Lo spettro del fascismo sulla carcassa dei movimenti popolari

Lo spettro del fascismo sulla carcassa dei movimenti popolari
fotomontaggio via Reddit ispirato alle Vignette tra le due guerre tratte dalla rivista Punch di Bernard Partridge
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Sono passati 176 anni da quando Marx ed Engels profetizzavano, nel Manifesto del Partito Comunista, la Rivoluzione. Questa rivoluzione non si è mai concretizzata secondo le dinamiche storiche che i due filosofi avevano previsto: “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”, è l’incipit rimasto tanto celebre quanto indefinito nella memoria collettiva, al punto che, a volte, mi capita di parlare con persone che ne scambiano la prima parte per una citazione dall’Amleto di Shakespeare.
Per Marx, la rivoluzione sarebbe arrivata dopo l’annunciata crisi del sistema economico-sociale vigente: il capitalismo si sarebbe piegato sulle sue fondamenta, il progressivo accumulo di ricchezza nelle mani di pochi sarebbe stata la ragione stessa della sua crisi per via della caduta tendenziale del saggio di profitto, cioè l’investimento progressivo nella tecnologia delle aziende a scapito dei salari dei lavoratori, che avrebbe causato il proporzionale crollo dei guadagni. 

La crisi del capitalismo ipotizzata nel Capitale non è (ancora) avvenuta e, anzi, gran parte delle forme di governo comunista si sono instaurate, durante il Novecento, in Paesi poco o per niente industrializzati, tanto che Gramsci le ha definite “rivoluzioni contro il Capitale”. La presenza di un sistema di governo radicalmente alternativa a quella capitalista – in sintesi l’esistenza del blocco sovietico nel Novecento – non è riuscita a mettere in crisi il modello sociale vigente in Occidente e anzi, alla lunga, è stata sconfitta. 

Nel frattempo, dalla metà dell’Ottocento a oggi, in America, Europa e in alcuni paesi dell’estremo Oriente, si sono generate strutture economiche e sociali che hanno permesso la sopravvivenza e il consolidamento – in forme differenti – di società democratiche di stampo neoliberale.
Sarebbe eccessivamente complesso ripercorrere tutte le tappe che hanno portato, dopo la Seconda guerra mondiale, gran parte degli Stati europei a costituirsi come un soggetto politico-economico unico, o per lo meno a intraprendere la via per diventarlo (non è questa, nemmeno, la sede per entrare nel dettaglio delle miriadi di contraddizioni economiche e politiche che l’attuale Unione Europea presenta); quello che è certo, è che il capitalismo oggi sembra essere l’unico orizzonte di senso della politica, almeno di quella occidentale. Quello che è certo è che non si è instaurata – come profetizzato dal marxismo – una società in cui vigesse la dittatura del proletariato, né si è manifestato lo spettro di una rivoluzione che portasse a una nuova organizzazione economica del vivere collettivo. L’alternativa economica e sociale al capitalismo si è apparentemente conclusa in una sostanziale sconfitta storica.
Ma neppure il vincitore si sta prendendo cura della sua vittoria novecentesca, è  sempre più evidente la crisi di molte delle fondamenta del sistema capitalista su cui si reggono le democrazie liberali. La domanda massimalista che, seppur con qualche difficoltà, è necessario porsi, è se esiste, oggi, uno spettro che accompagna questa crisi, se ci sia davvero un modello verso il quale può tendere chi si augura l’instaurazione di un modello collettivo altro. Esiste oggi una forza politica alternativa, dirompente e antisistema e, se sì, da chi e in quali forme è rappresentata? 

La parola “spettro” (Gespenst) usata da Marx nell’incipit del Manifesto (1848) evoca l’idea di una minaccia, di una presenza dirompente negli equilibri politici dell’Europa di quel periodo. Tra gli anni ’20 e gli anni ’50 dell’Ottocento si susseguirono i moti carbonari, numerose rivolte popolari – puntualmente represse con la forza – che generarono un diffuso istinto a insorgere, che crebbe fino al 1848, l’anno della cosiddetta “primavera dei popoli”. Il comunismo, nell’introduzione del suo testo programmatico, è presentato come una forza collettiva, prodotta dall’ormai incontenibile lotta tra classi. Non è forse un caso, quindi, che Marx usi la parola Gespenst, e non la più evocativa Geist (anch’essa traducibile con fantasma o con spettro), per indicare una presenza che è, sì, simbolica e fuori dall’ordine delle cose, ma allo stesso tempo dotata di una forma (Gestalt) riconoscibile e “visibile”. Se Geist sta a indicare uno spettro della coscienza, un sentimento rimosso, il Gespenst è il fantasma che appare nel castello dei racconti dell’orrore. 

