziamo questo strumento non porteremo mai un individuo ad appassionarsi a quegli argomenti e magari comprarsi un primo libro, trovare la voglia di approfondirli e creare una propria consapevolezza storica e politica. Facciamo tutto questo creando una rete che raccolga più persone possibile per invogliarle a conoscere quelle storie che neanche noi conoscevamo prima di fondare Cronache Ribelli.
Franco: Vorrei sottolineare la scansione temporale del vostro percorso, perché dal 2016 a oggi vedo scandirsi la parabola della fine della speranza di costruzione di comunità attraverso internet. Non è solo un cambiamento ideologico ma proprio strutturale: sono cambiati gli algoritmi, da una forte interazione tra gli utenti, una condivisione spontanea dei contenuti sulle pagine, si è passati a dei social sempre più verticali e broadcast che favoriscono contenuti sponsorizzati o creati ad hoc per inserirsi violentemente nella sempre più affollata economia dell’attenzione. Sono cambiati anche i social in sé, Facebook è invecchiato in fretta, spodestato da Instagram e TikTok, che sono quanto di più lontano dall’essere piattaforme di interazione orizzontale tra le persone.
Matteo: Nel corso di questi 10 anni è cambiato tutto e la nostra visibilità si è molto ridotta. Abbiamo avuto post che hanno raggiunto le ottomila condivisioni, che sono arrivati da soli a mezzo milione di persone. È ovvio che oggi questi sono numeri molto più difficili da raggiungere, soprattutto con Facebook. Detto questo i social continuano ad essere strumenti di cui non possiamo fare a meno, per questo continuiamo a cercare di affinare la nostra comunicazione, cambiarla di volta in volta in base al social.
Continuiamo comunque ad avere alti livelli di interazione e considerando tutti i nostri canali riusciamo a raggiungere una media di almeno mezzo milione di persone alla settimana, con picchi anche di un milione.
Non abbiamo mai creduto che questi strumenti fossero neutri ma siamo coscienti che è grazie a loro che oggi riusciamo a portare avanti il nostro lavoro. Fino ad oggi abbiamo fatto circa trecento presentazioni di libri in tutta Italia, senza contare quelle fatte dai nostri autori e autrici, e tutte le persone che sono venute a sentirci in quegli spazi, che magari non conoscevano, ma in cui hanno poi dato un contributo reale a quelle discussioni, sono venute grazie ai social.
Quindi, ripeto, considerando che siamo una realtà che è nata dal basso senza nessun tipo di sostegno economico e senza nessun tipo supporto mediatico, creare Cronache Ribelli senza i social sarebbe stato impossibile.
Franco: Un’altra delle problematiche dei social network è la loro impermanenza, ad oggi non sappiamo quale sarà il destino di tutto questo marasma di contenuti che continuiamo incessantemente a pubblicare. Gli Almanacchi sono stati anche un modo per salvaguardare tutto il lavoro che stavate facendo online? In fondo i social non vanno d’accordo con la permanenza del passato, né tanto meno possiamo considerarli un database liberamente consultabile.
Matteo: È stato proprio quello il ragionamento che, in origine, ci aveva spinto a pubblicare il primo volume degli Almanacchi di Cronache Ribelli. Abbiamo continuato su quella strada con altri libri come Ventennio di Sangue, che raccoglie gli scritti sui crimini del fascismo, e Morire di Stato, in cui parliamo di violenza istituzionale. Tutti questi libri sono costituiti anche da contenuti inediti, ma alla base c’è la volontà di avere un progetto organico, tematico e facilmente consultabile.
Franco: Arriviamo a uno dei punti che maggiormente vi caratterizza come casa editrice: il rifiuto della grande distribuzione e la costruzione di canali alternativi per la vendita dei vostri libri. Esistono case editrici fortemente militanti che comunque rimangono nel mercato editoriale canonico, perché voi avete fatto questa scelta?
Matteo: Questa questione per noi che riguarda uno degli aspetti essenziali della militanza, dell’attivismo. Crediamo che che il primo tema di cui ognuno di noi si dovrebbe occupare in questo senso è proprio quello che riguarda la sua vita, la sua comunità, il suo lavoro.
