Mia nonna e la stratocaster

Mia nonna e la stratocaster
Pablo Picasso, Il vecchio chitarrista cieco, 1903
[Tempo di lettura: 5 pignalenti]

What if I had stood there at the end
And said again, and again, and again
An answer to every question

Riding for the feeling – Bill Callahan

Il frigorifero spento ha gli sportelli aperti. La locandina di un vecchio spettacolo di Rezza – mai appesa – sta appoggiata in un angolo, arrotolata con un elastico. Il letto non l’ho rifatto dall’ultima volta che ci ho dormito quasi un anno fa. Nella stanza-studio il proiettore prende la polvere, la cassetta che si vede male di 1997: Fuga da New York sta a fianco al posacenere, un mozzicone e tutti i sintetizzatori e le chitarre silenziose in attesa – ne ho presa una ieri, ho fatto qualche arpeggio, il sol continua a scordarsi prima di tutte le altre corde. L’Arturia Minibrute con le bruciature di sigaretta sui tasti ha la plastica dei pomelli che sta diventando appiccicosa, dopo qualche anno succede: i polimeri abbandonati al loro processo di decadimento trasudano liquidi sconosciuti, e allora bisogna cambiarli o pulirli ad uno ad uno con il WD40. In quella stanza dalla pianta perfettamente quadrata, in una casa in Abruzzo, cinquanta o sessanta anni fa trasudavano i loro liquidi i prosciutti e i lonzini appesi ad una canna innocente che tagliando geometricamente uno dei quattro angoli creava un triangolo rettangolo orizzontale sospeso a due metri da terra. Ora non c’è più ma sul pavimento in quel punto ci sono dei profondi buchi nelle mattonelle corrose dal sale dove scolava la carne. Forse un giorno ci hanno appeso un maiale intero, come si appendono dopo averli scannati, col gancio nella mascella e il corpo aperto di netto a spurgare e asciugare. In quella casa ha vissuto mia nonna, fino agli ultimi giorni, quando la trascinavamo da una stanza all’altra con la sedia a rotelle. 
Prima di morire mi aveva chiesto di prometterle di andare via. L’aveva fatto solo con gli occhi perché, quando andavo a trovarla il sabato mattina, amava troppo prepararmi il caffè in silenzio e sentirmi parlare, per confessarmelo con le parole. Probabilmente avrebbe voluto ripetere quel rito per sempre. Tutta la vita un sabato mattina. Non aveva capito – non essendo mai andata via lei – che il problema è il ritorno: l’adesivo miracoloso, il buco nero che ci portiamo nello zaino all’università. Poi cadiamo e realizziamo che le radici sono un paracadute rotto, strisciano nascoste aspettando il giorno che torneremo sotto terra a chiedere perdono per essere scappati. L’ultimo sopravvissuto deve portarsi dietro la rabbia di tutti gli altri morti. Io mi porto dietro quella di mia nonna, che le gambe l’avevano mollata ed era rimasta inchiodata alla sua piccolissima libertà di avere questa casa che ora è il mio ritorno. Dio deve avere la faccia verde speranza, sono sicuro, ed è con quella che continua a mentirci.
Quella che oggi è la mia stanza-studio prima era la stanza-dispensa, la camera fredda la chiamavamo da bambini perché nessuno aveva mai acceso i riscaldamenti li dentro ed era esposta in modo da non prendere mai la luce: l’unica finestra dà su un muro di venti metri scavato nel fianco del paese vecchio. Era insomma un posto perfetto per conservarci le provviste, seccarci la carne, accumularci chili e chili di friggiture per le feste di Natale. Quando mia nonna è morta abbiamo riammodernato la casa e l’abbiamo rimbiancata, abbiamo buttato tutti gli oggetti che si lascia dietro una vita e comprato un nuovo tappeto blu per il salone, l’abbiamo trovato nella sezione delle offerte all’Ikea. Io ovviamente mi sono trasferito lì perché con i soldi che prendevo con la disoccupazione era stupido continuare a pagare per un affitto quando hai una casa vuota a pochi passi dalla tua. Ho abitato in quella casa per un anno prima di trasferirmi a Roma e adesso è rimasta così sospesa in un tempo di fantasmi sovrapposti, quelli miei – la musica; quelli di mia nonna – i prosciutti; quelli del futuro – il frigo spento. Non sono mai stato capace di vivere in un paese sull’Appennino e questa è la mia colpa. Avrei potuto campare decentemente con un lavoro vicino casa e senza pagare l’affitto, con molti meno soldi di quelli che faccio finta di centellinare oggi che vivo a Roma – perché se continuo così, io e la banca lo sappiamo che stanno finendo. Però mi è bastato un anno per capire che ci stavo per morire anche io dentro quella casa in Abruzzo. Mi trascinavo da una stanza all’altra, mi preparavo un gin tonic e mi mettevo a scrivere nuova musica che era solo per me. Sarebbe bastato qualche minuto in più, il tempo di sbattere le palpebre perché è già mattina e la luce spacca la notte tra le tende e i miei anni sarebbero caracollati come uno di quei muri a secco sparsi per la campagna che sembrano durare in eterno ma vengono giù come i fulmini mentre ci cammini accanto. Così oggi sono a Roma e quando torno in Abruzzo devo andare a trovare questo mio fratello – mai nato mai morto – che vive ancora in quella casa e ogni giorno passa mezz’ora ad accordare le chitarre e il resto del tempo ad aprire e chiudere il frigorifero spento.
Questa mattina, mentre giravo la chiave nella serratura, ho sentito una porta sbattere dentro casa, era lui. Il soggiorno era immerso nella luce obliqua del sabato mattina, la polvere andava alla deriva nell’aria ferma. Ho fatto un giro delle altre stanze, per controllare che fosse tutto come lo avevo lasciato. Tutto era immobile nella penombra delle imposte semichiuse: una casa vuota, serena e silenziosa. Solo la stanza-studio era chiusa e appena mi avvicino per aprire la maniglia sento un rumore provenire dall’interno, prima indistinto (un acufene improvviso) poi sempre più ritmico e scandito. Tra-trac tra-trac tra-tra-trac. Sembrava qualcuno che sfregasse il plettro contro le corde mutate con la mano di una chitarra. È lì che tengo appese tutte le mie chitarre. Aspetto qualche secondo e il rumore si ferma. Apro lentamente la porta e dentro è nero fondo, le tende pesanti sono serrate e la luce sembra ritrarsi anche dalla soglia della porta. Un piccolissimo puntino di luce rossa si accende e brilla nell’oscurità più completa. Un sottile ronzio di rumore statico. Faccio un passo nel buio.