Per provare a rispondere alla domanda che si pone questo articolo, dobbiamo innanzitutto analizzare alcuni elementi della crisi delle democrazie liberali. Per democrazie liberali si intendono quelle fondate sulla libera partecipazione al voto dei cittadini, su una relativa libertà di stampa, di informazione, di aggregazione e di circolazione della cultura. Premetto, come assunto iniziale del mio discorso, che le attuali democrazie rappresentative occidentali sono consustanziali all’esistenza di un modello economico capitalista per assetti sociali, modelli economici di sviluppo, forme della rappresentanza. D’altronde, è altrettanto vero che il capitalismo si adatta anche a modelli politici illiberali o autoritari e coesiste con forme di governo non fondate sulla partecipazione dei cittadini al voto o alla vita comunitaria. È necessario specificare, quindi, che buona parte del mio discorso è limitato a un’area geografica ben definita. 

I motivi della crisi che mi interessa analizzare in questa sede riguardano la fragilità degli elementi sopra citati, che comporta, a mio parere, un evidente scollamento tra le azioni di governo e la sua validazione popolare. In particolare mi riferisco al valore condiviso della rappresentanza come strumento di espressione degli interessi degli elettori, al rapporto di fiducia tra i media e l’opinione pubblica come strumento di informazione democratica, alla suddivisione e all’equilibrio tra i diversi poteri istituzionali, messo in crisi dal tentativo, specie il recente caso italiano, di svuotare il Parlamento e la magistratura delle loro funzioni legislative e giudiziarie.

Mentre porzioni sempre più ampie di popolazione rifiutano il voto come strumento democratico ricorrendo all’assenteismo elettorale, continua a infrangersi la promessa di un progressivo miglioramento delle condizioni della vita dei cittadini in un sistema democratico. 

Non è solo la disaffezione reciproca tra cittadini e politica: la crisi delle democrazie e dei loro valori è generata da molti altri fattori. Tra questi è rilevante il progressivo accumulo, già citato in precedenza, della ricchezza nelle mani di poche persone, quindi la conseguente redistribuzione profondamente diseguale delle risorse materiali, economiche e finanziarie – sia internamente all’Europa sia nel rapporto tra l’Occidente e il resto del mondo. Inoltre, in termini di natura più teorica, si percepisce chiaramente la progressiva smaterializzazione del potere, dalle sue vesti alle sue concettualizzazioni, che assume forme sempre più evanescenti e “lontane” dalla vita quotidiana dei cittadini. 

Questo scollamento si evidenzia poi nei fatti, ne sono un esempio le ultime elezioni europee, quando, secondo i dati ufficiali, è andato a votare meno del 50% della popolazione italiana.
Alla notizia sono susseguite vere e proprie campagne di sensibilizzazione al voto, tra tutte ha fatto molto parlare di sé “Fermiamoli con il Voto”, campagna promossa dall’omonimo collettivo, il cui obiettivo era di esplicito contrasto ai nuovi fascismi. È risaputo che uno dei motivi principali alla base degli appelli al voto, di chi ha tentato attraverso la sensibilizzazione di aumentare la percentuale di votanti, era la possibilità – paventata e poi non davvero concretizzata nonostante molte vittorie eclatanti in singoli Paesi dell’Unione – che, in caso di forte astensionismo, avrebbero vinto le elezioni forze politiche di destra radicale e sociale, considerate da molte persone eversive, antisistema, pericolose. Sia chiaro, non sono tra coloro che si sono strappati i capelli per convincere altre persone della necessità del voto – potendo, avrei spinto anzi le persone a non votare qualora non si sentissero pienamente rappresentate dalle forze candidate, in parte perché riconosco al diritto di voto un valore positivo e in quanto tale da non contaminare con scelte che non rispecchiano il nostro sentire interiore, dall’altra perché non attribuisco alcun valore in sé positivo, invece, a un sistema istituzionale che alimenta e rafforza le disuguaglianze vigenti; tuttavia, è bene evidenziare come questa preoccupazione diffusa, soprattutto da parte istituzionale, per l’emersione delle destre, sia uno dei segni evidenti della crisi delle democrazie liberali. 

Per molte forze politiche, liberali, progressiste o conservatrici che siano, il diffuso consenso popolare delle destre estreme è una minaccia. Hanno parlato in questi termini, soltanto pochi giorni fa, i partiti di centro-sinistra europei, che a Berlino hanno sottoscritto una generica quanto enfatica “Dichiarazione di Democrazia”, proponendosi direttamente per il ruolo di guardiani della fortezza europea. Allontanare la minaccia della diffusione delle destre, in termini politici, significa promettere di non fare accordi di governo con chi “nega i fondamenti dello stare insieme nell’Unione”, come ha detto di recente Elly Schlein. 