Noi potremmo stare qui tutti i giorni a parlare di centinaia di temi importantissimi senza però che questi vadano a toccare il funzionamento della nostra organizzazione o abbiano conseguenze pratiche sul nostro lavoro.
Se pubblichiamo un post – sacrosanto – sul genocidio palestinese o sulla violenza sulle donne, è giusto, va fatto, ma non possiamo misurare su questo il nostro percorso. Lo possiamo misurare invece su ciò che vi attiene più direttamente: il nostro lavoro editoriale e culturale.
Quando abbiamo cominciato, nessuno di noi aveva avuto esperienze editoriali e questo è stato un fattore molto positivo, non avevamo già uno schema prefissato e non eravamo vittime di una tradizione asfissiante nelle sue contraddizioni, da cui è molto difficile liberarsi.
Allo stesso tempo però venivamo da percorsi di studio universitario nei quali ci eravamo resi conto che in Italia le pubblicazioni di storia o scienze politiche, tolti pochissimi grandi nomi, sono relegate sostanzialmente al sistema della pubblicazione a pagamento [l’autore paga le spese che la casa editrice affronta per la pubblicazione del proprio testo, ndr.].
Partendo dal rifiuto di questo tipo di editoria a pagamento, ci siamo resi conto che l’intero sistema su cui si fonda l’editoria italiana è profondamente sbagliato: una situazione di oligopolio in cui pochissime realtà controllano la stragrande maggioranza del mercato editoriale e della distribuzione. Negli ultimi dieci anni questa situazione ha portato alla quasi completa scomparsa degli editori e librerie indipendenti [realmente indipendenti, quindi di cui i grandi editori – Mondadori, RCS, GeMS – non possiedono quote societarie, ndr].
Questo ha permesso di sopravvivere nel mercato soltanto agli “editori a tempo perso”, ma chi sono questi editori? Ti faccio un esempio: se io faccio il professore universitario, o insegno a scuola, o ho un’attività di famiglia e mi piace pubblicare i libri, è ovvio che non posso cogliere le contraddizioni economiche del sistema editoriale italiano, perché per me pubblicare un libro non è una questione di esigenze materiali, magari legate alla mia condizione di classe, ma diventa un passatempo che mi piace portare avanti, un’attività che reputo nobile. Ma la differenza qual è? Per noi, essere obbligati a versare a un distributore il trenta o quaranta percento del prezzo di copertina di un nostro libro, oltre a dover pagare tutte le spese di immagazzinamento, movimentazione e reso, è semplicemente insostenibile economicamente.
Un sistema editoriale del genere è adatto soltanto ai pochi che hanno vendite così alte da potersi permettere di marginalizzare pochissimo su ogni singolo libro; gli altri editori rimangono nella grande distribuzione o perché per loro non è un lavoro o per abitudine o perché arresi alla convinzione che gli autori non scriveranno per loro se non riescono ad assicurargli quel tipo di distribuzione. È un sistema totalmente capestro, anche da un punto di vista dei risultati economici. Ma per fortuna non siamo più negli anni Sessanta, se un libro non lo trovo in libreria (se ancora vado in libreria) lo posso comprare online. Per di più la visibilità data dalle librerie alle piccole case editrici è pressoché nulla, con decine di migliaia di titoli prodotti ogni anno, è ovvio che un libraio dia più spazio a quei titoli che vendono di più, assicurandosi così maggiori guadagni. Così succede spesso che – formalmente – il mio libro è nella grande distribuzione, ma non si trova nelle librerie, perso sta in qualche sterminato magazzino chissà dove.
I nostri libri preferiamo tenerli nel nostro magazzino e si possono ordinare tranquillamente dal nostro sito, oppure in una delle librerie indipendenti, spazi sociali e infoshop con cui noi abbiamo relazioni e con cui abbiamo costruito una vera e propria rete distributiva indipendente.