Bentornahto.

Stavi suonando la Stratocaster?

Nohstra preferihta.

È ancora accordata?

Necehssita rettihfica ai tahsti. Ma lehgno invehcchia behne.

Devo portarla da un liutaio, qua non ce ne sono più. Magari me la riporto a Roma…

No. Stratocahster rehsta. Noi suohna insiehme.

Va bene, allora prendo la Regal, ti accompagno.

(La cassa della chitarra mi preme già contro la gamba, lui deve averla tolta dal gancio dove era appesa al muro. Me la sta passando. La prendo e mi siedo a tentoni sul bracciolo del divano. Il buio è assoluto.)

Fa bluehs. Fa minhore.

Ok, Skip James.

Nohstra preferihta.

Va be’ però canta tu, non ho voglia.

I’d rather be the devil than to be that woman’ man

Aw, nothin’ but the devil, changed my baby’s mind

(La voce è proprio quella stridente strainfelice di Skip. Finito l’ultimo giro di accordi in minore aspetto in silenzio. Il ronzio dell’amplificatore acceso mi fa formicolare le tempie. Poi la luce rossa si spegne, tutto risprofonda.)

Cazzo di pezzo, non lo suono mai…

Comunque devo annaffiare le piante prima di andare, tu stai qua?

Ok, ti chiudo io quando me ne vado.

Quando esco dalla stanza buia la porta si chiude con un lamento e quel rumore ritmico ricomincia per un po’. Tra-trac tra-trac tra-tra-trac. Poi torna silenzio. Non sono mai stato capace di vivere in un paese sull’Appennino e questa è la mia colpa. Perciò quando torno – è la mia preghiera in suffragio – mi ricordo sempre di dare l’acqua alle piante succulente che con la pazienza della clorofilla aspettano il giorno che tornerò a seppellirmi lì per liberare il fantasma, lo aspettano serene dal balcone che dà sulla strada nera di sampietrini.

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