Questa percezione diventa una vera e propria narrazione che facilmente si riscontra anche nei media. Dopo le elezioni europee molti giornali hanno titolato evidenziando quella che ormai, in termini semantici militareschi, è definita “l’avanzata delle destre” – così, ad esempio, Corriere della Sera, ilPost e Rai News il 10 giugno 2024, ma anche Il Fatto Quotidiano un anno prima. È un’avanzata – retorica – che dura da molti anni, tanto che a cercare l’espressione su Google si trovano interviste del 2017 a Renzi e del 2023 a Bersani che si esprimono nei medesimi termini. Poco importa che, a conti fatti, le prime due forze vincitrici delle elezioni siano state il Partito Popolare Europeo e i Socialisti. È oggettivo che i numeri elettorali delle forze radicali di destra sono aumentati, ma è anche vero che questo aumento è il perno retorico delle forze liberali per presentarsi ai cittadini come “argine” a questa “avanzata”. 

Per generare ancor più inquietudine nell’opinione pubblica, è frequente l’accostamento immediato di questi movimenti con i fascismi del secolo scorso. Questa strategia è parzialmente giustificata dall’apparato simbolico, dalla tradizione storica e dai rimandi più o meno espliciti dei movimenti di destra ai fascismi del passato. Tuttavia, ritengo che l’apparato simbolico e i rimandi evocativi alle dittature del Novecento non siano la vera giustificazione per associare con cognizione di causa i neo-fascismi ai fascismi storici. Non credo, più nello specifico, che sia la loro portata simbolica il motore della presa di potere e del consenso diffuso che questi movimenti stanno guadagnando. Moltissimi commentatori e giornalisti fanno leva sull’immaginario simbolico e iconografico a cui abbiamo fatto riferimento: è famosa, a questo proposito, l’inchiesta di Fanpage sulle giovanili di Fratelli d’Italia, che ha generato, all’atto pratico, molto clamore e nient’altro. Lo scandalo politico è stato causato dal ricorso sistematico dei giovani meloniani a frasi antisemite, braccia tese, inneggiamenti grotteschi a Mussolini – è proprio vero, come diceva Marx, che, con i fasci del terzo millennio, la storia si ripete in farsa. Le immagini delle commemorazioni ad Acca Larenzia, riprese sistematicamente da tutte le testate, ci fanno impressione perché sono rumorose, fragorose, ordinate: un paio di centinaia di uomini che urlano all’unisono. Mi sembra, in sostanza, che per mezzo di una comunicazione errata si stia scambiando l’effetto di una crisi – la diffusione dei movimenti di destra – per la sua causa.

Gli estremismi di destra, al contrario del comunismo, sono in Europa una realtà storicamente determinata, nata proprio dal vuoto istituzionale creato dalle democrazie liberali: Hitler ha vinto le elezioni in Germania, Mussolini è stato accolto e accettato come capo di una coalizione dalle forze liberali italiane, convinte che avrebbero potuto arginare la sua presa di potere. Sono proprio le condizioni socio-economiche, le strutture sociali che hanno permesso l’instaurazione del potere delle destre del passato, a ritornare oggi. La presenza materiale di certi fattori critici è molto più pervasiva e produce effetti ben più radicali rispetto al semplice apparato simbolico a cui i movimenti di destra fanno riferimento. La totale assenza di un collante tra il potere e le classi popolari è stata sfruttata dai dittatori novecenteschi per assumere il potere e legittimarlo; la progressiva morte delle istituzioni liberali e democratiche potrebbe portare alle stesse conseguenze. Oggi, come cento anni fa, sono le condizioni materiali molto di più della forza dei simboli a poter cambiare gli assetti istituzionali europei. 

In una società liberale, in cui il potere dell’informazione sembra essere il cardine di una vita collettiva giusta e libera, ad essere sopito è il conflitto tra classi. Se l’informazione vive di simboli e di narrazioni (o di contro-narrazioni) e questo ci sembra essere garanzia di libertà e partecipazione collettiva alla vita democratica, perché allora la partecipazione collettiva alla democrazia è così debole? La domanda che è necessario porsi, per uscire dall’impasse, è: siamo sicuri che votare sia l’unica forma possibile di partecipazione alla democrazia? Siamo sicuri che sia la migliore? In altri termini: possiamo mantenere in vita un sistema democratico senza andare a votare? Il nodo di questa riflessione sta proprio nel concetto di rappresentanza e nella sua crisi. 