Il vero problema comunque rimane a monte e sta nell’enorme numero di libri pubblicati ogni anno che permette alle case editrici di mettere in pratica una politica molto semplice: fare il massimo profitto sui libri, farlo nella maniera più selvaggia e più rapida possibile. Questo significa innanzitutto esternalizzare buona parte delle produzioni – è quello che è successo, ad esempio, ai libri cartonati per bambini, ormai impossibili da produrre in Italia, perché non ci sono macchinari adatti e i costi sono altissimi. Per questo motivo si stampa all’estero con tirature altissime e si inonda il mercato di libri che avranno una vita sempre più breve. Dopo sei mesi il libro è dato per morto, ma quel libro muore davvero perché non ha e non aveva nulla da dire. Esiste un termine preciso per definirli, gli “instant book”, cinquecento libri sulla guerra in Ucraina fatti in fretta e senza nulla di nuovo da dire, privi di qualunque profondità. Muore un personaggio famoso e il giorno dopo escono sedici biografie. È palese che non è possibile produrre libri di qualità in questo modo. Poi ci sono i libri degli influencer scritti da ghost writer, anche loro molto spesso sfruttati.
Il libro vero, il libro buono resta. Purtroppo quei libri che hanno un valore che dura nel tempo non li troviamo più in libreria a causa di queste logiche di mercato. Prova oggi a chiedere un libro di Valerio Evangelisti o Pino Caruso, non è più ordinabile! Ho comprato proprio ieri un libro del ciclo messicano di Evangelisti e l’ho trovato soltanto usato online perché altrove è irreperibile. Siamo d’accordo che parliamo di uno dei più grandi scrittori italiani per di più scomparso solo pochi anni fa?
Questo sistema si ostina a vendere libri di scarsa qualità, che continuamente vengono tolti e messi su degli scaffali, fino a quando un giorno finiscono in un grande magazzino chiamato Opportunity, dove ogni anno vengono mandati al macero milioni di euro ammortizzati da incentivi fiscali da parte dello stato. Siamo in un mercato che è completamente sbagliato e questa cosa non si può cambiare all’interno. Prima di tutto perché non esiste nessun rapporto di forza: i piccoli e medi editori italiani non sono in grado di imbastire una contrattazione con i distributori e anche le associazioni di categoria sono completamente inutili, in questo senso non hanno interesse nell’entrare in conflitto con l’intero sistema editoriale.
Franco: In un sistema così complesso e con interessi davvero indistricabili anche le librerie indipendenti, quelle poche che ancora esistono, mi sembrano completamente impotenti, o almeno anche loro sotto ricatto.
Matteo: Sì, se guardiamo dall’altra parte abbiamo gli interessi delle librerie, che guadagnano pochissimo e hanno costi di gestione sempre più alti, bollette, affitto, così sono costrette a fare il gioco del mercato per sopravvivere, dando spazio a quei libri usa e getta. Ma questo circolo vizioso inevitabilmente le porta a perdere quel ruolo fondamentale che aveva il libraio: selezionare i libri, secondo lui, di valore. Un ruolo di cui è impossibile venire investiti se contemporaneamente sei sotto costante ricatto del distributore che ti obbliga a ordinare decine di copie di una specifica casa editrice, che sarai obbligato a vendere, in cambio di una promessa di sconto sulle spese future di cui hai assolutamente bisogno per sopravvivere.
Purtroppo in Italia di queste dinamiche si parla ancora troppo poco. Il nostro è un sistema ben collaudato costruito su rapporti personali consolidati: privilegi, favoritismi, recensioni sui giornali, accesso a determinati festival.
Ma il risultato in fondo qual è? La povertà culturale di questo paese. L’Italia è un paese culturalmente povero, perché nel momento in cui la produzione letteraria – una delle più alte tra le espressioni artistiche e culturali – viene sottoposta alla censura preventiva del profitto, quel paese sta uccidendo la sua cultura.
Come facciamo oggi a riconoscere un vero autore, un grande autore, se l’unica cosa che valutiamo è quante copie e in quanto tempo? Lo dico dal punto di una piccola realtà che come tutte per sopravvivere deve vendere i suoi libri; ma dal punto di vista di un colosso editoriale, che fattura milioni e milioni di euro, questo si traduce nel fatto che qualunque pubblicazione prima è valutata dalla sezione marketing e poi da chi deve dare un giudizio di valore sul contenuto del libro.
Franco: Mi sembra che questo discorso si possa adattare a quasi tutti gli ambiti artistici e culturali una volta calati in un mercato capitalistico. Penso alla musica, in cui spesso assisto al riprodursi di dinamiche simili. Con Cronache Ribelli non vi occupate soltanto di libri, ma negli ultimi tempi avete prodotto anche giochi da tavolo. Possiamo rintracciare in quel mercato le stesse distorsioni di cui abbiamo parlato sopra? Soprattutto in Italia, c’è e c’è stata moltissima resistenza nel considerare giochi e videogiochi dei veri prodotti culturali, relegandoli al purgatorio dell’intrattenimento. I vostri giochi hanno una forte impronta politica e divulgativa, in continuità con il resto del lavoro che fate. Questo vi ha permesso di entrare in un mercato che non ha ancora raggiunto la saturazione di quello editoriale?
Matteo: Come dicevo all’inizio, il nostro lavoro fondamentale è di pubblicare storie. Lo facciamo con i libri, con i social, vendendo le magliette e lo facciamo con i giochi.
È un modo per diversificare la nostra produzione e per arrivare a persone che magari non hanno né voglia, né tempo, né risorse per leggere un libro. In questo senso è molto importante non colpevolizzare chi non ha accesso a quel tipo di fruizione culturale, né scadere in un paternalismo intellettuale. Bisogna rimanere culturalmente accoglienti e i giochi possono essere un’ottima porta di accesso per conoscere personaggi storici che reputiamo importanti.
Ci piace essere una realtà che ristampa i classici del pensiero socialista libertario – stampiamo Rosa Luxemburg – ma al tempo stesso Rosa Luxemburg la mettiamo anche dentro il nostro gioco, Le Parola delle Donne.
Tante persone non sono interessate alla lettura delle analisi che faceva Rosa Luxemburg sulla Grande guerra, per quanto attuali e fondamentali, ma magari giocando con noi, dentro un circolo Arci o uno spazio sociale, a casa con gli amici, pensa: “Ma quanto era figa questa Rosa Luxemburg?”. Questo è ciò che possiamo fare con i giochi. Sono importantissimi per rispettare il momento ludico, che per noi è un tempo che va liberato, un tempo in cui le persone si caricano di energie positive.
Tutto quindi può essere utile e diventare occasione di militanza. Prendi la maglietta, è un simbolo, quando tu giri indossando una data che ricorda una rivoluzione, un’insurrezione o la Liberazione del 25 aprile, tu stai raccontando qualcosa.
Tornando ai giochi, purtroppo il fenomeno che ho descritto prima sui libri, per certi versi, è ancora più violento nel mondo dei giochi da tavolo. Anche lì le grandi corporation stanno cercando di distruggere tutte le piccole realtà, in una gara spietata alla delocalizzazione.
Nel giro di pochi anni la produzione dei giochi è passata dalla Slovenia alla Polonia, dalla Polonia alla Cina, nel tentativo cosciente di imbrigliare tutta la produzione alternativa che fatica a gestire queste dinamiche produttive.
Siamo arrivati poi, da un punto di vista di ideazione dei giochi, alla situazione paradossale in cui le grandi corporation tentano di prendere il controllo di meccaniche di gioco che esistono da decenni, registrandole come brevetti. È come se i romani non si potessero più stampare le carte da briscola! È arrivato qualcuno che ha detto: “Signori, la briscola è la mia”.
È un processo di appropriazione, in questo caso di un prodotto intellettuale, per niente diverso da quando a fine Settecento qualcuno incominciò a recintare gli spazi comuni per impedire alle persone di raccogliere la legna. Nel campo dei giochi, questo è un fenomeno relativamente recente ma molto preoccupante che prende spesso la forma di un attacco preventivo.