L’ultimo anno è stato segnato da movimenti di piazza molto forti, pervasivi e incisivi nell’opinione pubblica, con una frequenza e violenza che non si vedeva da anni. Questi movimenti si sono raccolti, dopo il 7 ottobre, attorno alla questione palestinese e da questo momento in poi le proteste hanno abbracciato un più ampio rifiuto delle logiche imperialiste europee e occidentali, fino a riguardare anche le politiche militari tra le quali il posizionamento dell’Unione Europea nella guerra in Ucraina e, in forma decisamente ridotta, hanno aperto l’opinione pubblica alla messa in discussione degli attuali organi di alleanza internazionale come la NATO. Ebbene, l’importanza di queste manifestazioni, nonché quella del loro stesso contenuto, sono state sistematicamente ignorate e mistificate. 

Non serve questo articolo a evidenziare tutte le volte che, sui giornali e sui media, il contenuto delle manifestazioni in favore della Palestina è stato travisato o volutamente manipolato. Questo pezzo non è essenziale nemmeno a evidenziare quanto sia distorto il significato storico del concetto di antisemitismo nella comunicazione politica e quanto strumentalmente l’opposizione al genocidio compiuto da Israele sia fatta passare per odio contro gli ebrei. L’accostamento opportunista tra opposizione al sionismo e antisemitismo è iniziato subito dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 (si prenda ad esempio questo pezzo di Wired del 10 ottobre) e continua da allora. 

Ma piuttosto che concentrarsi sulle modalità con le quali questa narrazione si configura, è più utile, invece, chiedersi quali effetti produca questa sistematica mistificazione. Chi accetterebbe di essere rappresentato da forze politiche che sistematicamente ignorano le proprie rivendicazioni? Basta leggere i sondaggi pubblicati a più riprese nell’ultimo anno (questo di YouTrend è un esempio) per rendersi conto di quanto l’opinione pubblica tenda ad avere una posizione quantomeno critica nei confronti delle politiche di Israele. In risposta alle proteste crescenti, il Ministero dell’Interno ha intenzione di non permettere le manifestazioni indette dai Giovani Palestinesi per il 5 ottobre 2024 – definiti, in questo articolo dell’Huffington Post, un “gruppo radicale pro-Pal”. 

I “pro-Palestina” sono, nella narrazione della stampa, un gruppo eterogeneo e indefinito, che sfocia nel terrorismo, nell’odio razziale, nell’islamismo. Su Il Giornale un affresco che sintetizza tutti i pregiudizi e le falsificazioni su chi manifesta in sostegno della Palestina: “I Giovani Palestinesi non accettano posizioni diverse dalle proprie: chiunque le esponga diventa un nemico e oggetto di insulti. Incapaci di accettare che esistano diverse opinioni, non sono in grado di sostenere dialoghi civili ma sono sempre pronti a interrompere quelli altrui”. Sembra di leggere la descrizione di un personaggio di un videogame o di Dungeons & Dragons

Oltre alle battaglie in favore della Palestina, i movimenti studenteschi e di piazza stanno entrando in solidarietà e collaborazione con altri gruppi politici: penso soprattutto alle lotte per il clima e ai movimenti di operai e lavoratori. Questa “convergenza” allarga il raggio delle rivendicazioni politiche – non è un caso che il genocidio sia stato uno dei temi principali dell’ultimo 25 aprile o dell’8 marzo, e non è casuale neanche che la stampa si sia impegnata così profondamente a provare a rimuovere o smontare le connessioni e le logiche interne delle analisi delle varie piazze; d’altra parte, aumenta anche lo spettro di questioni politiche che non trovano attenzione né sfogo nell’arco istituzionale. 

Se è vero che da decenni, con l’aumentare delle disuguaglianze e con la regressione dei diritti sociali e civili, lo scollamento tra politica e fasce popolari è ormai radicato su un piano materiale, sta venendo meno anche l’apparato simbolico di coesione tra governo e popolazione nel complesso del nostro sistema istituzionale. “Se i governi non ascoltano le proteste e mistificano i loro contenuti, come possiamo identificarci in questo assetto politico?”, sembra essere il mantra che, in sordina, ingigantisce il fantasma della crisi delle democrazie. È in questo scollamento il vero pericolo per la sopravvivenza di un sistema politico che faccia gli interessi della maggior parte delle persone. D’altronde, tutte le forze di estrema destra attualmente al potere, a partire da quella italiana, stanno continuando a governare nel pieno solco delle logiche imposte dalle democrazie liberali. Non mettono in discussione la NATO, non lo fanno con l’Unione Europea, non modificano sostanzialmente le politiche materiali dei governi precedenti su questioni essenziali come scuola, sanità o diritti del lavoro. Costruiscono piuttosto apparati simbolici, rilasciando dichiarazioni d’effetto con l’unico scopo di far parlare di sé. Il capitalismo, ai cambiamenti sovrastrutturali, si è sempre adattato.

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