Come dicevi tu riguardo la musica, sono dinamiche che vediamo declinarsi in qualunque produzione artistica e culturale. È interessante pensare come la stragrande maggioranza delle opere artistiche e intellettuali che ha prodotto l’umanità sono state realizzate da persone che non necessariamente in quel momento le avevano pensate come universali. Per loro, in quel momento, erano un gesto individuale, direi, di amore nei confronti di quello che scrivevano o dipingevano.
Tantissimi grandi intellettuali, artisti e scrittori sono morti in povertà e le proprie opere sono diventate poi famose con il tempo, ma quelle persone avevano una profonda abnegazione nei confronti di ciò che facevano.
Se oggi decido di scrivere un libro, in molti casi comincio a pensarlo proprio dall’esigenza di accontentare le aspettative della casa editrice, devo piegarmi già nella fase creativa alle logiche di quel mercato che descrivevo prima, magari silenziando la mia narrazione. Il mio lavoro consisterà più nella ricerca di contatti utili alla pubblicazione, che non sul testo. Questo approccio mi spaventa molto di più di tutto l’allarmismo fatto per l’intelligenza artificiale. Oggi chi scrive o chi produce questi tipi di prodotti culturali è sempre più soggetto a una forma di autocensura legata alle logiche del mercato.
Franco: Nel vostro sito si legge “ci teniamo a dire che tutto il nostro lavoro è strutturato in modo orizzontale. Non esistono gerarchie all’interno del nostro gruppo e nei confronti dei professionisti con cui collaboriamo”. Volevo chiederti di parlarmi di questa orizzontalità nel vostro collettivo. Ti faccio questa domanda per una motivazione sia personale che ideologica perché anche nella redazione di Stanca usiamo un approccio simile nel nostro lavoro. Studiando per il nostro progetto redazionale sulla storia delle riviste online, ci confrontiamo però costantemente con una sorta di deviazione senile in cui le realtà più invecchiano e più crescendo divengono irregimentate e verticali. Quanto pesa l’orizzontalità in un collettivo come il vostro e come si difende?
Matteo: I nostri rapporti sono rapporti regolati dalla parità, significa che non c’è nessuna autorità da un punto di vista formale né sostanziale all’interno del gruppo. Abbiamo fatto questa scelta e non la cambieremo mai. Ovviamente subentra anche un discorso di competenze specifiche, come in ogni piccola realtà ognuno di noi ha fatto un po’ di tutto, senza una rigida divisione del lavoro. Chi scriveva faceva anche i pacchi e pagava i fornitori, chi portava i libri nel magazzino faceva anche le presentazioni. Continua a essere così in larga misura, ma quando si parla di impaginazione o traduzione, sono cose che non tutti siamo in grado di fare. Io, ad esempio, non parlo una parola di francese o inglese e di conseguenza non posso mettermi a tradurre i libri della nuova collana estera.
Tutte le decisioni strutturali comunque vengono sempre prese insieme. Ciò che ci tiene uniti è soprattutto l’essere coscienti che Cronache Ribelli è una parte fondamentale della nostra vita. Tutti abbiamo sacrificato delle cose: chi viveva all’estero, chi ha rotto delle relazioni personali, chi poteva ambire ad avere un salario molto più alto e a fare una vita più tranquilla.
Questo è un lavoro che, va detto con grande sincerità, è totalizzante. Confrontandoci con i meccanismi editoriali che ti descrivevo prima, dobbiamo sempre accettare una grande dose di incertezza. Bisogna combatterla costantemente con una grande reattività, con la convinzione di non lasciare mai nulla di intentato, dal fare un nuovo libro, a far conoscere meglio quelli che già abbiamo pubblicato, migliorare i contenuti, farci conoscere a più persone.
Questo meccanismo ovviamente funziona perché non è esasperato, come spesso si assiste in molti collettivi squisitamente politici, che si disperdono nella costante esasperazione del confronto e in discussioni incessanti. Noi ci facciamo forza della nostra dialettica, di una grande capacità di dialogo. Ci sono stati momenti di incomprensione e conflitto, ma devo essere onesto, sono stati veramente rari e sono stati tutti superati serenamente. Tutti condividiamo gli stessi ideali e questo ci permette di remare insieme nella stessa direzione. Poi come diceva Marx: “Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni”.

